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VIAGGIO IN COREA DEL NORD: L’ALTRO PUNTO DI VISTA

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Rappresentata come il Paese più isolato e impenetrabile del mondo, la Corea del Nord fa parlare di sé solo raramente. Titoli sensazionalistici e giudizi senza appello. Poi i riflettori si spengono e la Corea del Nord sprofonda di nuovo nel buio.

In questo testo i pregiudizi vengono accantonati e si dà voce all’altra parte. Come si mostra “Il Regno Eremita” al visitatore occidentale? Come il cittadino nordcoreano racconta la storia del suo Paese? Perché a Pyongyang è sparito il centro storico? Come è concepito il sogno della riunificazione? Qual è l’origine del culto dello Stato? Molte domande rimangono aperte. Si aprono possibili campi d’indagine. Tanti spunti di riflessione che gettano una nuova luce anche sulla nostra cultura.

 

 

Premessa

Uno dei paesi più impenetrabili del mondo, Il Regno Eremita, Il più grande enigma dell’Asia. Definizioni che evocano un luogo misterioso, inaccessibile, quasi sconosciuto. Eppure è difficile trovare un altro luogo sul quale siano state fatte affermazioni più perentorie e sibilline, più granitiche e definitive. Testi che sembrano non conoscere il dubbio, testi sui quali aleggia l’ombra della propaganda.

La Corea del Nord suscita domande. E proprio qui sta il suo fascino. Viaggiare in Corea del Nord significa attraversare un Paese-Fortezza, un Paese pervaso da un culto che si fonda su un mito, un Paese che ha intrapreso un originale esperimento. Ma se lo faremo con occhi nuovi e con la mente sgombra dai pregiudizi, e se saremo disposti anche ad ascoltare le ragioni degli altri, allora il nostro viaggio potrebbe rivelarsi sorprendente e potrebbe portarci fino a vedere noi stessi riflessi in uno specchio. E le domande che ci porremo, se pur resteranno in gran parte senza risposta, lasciando avvolto nel suo alone di mistero quel mondo che invano cerchiamo di scoprire, non mancheranno di gettare nuova luce sulla nostra cultura e sul nostro rapporto con gli altri.

 

 

Varcando la soglia: nel Regno Eremita

Dall’alto, adagiata nella grande piana verde, Pyongyang mi appare diversa da ogni altro luogo al mondo. Risaie e piantagioni di mais si estendono fino a pochi metri dalla pista d’atterraggio, sotto un cielo appena velato dalla tenue foschia, mentre qualche contadino si aggira per la campagna umida e rigogliosa.

Già all’arrivo all’aeroporto ho l’impressione di non essere in uno dei tanti “non luoghi” del mondo, luccicanti di lussuosi negozi, stessi marchi, stessi prodotti, stessi anonimi, asettici luoghi, ove a volte dimentico dove sono: Roma? Mosca? Pechino? No, qui sono a Pyongyang.

L’aeroporto internazionale Sunan ci accoglie in un grande salone grigio, semplice, essenziale, le pareti di un tenue e riposante verdino. Le formalità sono abbastanza veloci, i telefoni vengono rapidamente controllati e restituiti. La delegazione di ospiti stranieri è già attesa e non c’è bisogno di tanti controlli: saremo sempre seguiti da due guide e da un autista, che saranno i nostri angeli custodi per tutta la durata della visita.

Mentre ci dirigiamo verso l’hotel e la guida ci dà le prime informazioni introduttive sul Paese, la mia curiosità è tutta rivolta verso l’esterno, a controllare quanto, a un primo impatto, le descrizioni lette corrispondano al mondo realmente osservato. Già il discreto traffico di macchine, le molte persone per le strade e l’atmosfera serena sembrano smentire il clima cupo e triste dei racconti occidentali.

Mi è capitato spesso di leggere come Pyongyang sia una città surreale, artificiale, una specie di enorme palcoscenico senza attori.

La città appare ultramoderna e del suo volto antico non si vede traccia alcuna. Una scelta ideologica? O non sarà la folle idea dell’uomo nuovo che abbia portato ad eliminare il ricordo del passato? O il parto di un visionario progetto futurista? Sono le prime di una lunga serie di domande che mi porrò nel corso della mia visita in Corea del Nord. Provo a chiedere. No. Non è nulla di ciò che ho pensato. Ѐ la guerra. Soltanto la guerra. Pyongyang fu distrutta dalla guerra, l’ultima, la più disastrosa di una lunga serie di guerre. E non fu la memoria dell’antica città, peraltro mai esistita in Occidente, ma gli effetti di quella guerra tremenda e dimenticata ad essere rimossi dalla memoria breve dell’uomo occidentale.

La mia curiosità si fa più viva. Come i Nordcoreani raccontano la loro storia? Così acquisto un libro che presenta la Corea del Nord agli stranieri e cerco la storia di Pyongyang.

Migliaia di anni fa, uno dei primi Stati d’Oriente, quello del re Tangun, aveva stabilito proprio qui la sua capitale. Le genti di quel regno leggendario affermavano di discendere dal sole. Tanti secoli passarono, venne il periodo chiamato dei Tre Regni e Pyongyang divenne la capitale dello Stato di Koguryo. All’inizio del decimo secolo, Koryo fu il primo Stato unitario della penisola coreana e portò la sua capitale a Kaesong. Pyongyang continuò a mantenere un ruolo importante nella vita politica, economica e culturale del paese. L’età moderna fu segnata da una serie di invasioni, fino all’occupazione giapponese dell’inizio del secolo scorso. Infine venne la guerra statunitense, la più disastrosa. I massicci bombardamenti ridussero la città in cenere. Dell’antico centro e delle sue strette vie, dei suoi templi e padiglioni, delle sue fortezze e delle sue porte non restava più nulla. Tutto era da rifare. Ma il popolo coreano, con grande coraggio e determinazione, si mise al lavoro e riedificò dalle fondamenta la sua capitale. E lo fece secondo un progetto grandioso.

Altissimi edifici in pietