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PRESENTAZIONE DEL NUMERO 4/2013 DELLA RIVISTA EURASIA “IL SECOLO CINESE?”

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Venerdì 28 febbraio alle ore 17:30 presso l’Aula Magna della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori in via Filzi 14 a Trieste, l’Associazione culturale Porta d’Oriente (www.porta-oriente.it) ed il Centro Studi Eurasia-Mediterraneo (www.cese-m.eu) presentano il numero 4/2013 di Eurasia – Rivista di studi geopolitici intitolato “Il secolo cinese?“.

Interverranno redattori e collaboratori della rivista, dirigenti delle associazioni promotrici ed il Capo Ufficio Stampa dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia, il dott. Li Xiaoyong.

Nel corso dell’incontro verranno illustrati i saggi che sono stati raccolti in tale volume di Eurasia, approfondendo gli aspetti geopolitici, economici e storici che stanno portando il mondo al termine del “secolo americano” e verso un “secolo cinese”. L’evento rientra anche nel ciclo di appuntamenti promosso dall’associazione Porta d’Oriente al fine di presentarsi e di far conoscere il punto di vista della comunità cinese di Trieste.

PresentazioneEurasiaTs

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LE OLIMPIADI DI SOCHI RACCONTATE DA UN VOLONTARIO

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Le Olimpiadi di Sochi 2014 si avviano verso la conclusione e verranno sicuramente ricordate per il tanto “rumore” mediatico che hanno provocato a causa dell’elevato budget di spesa affrontato dalla Federazione Russa, del problema della sicurezza e del terrorismo, della rinuncia di alcuni capi di stato a prendervi parte, e della denuncia da parte delle organizzazioni internazionali riguardante il diritto degli omosessuali. La domanda legittima che ci si deve porre è se sono solo questi i Giochi Olimpici di Sochi oppure aver concentrato l’attenzione su alcune tematiche, per lo più influenzate dalla sfera geopolitica e delle relazioni internazionali, non è stato possibile assaporare completamente il clima di festa e di condivisione internazionale che caratterizzano solitamente una manifestazione sportiva come l’Olimpiade.

Abbiamo parlato di questo con Irina Osipova, presidente dell’associazione  RIM | Giovani Italo-Russi (РИМ | Российско-Итальянская Молодежь). attualmente volontaria alle Olimpiadi di Sochi ed ottima conoscitrice della realtà italiana, avendo vissuto per diversi anni a Roma, e della realtà europea grazie ai suoi diversi viaggi condotti con finalità accademiche.

Quale sono state le ragioni e le motivazioni che ti hanno spinto a divenire un volontario alle Olimpiadi di Sochi? Il fatto che si sarebbero svolte in un’area prossima alla turbolenta regione nord caucasica non ti ha preoccupato?

Le ragioni per cui ho deciso di essere una volontaria dei giochi Olimpici di Sochi sono molte. Essere un volontario di un evento di tale portata è un’esperienza unica ed una occasione da non perdere a livello formativo e sociale. Quasi sempre gli studi universitari non danno la possibilità di acquisire un’esperienza pratica: infatti, essendomi laureata alla triennale in Scienze Politiche, Diplomatiche e Organizzazioni Internazionali, partecipare come volontaria, ossia come membro del Comitato Organizzativo dei Giochi Olimpici, deve essere considerata un’occasione da vivere a pieno.
Lavorare con i comitati olimpici nazionali significa mettere in pratica le mie conoscenze linguistiche, organizzative, creative e di socializzazione. Inoltre, io amo molto la mia Patria e Sochi 2014 rappresenta un evento di grandissima importanza a cui mi sarebbe dispiaciuto mancare. Essere dal lato organizzativo di un tale evento aiuta a capire i meccanismi interni che rendono possibile tale manifestazione i quali risultano ovviamente molto interessanti agli occhi di qualsiasi giovane che vuole entrare nel mondo delle relazioni internazionali.
Per quanto riguarda la questione della sicurezza è evidente che nel periodo olimpico Sochi può essere considerata la città più sicura della Russia: essendoci atleti da tutto il mondo, 60 capi di stato e governo, rappresentanti degli IOC, non sono soltanto i servizi federali russi a preoccuparsi della sicurezza ma anche quelli degli altri paesi, numero ovviamente superiore rispetto a quei pochi che vogliono minacciare il regolare svolgimento delle Olimpiadi.

Nello specifico, di cosa si occupa un volontario? Ti senti parte integrante della macchina organizzatrice dei Giochi Olimpici ed in generale della Federazione Russa?

Ci sono 18 tipi di volontari a Sochi. Io, ad esempio, lavoro con i Comitati Olimpici Nazionali (NOC) e nello specifico sono un’assistente del Centro dei Servizi NOC del villaggio costiero. Ci sono poi altre mansioni che vengono ricoperte dai volontari: addetti alla cerimonia, assistenti del comitato olimpico internazionale, addetti al protocollo, agli arrivi/partenze, allo sport, all’assistenza medica, al controllo anti-doping, alle tecnologie, al press-center, al trasporto, all’accredito, al servizio eventi, ai servizi paraolimpici, ai servizi linguistici, ai servizi della mensa, all’alloggio e gestione dei villaggi olimpici.
Ogni gruppo di assistenti ha un proprio manager il quale lavora nelle strutture olimpiche per diversi mesi ed a volte anche per anni; in questo modo i volontari hanno delle guide in grado di spiegare loro le diverse attività che devono affrontare.
Certamente mi sento parte della macchina organizzatrice perché tutti i volontari sono considerati membri del Comitato Organizzativo dei Giochi Olimpici: ognuno nel suo piccolo cura un dettaglio che nel complesso, con gli altri 24999 volontari, diventa parte integrante di un grande lavoro.

E’ questa la tua prima volta nella regione di Krasnodar ed a Sochi? Consiglieresti ai turisti italiani e di tutto il mondo di visitare Krasnodar anche dopo le Olimpiadi? Perché?

E’ la seconda volta che vengo a Sochi, ero stata qui 15 anni fa. Decisamente consiglierei agli italiani e altri turisti di visitare Sochi ed in generale la regione di Krasnodar perché tale area è dotata di infrastrutture nuove e costruite nel rispetto degli standard internazionali. Al contempo a Sochi l’atmosfera che si respira è tipicamente russa e richiama al passato sovietico nei nomi delle strade e nel modo di fare.
Qualora si fosse stanchi degli standard “classici” europei, la Russia potrebbe essere un’alternativa interessante.

Prima dell’inizio dei Giochi Olimpici diversi media internazionali avevano lanciato l’allarme sicurezza a causa degli attentati di Volgograd; esiste un clima di tensione e paura attualmente a Sochi oppure, come spesso accade, la situazione è stata esasperata per fini mediatici?

A Sochi non se ne parla minimamente dei problemi legati alla paura del terrorismo. E’ chiaro che l’intento degli attentati di Volgograd era di minare l’attrattivita’ delle Olimpiadi anche se tale progetto e l’operato di coloro che volevano screditare in primis la Russia sono falliti.
Non molti sanno infatti che queste sono state le Olimpiadi invernali che hanno visto la partecipazione più grande e più numerosa di capi di stato e di governo, dato che non ha bisogno di spiegazioni e che supporta la fiducia verso la sicurezza a Sochi. Grazie alla mia esperienza come volontario posso dirvi che i servizi di sicurezza all’entrata nelle strutture olimpiche sono ben organizzati: per passare all’interno delle strutture bisogna inizialmente superare l’area per la procedura aeroportuale di controllo, avere o l’accredito, documento utile per lo staff ed i collaboratori della macchina organizzativa dei Giochi, oppure il passaporto del tifoso il quale serve per comprare il biglietto e transitare sul territorio degli impianti sportivi. Il territorio dei villaggi olimpici e’ un territorio cosiddetto “pulito” dove e’ vietato portare il cibo.
A Sochi tutti pensano a fare bene il proprio lavoro e a seguire una nuova vittoria della propria nazionale.

Hai vissuto in Italia, a Roma nello specifico, per diversi anni ed hai girato per l’Europa conoscendo la realtà dei paesi europei, possiamo quindi definirti una ragazza dallo spirito internazionale amante del proprio paese. Che cosa rappresentano quindi per te e per i giovani russi questi Giochi Olimpici? Che giudizio avete nei confronti delle tante critiche provenienti dall’Occidente?

Per fortuna tra i media occidentali ci sono coloro che scrivono la verità senza avere dei pregiudizi, anche se leggendo quanto scritto sui diversi giornali e comunicato attraverso i media internazionali il mio giudizio generale non può esprimere che tristezza perché alcune volte vengono riportate delle considerazioni su Sochi e sui Giochi Olimpici fatte in base alla disinformazione e per sentito dire. Ci sono poi coloro che vengono pagati per scrivere articoli mirati a screditare la Russia ed i Giochi Olimpici, persone che non fanno “il bene dell’informazione”, motivo per il quale non posso rispettarle e con le quali ci viene spontaneo dissentire tutti i giorni.
Non posso parlare per tutti i giovani russi, ma per me personalmente i Giochi sono un evento di portata internazionale che lasceranno il segno nella regione di Krasnodar sotto forma di un colossale patrimonio infrastrutturale. I Giochi Olimpici sono un’ottima occasione per far conoscere maggiormente la Russia agli spettatori di tutto il mondo, perché, secondo la mia opinione, è molto importante scoprire nuove realtà grazie alle immagini, agli spettacoli e alle notizie riproposte al mondo provenienti dalla fonte originale.

Consiglieresti ad altre persone la tua esperienza da volontario? Perché?

Essere un volontario è un lavoro che decisamente consiglierei a tutti senza differenza di età, perché grazie ad una simile attività ci si guadagna in termini di esperienza che non potrà mai essere persa col tempo. Oltre a quanto è possibile apprendere in termini lavorativi e nella pratica linguistica, i volontari hanno dei vantaggi materiali come l’alloggio, il vitto ed il trasporto (compresi i funicolari) locale gratuito. Si ha del tempo libero durante il quale vi e’ proposta un ampia gamma di offerta ricreativa ed in questo modo è possibile lavorare e divertirsi al contempo.
Non ci si annoia mai ed alla fine si hanno dei bei ricordi da raccontare e rivivere, tante foto da rivedere e molti nuovi amici.

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CORSO DI LINGUA PERSIANA

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L’Istituto Culturale dell’Iran a Roma, nel quadro delle sue attività culturali e didattiche, promuove il 34° CORSO di LINGUA Persiana.

Il corso ha la finalità di introdurre ad una delle principali lingue dell’Asia Centrale e Occidentali la cui grande rilevanza è legata alla sua straordinaria tradizione storico-culturale e al suo status di lingua ufficiale, nelle sue diverse varietà, in paesi strategicamente importanti sullo scenario internazionale come l’Iran, Afghanista, Pakistan, india e il Tajikistan.

Il corso è tenuto dall’insegnante universitario, si svolgerà dal 01 marzo 2014 presso la sede dell’Istituto in via Maria Pezzè Pascolato, 9 Roma e si articola in 18 ore di lezioni per ogni livello per un totale di 54 ore divise in tre livelli e avrà la durata di 12 settimane con la seguente cadenza: sabato: ore 09.00- 10.30 e 12.00.

La giornata dell’ultima lezione sarà interamente dedicata alla valutazione dei corsisti, con una prova scritta, ed una orale.

L’ammissione agli esami è subordinata ad una presenza continuativa alle lezioni non inferiore all’80% del monte ore totali.

A tutti coloro che avranno superato le prove finali verrà rilasciato un attestato di partecipazione.

Le iscrizioni sono aperte e limitate a N° 10 partecipanti per ogni singolo livell.o

Il termine ultimo per l’iscrizione è fissato al 28.02.2014

Iscrizione
istitutoculturaleiran@gmail.com
06 3052207 – 8

Note bene
Il giorno 01 marzo (prima lezione) è dedicato interamente al valutare il livello della conoscenza dei corsisti e le divisioni per l’orario, perciò si chiede la presenza di tutti interessati alle ore 09.30.

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FERROVIA BERLINO-BAGHDAD: UN CASO DI COOPERAZIONE EURASIATICA?

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Le opere dell’uomo sono sempre state simboliche. Ma ancor più, spesso, sono valsi, per farle entrare nella storia, la loro preminenza immaginifica, il loro peso estetico, la loro monumentalità.

La ferrovia, come arteria dell’umano, spesso risale la corrente della modernità, richiama momenti poetici. Prima di Guccini c’era stato Stendhal. Ancora prima dello scrittore francese era stato Giosue Carducci a modanare una storia ferroviaria, dedicando al frutto dell’uomo una poesia delle Odi Barbare del 1887. La ferrovia è viaggio, trait d’union tra cose necessariamente diverse, e quest’opera umana, ottocentesca per elezione, arriva ad unire due imperi, due manifestazioni dell’essere politico.
I due imperi in questione sono quello guglielmino e quello ottomano. Il progetto della Berlino-Baghdad nasce da un preciso impegno strategico tedesco finalizzato a spezzare l’unità geopolitica dell’impero britannico e mietere dividendi dove fosse possibile nelle terre sciite del Vicino Oriente.

Questa convinzione, maturata nell’ambito militare prussiano, affonda le sue radici nelle opere del professor Karl Haushofer. L’insigne studioso tedesco aveva già individuato, negli anni Dieci del ‘900, il leit-motiv che avrebbe condotto il valzer geopolitico del suo futuro prossimo. Ripartendo da Halford Mackinder, Haushofer indicava chiaramente nel fronte composto da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna la controparte talassocratica che si sarebbe opposta alla massa tellurocratica eurasiatica. Prima di qualsiasi unità eurasiatica, contemporanea o futura, Haushofer ne auspicava l’unione, come naturale coagulo metastorico per opporsi validamente agli alfieri marittimi del sistema cosmopolita del libero mercato internazionale.

In questo senso la Berlino-Baghdad, iniziata nel 1903 e conclusasi nel 1940, è la prova della visionarietà propositiva dell’accademico tedesco. Prima ancora che un progetto eurasiatico essa è il tentativo dell’Impero Tedesco di delimitare una sua zona di influenza nel Vicino Oriente. Nel 1903, quando i lavori iniziano, l’Impero Ottomano è ancora sommamente integro, e anche se ormai la longa manus di francesi e inglesi aveva strappato alla Sublime Porta l’Egitto (De Facto 1882) e la Tunisia (1878-1881), l’influenza turca continuava a permeare, in quanto unica guida credibile, il mondo musulmano. Logico quindi che Guglielmo II dialogasse con Istanbul alla pari, senza interferenze negli affari interni. Dove infatti inglesi e francesi approfittavano della crisi endemica che attanagliava Istanbul, Berlino cercò sempre il dialogo come attore responsabile e rispettoso dell’interlocutore.

Né la Berlino-Baghdad fu un caso isolato, citando gli esempi del dialogo internazionale tra il mondo tedesco e l’Impero Ottomano. Come ricorda Bernard Lewis nel suo Le origini della rabbia musulmana, «un altro esempio, un po’ più tardo, è quello del prussiano Helmut Von Moltke, nome famoso nella storia militare del suo paese, che nel 1835, da giovane ufficiale, si recò in Turchia in visita privata e fu incaricato dal Sultano di aiutarlo a riorganizzare l’esercito ottomano»1. E ancora: «Un esempio più recente, di nuovo tedesco, è Liman Von Sanders, generale di cavalleria che durante la prima guerra mondiale comandò le forze tedesche e, per qualche tempo, anche una parte dell’esercito ottomano»2.

È quindi chiaro come il dialogo tra queste due potenze, condensatrici di forza nei rispettivi campi geopolitici, sia stato continuo e fruttuoso. Pure negli anni della contrapposizione tra Cristianità e Islam Azim Efendi, ambasciatore ottomano, poteva andare in visita a Berlino (1790). D’altronde i due imperi si sono sempre sentiti parte di una più alta missione morale. Sbagliato o giusto che sia, i tedeschi si sono sempre sentiti campioni incompresi dell’Europa storica e i turchi hanno sempre dipinto sé stessi come fautori dell’unico vero impero musulmano quale foriero di un Islam vincente.

In termini odierni, il progetto tedesco fu quanto di più lontano dalla nozione di “colonizzazione economica”. Gli oneri di pagamento furono accollati quasi tutti alla Germania, che ottenne in cambio contratti di allocazione su quelle tratte. Per la Turchia il progetto costituì una grossa innovazione, che permise all’Impero Ottomano prima e alla Turchia kemalista poi, di catalizzare quella proiezione di potenza che ancora restava a sua disposizione (attraverso questa linea furono mobilitati i soldati dell’Emirato del Jebel Shammar). Fu anche attraverso questa opera monumentale che si diffuse ampiamente tra la cultura ottomana e postottomana l’influenza alto-culturale tedesca. Come ricorda ancora Lewis, «la filosofia tedesca, in particolare quella pedagogica, diventò di gran moda tra gli arabi e altri intellettuali musulmani negli anni 30 e 40, e l’atteggiamento antiamericano era parte del messaggio»3. Parte della storia sono anche le immagini del Muftì di Gerusalemme che stringe la mano delle SS nell’ambito di un’alleanza antibritannica e alcune mobilitazioni filotedesche in Iraq e in Iran negli anni della Seconda Guerra Mondiale, a dimostrazione di una unità d’intenti tra il mondo musulmano e quello tedesco che forse travalicava la tattica delle alleanze.

È opportuno tornare a Karl Haushofer che dimostra chiaramente di aver individuato, già a suo tempo, la sostanza reale alla base della comunanza tra “Ottomani” (in senso lato) e Tedeschi. Entrambi questi popoli, fautori nei secoli delle più disparate e caratteristiche forme statuali e storiche, si trovano su due linee di frattura dell’unità continentale. Dove queste faglie si scontrano con la massa africana e mediterranea sorge Istanbul. Dove l’Eurasia incontra la massa occidentale e pienamente anglosassone, sorge Berlino.

Note

1. B. Lewis, Le origini della rabbia musulmana, Mondadori, Milano, 2009 (©2004), p. 175.
2. Ibidem.
3. Ibidem, p. 309.

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BOSNIA, LE PIAZZE CHE VOGLIONO CAMBIARE IL PAESE

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Nel corso dell’ultima settimana la Bosnia-Erzegovina è tornata sotto l’occhio dei riflettori, per la prima volta davvero dopo la fine delle guerre che hanno devastato l’ex-Jugoslavia negli anni ’90, e nuovamente come un paese in fiamme. Cerchiamo di fare ordine tra gli avvenimenti degli ultimi giorni, per capire le radici di quella che qualcuno chiama già, forse avventatamente, “primavera bosniaca”, e quali siano le prospettive per l’immediato futuro.

Bosnia, i giorni della rabbia. 

Il 5 febbraio, a Tuzla (città nel nordest del paese), i lavoratori di alcune aziende in bancarotta rimasti senza lavoro sono scesi in piazza insieme agli studenti per protestare contro le autorità cantonali. I lavoratori chiedevano che venissero pagati i contributi previdenziali e pensionistici loro dovuti ormai da anni, oltre a condizioni di vita dignitose e posti di lavoro per i giovani. Migliaia di persone hanno bloccato il traffico per ore fino a quando lo stallo non è degenerato in scontri con la polizia: la giornata si è conclusa con un bilancio di 23 feriti e 27 arresti. Le proteste, in solidarietà con Tuzla e per alzare la voce contro la drammatica situazione del paese, si sono estese al resto del paese (si sono verificati disordini in almeno venti città) e sono proseguite per giorni: dalla fine della guerra non si era mai vista una così vasta manifestazione di generale scontento popolare. La manifestazione di Tuzla del 7 febbraio (la cifra dei partecipanti oscillano tra 6.000 e 10.000 persone, secondo la stampa locale) è degenerata nuovamente in duri scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. Alcuni di essi hanno dato alle fiamme la sede del governo cantonale; la stessa cosa è successa poco dopo a Sarajevo, a Mostar, a Zenica e a Bihać. Negli scontri tra forze dell’ordine e i manifestanti, la polizia ha usato gas lacrimogeni, spray urticanti e proiettili di gomma per disperdere i cortei, mentre i cittadini lanciavano sassi e bombe carta. Sono andati a fuoco anche i municipi di Sarajevo e Mostar, la sede della Presidenza nella capitale (insieme a una parte dell’Archivio Nazionale, che si trova nello stesso edificio), e le sedi dei principali partiti nazionalisti a Mostar. Le parole d’ordine dei manifestanti sono contro l’immobilismo del governo e la mancanza di lavoro; la richiesta più pressante è quella di misure urgenti contro la disoccupazione. “La gente non ha più niente da mangiare, ha fame, i giovani non hanno lavoro, non c’è più l’assicurazione medica, né i diritti elementari. Non può andare peggio” sono le parole di una donna in piazza a Tuzla. “Tutti devono scendere in strada, perché il Titanic sta per affondare”, le fa eco un altro dimostrante. La folla grida “Ladri, ladri!”.

L’8 ed il 9 dicembre i Presidenti dei cantoni di Tuzla, Bihać, Zenica e di Sarajevo hanno rassegnato le dimissioni (uno degli obiettivi della protesta di Tuzla era proprio ottenere le dimissioni del presidente del cantone), così come il direttore del coordinamento nazionale delle forze dell’ordine.
Il bilancio di queste giornate di guerriglia urbana è impressionante: 200 feriti in tutto il paese, soprattutto tra le forze dell’ordine; decine di persone fermate a Sarajevo, Zenica e Mostar (ma sono state tutte rilasciate dopo pochi giorni); danni agli edifici ed agli archivi amministrativi di tutte le principali città del paese.
Sabato mattina, il giorno della calma dopo questa tempesta di rabbia, nelle città coinvolte piccoli gruppi di cittadini si sono organizzati spontaneamente per ripulire le strade dai segni delle violenze e degli incidenti dei giorni precedenti, in un gesto di grande valore simbolico. Gli abitanti di Sarajevo hanno sottolineato, parlando con i giornalisti, come gli episodi dell’ultima settimana abbiano fatto rivivere a molti di loro i ricordi della guerra, pur senza voler stabilire nessi forzati tra vicende molto diverse. Ma soprattutto questo gesto voleva affermare con forza il rifiuto dell’etichetta di “hooligan” che la classe politica si è affrettata ad apporre ai manifestanti, nel malcelato tentativo di declassare le proteste a semplici atti di irragionevole violenza.
La volontà di proseguire con le proteste, infatti, non si è arrestata: diverse centinaia di cittadini sono tornati in piazza sabato e domenica scorsi, in modo pacifico.

Cosa ha scatenato le rivolte?

Sullo sfondo di queste piazze in fiamme si intravedono chiaramente i nodi irrisolti del post-Dayton, la stasi politica pressoché totale del paese, la situazione economica in costante peggioramento (proseguono le privatizzazioni di aziende statali e le perdite di posti di lavoro) e la piaga della disoccupazione: secondo l’ILO, il tasso di disoccupazione in Bosnia-Erzegovina sarebbe al 28%, e il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) oltre il 60%. Siamo vicini ai dati greci. Era solo questione di tempo, quindi, prima che tutto questo producesse delle conseguenze: le rivolte non
sono di certo state una sorpresa. Come afferma Zlatko Dizdarević, ex-direttore del quotidiano di Sarajevo Oslobodjenje, “sono a dire il vero stupito che tutto ciò non sia accaduto prima. Molto semplicemente perché sussistevano tutte le condizioni da manuale per un’esplosione”.
Lo Stato bosniaco, così come è uscito dagli accordi di Dayton che hanno chiuso la guerra in Bosnia nel 1995, è un “mostro incostituzionale in cui la classe media sta lentamente scomparendo, schiacciata da una classe dirigente incompetente e affamata di denaro, che ha rapinato i propri concittadini” (sono sempre parole di Dizdarević). Il sistema di pesi e contrappesi studiato a Dayton avrebbe dovuto garantire bilanciamento tra i vari partiti etnici e nazionalisti; il risultato è stata la divisione della Bosnia-Erzegovina in due entità (la Federazione di Bosnia-Erzegovina e la Republika Srpska) che vivono in una situazione di stallo ormai da vent’anni, dal momento che i conflitti di competenza tra i vari livelli di governo sono insanabili. Il sistema politico ed amministrativo in Bosnia, semplicemente, non funziona.

Non è casuale quindi, come fanno notare alcuni analisti, che siano stati presi di mira principalmente gli edifici dei cantoni, le dieci province in cui è suddivisa la Federazione di Bosnia-Erzegovina, che vengono individuati come l’esempio della frammentazione, dell’inefficienza e della corruzione del paese. Cinque su dieci sono stati dati alle fiamme o danneggiati durante le manifestazioni.
L’istituzione dei cantoni è così delegittimata che da più parti oggi ne viene chiesta l’eliminazione o il ridimensionamento.
Dal punto di vista economico, in questo momento, la Bosnia-Erzegovina è un simbolo di come il mix letale di “transizione efficiente” (che, in sostanza, significa privatizzazioni malriuscite) e politiche imposte dall’UE (combinate con sistema amministrativo inefficiente) stia creando un circolo vizioso di disoccupazione, precarietà e povertà. Conseguenza naturale di tutto questo è la rabbia profonda contro l’intera classe politica, che ormai non rappresenta nessuno se non le élite etniche. Di certo, sembra che la Bosnia oggi sia davvero parte dell’Europa – ma da un punto di vista molto diverso da quello immaginato dalle istituzioni europee: le sue piazze sono in rivolta, come quelle di Grecia, Spagna e Turchia.

In questi giorni difficili la classe politica bosniaca si è dimostrata in larga parte inadeguata dando mediocri prove di sé e chiara mostra di nervosismo, perdendo sempre più legittimità. Il presidente della Federazione ha dichiarato di essere solidale e di comprendere l’infelicità della gente. Il premier del cantone di Sarajevo ha insultato una giornalista in diretta tv poche ore prima di dimettersi; il Ministro degli Interni ha affermato di avere requisito chili di narcotici nel corso dei fermi dei manifestanti, per essere poi smentito dal Premier; sabato la polizia ha dichiarato che a Sarajevo si stavano verificando episodi di saccheggio, smentita con prove fotografiche da Al Jazeera Balkans. Allo stesso tempo, le forze di polizia hanno destato stupore per via della scarsa presenza e del debole intervento al momento degli scontri e dell’irruzione dei manifestanti nei palazzi istituzionali, portando alcuni analisti a chiedersi se si tratti solamente di impreparazione o se fosse una strategia studiata a tavolino.

Un altro sintomo su cui vale la pena soffermarsi è come tutto sia cominciato a Tuzla: quarta città del paese dal fiorente passato industriale, vive oggi una crisi profonda legata alla deindustrializzazione malgestita che la sta drammaticamente impoverendo. Tuzla ha una storia radicata di movimenti sindacali e rivolte sociali, ed è stata negli ultimi 25 anni una roccaforte progressista e non nazionalista legata all’SDP (Partito Socialdemocratico), che oggi figura tra gli imputati, sia a livello regionale che nazionale. La crisi dei lavoratori di Tuzla è un sintomo del collasso economico del paese: i manifestanti hanno dimostrato che la precarietà, risultato della privatizzazione e delle politiche neoliberiste in atto, sta contagiando tutti i settori della società. La loro rabbia ha rimesso la questione della politica economica al centro dell’attenzione, mentre i politici continuavano a giocare la carta delle “questioni etniche”.
Per capire l’esasperazione dei lavoratori di Tuzla, basta guardare al processo di privatizzazione della fabbrica DITA, raccontato in modo molto esauriente su East Journal.

Chi è sceso in piazza? Si può parlare di “primavera bosniaca”?

Alcuni analisti (come il professor Zdravko Grebo) hanno subito parlato di una “primavera bosniaca”, ma potrebbe essere prematuro allo stato dei fatti. Quello che si può fare in questo momento è rilevare alcuni elementi interessanti di questo movimento.
Il dato più notevole è la diffusione delle proteste, che hanno interessato più di trenta città, come non era mai successo in Bosnia dopo la guerra. Le proteste sociali non sono mancate negli ultimi anni (basti pensare alla “rivoluzione dei bebè” del luglio 2013), ma sono sempre rimaste divise, a tutto vantaggio della classe politica, che ha continuato a gettare benzina (le fratture etniche, in particolare) sul fuoco per distrarre l’attenzione dai problemi economici. Le proteste del 5 febbraio per la prima volta sono riuscite a rompere questo muro: a Tuzla è andata in scena la prima manifestazione unitaria di lavoratori dopo la fine della guerra. Fatto dal valore simbolico da non sottovalutare. I lavoratori di Tuzla hanno dimostrato che i diritti ed i bisogni collettivi vanno oltre le differenze etniche e confessionali, e che la loro protesta deve essere un campanello d’allarme per tutti coloro che ogni giorno soffrono ingiustizie sociali. Le proteste hanno senza dubbio un carattere politico ancora più che sociale, e sono politici gli obiettivi che si sono prefissate di raggiungere.
In piazza, accanto ai lavoratori (la classe media impoverita e delusa), spiccano gli studenti e tutti i gruppi sociali (come la comunità LGBTQ) i cui diritti sono negati da una classe politica inadeguata. La società civile, che aveva avuto un ruolo di primo piano nel “risveglio civico” del 2013, sta partecipando in modo variegato, prevalentemente a titolo personale. Membri di spicco della comunità intellettuale bosniaca, come il regista Danis Tanović e il musicista Damir Imamović, hanno appoggiato le proteste fin da subito.
Caratteristica molto interessante di questo movimento è il suo essere fluido: non esiste alcun coordinamento, assemblea o gruppo organizzato, non sono emersi leader, le proteste sono nate spontaneamente, organizzate sui social network. Il collante che tiene insieme tutte queste componenti è l’ostilità contro l’intera classe politica, unita ad uno spirito anti-nazionalista che per il momento deve ancora reggere la prova dei fatti. Soltanto a Tuzla l’elemento politico è più presente (la prima manifestazione è stata organizzata dai sindacati), e non a caso qui si è formato il primo “Plenum”, una piattaforma politica e sociale che ha formulato una serie di richieste. Anche a Sarajevo si cerca di fornire la protesta di contenuti chiari, e il “Plenum dei cittadini e delle cittadine di Sarajevo” ha avanzato richieste simili a quelle del suo omologo di Tuzla, concentrandosi soprattutto sulle dimissioni della classe politica.
Le proteste hanno molto presto sfociato in violenze. Diverse testimonianze affermano che, mentre la partecipazione ai cortei era trasversale, sono stati principalmente giovani (e le frange più radicali) a partecipare agli scontri e alle devastazioni. Ovviamente si è creata una spaccatura nel movimento, legata alla dibattuta questione su quale livello di violenza sia accettabile in situazioni simili, tra chi sostiene che il ricorso alla violenza sia una sconfitta (come i sindacati), e chi afferma che sia la conseguenza naturale di vent’anni di malgoverno.

Conclusioni.

Le proteste stanno quindi avendo i loro primi effetti, anche se è presto per capire se saranno positivi, o duraturi. In ogni caso, per la prima volta la classe politica bosniaca sembra temere davvero l’opinione dei propri cittadini, che stavolta sono usciti dalla gabbia delle frammentazioni etniche in cui sono rimasti chiusi troppo a lungo.
La trasformazione o meno di questo movimento in una vera e propria “primavera”, o la regressione a saltuaria esplosione di rabbia, dipende principalmente da come proseguirà il percorso di elaborazione di contenuti e richieste, in grado di dare al movimento prospettive future e stabilità, e forse di portare a cambiamenti costituzionali.
Inoltre, è da vedere se le proteste si estenderanno anche alla Republika Srpska (in cui non esiste il livello di governo cantonale intermedio), rendendo questo movimento davvero “bosniaco” a pieno titolo. Per ora abbiamo assistito a manifestazioni decisamente limitate (degni di nota un piccolo presidio pacifico di solidarietà nella capitale Banja Luka ed una manifestazione di un centinaio di persone che a Bijeljina si è scontrata con un gruppo di ultranazionalisti serbi). Lo stesso discorso vale per e le zone a maggioranza croata (Erzegovina), dove sono avvenute proteste rilevanti a Mostar (città ancora etnicamente divisa e dove il carattere anti-nazionalista della protesta è ancora da testare) e in pochi altri centri.
Bisogna ricordare che la Bosnia ha in calendario tre eventi importanti nel 2014: ci saranno le elezioni, la Coppa del Mondo di calcio vedrà tra i partecipanti per la prima volta la Nazionale bosniaca, e Sarajevo commemorerà il centesimo anniversario dell’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando – il colpo di pistola che scatenò la Prima Guerra Mondiale. È ancora presto per dire se il 2014 sarà l’anno che cambierà la Bosnia; ma le speranze in questo momento sono alte.

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I DUBBI DELLA TURCHIA E GLI INTERROGATIVI DELLE ELEZIONI DI MARZO

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In Turchia l’ondata speculativa contro la lira ( – 15,6 % dal maggio 2013) si sovrappone e si interseca con il conflitto fra AKP e Hizmet (il movimento di Fetullah Gülen) e con i dubbi e le incertezze suscitate dalla “bomba” siriana alle sue porte.
Inchieste giudiziarie su asseriti episodi di corruzione e interventi censori del governo sull’uso di internet – così come i provvedimenti dell’esecutivo riguardanti magistrati e ufficiali delle forze di sicurezza – sono solo episodi, certamente rilevanti ma parziali, del conflitto in corso.

Rimane l’interrogativo sul futuro di una situazione alquanto incerta. Il monito del Presidente Gül pronunciato all’annuale incontro con gli ambasciatori dà il segnale di un malessere e di un passo indietro rispetto a una politica estera pesantemente sbilanciata in senso antisiriano: “ricalibrare l’approccio generale della politica estera e adattarla alla situazione reale sul campo

Bayram Balcı, analista del Paese della Mezzaluna in forza al centro di ricerca parigino CERI, chiarisce la situazione, precisando che tra le posizioni di Erdoḡan e Davutoḡlu da una parte e quelle di Gül dall’altra “vi è sia una scissione a proposito della questione siriana sia un tentativo comune di recuperare la situazione, affidando al Presidente della Repubblica il compito di riaggiustare i cocci del vaso rotto (…) La politica di buon vicinato predisposta da Davutoḡlu è andata a gonfie vele per anni, poi è completamente andata in fumo con impantanandosi nel conflitto siriano. Con Davutoḡlu ed Erdoḡan che non vogliono riconoscere i loro errori”.
Anche se – osserva Balcı – il riavvicinamento turco-iraniano di questi ultimi mesi favorisce il fatto che ora “la Turchia non escluda più la possibilità di discutere con Assad, visto che nemmeno statunitensi e occidentali in genere escludono di trattare con lui sulla questione delle armi chimiche e sul contrasto ai jihadisti”.

C’è da osservare a questo proposito che statunitensi e loro alleati si muovono – come sempre – con spregiudicatezza (più i primi che i secondi, per la verità, essendo questi ultimi piuttosto abituati al conformismo di chi si muove a rimorchio) e con una buona dose di cinismo: così l’utilizzazione della formidabile macchina economica/comunicazionale di Gülen – oggi l’interlocutore ideale dell’Occidente, con le sue 3.500 dershane in territorio turco, in aggiunta ad altre centinaia di istituti privati controllati dall’organizzazione, ma ancor di più con la disponibilità di una parte consistente della magistratura- ha il ruolo di mettere da parte l’AKP e un certo Islam politico per spianare la strada a un alleato più in linea con i dettami ideologici e geopolitici atlantici. Le elezioni amministrative di fine marzo forniranno una risposta indicativa del grado di consistenza di tale progetto

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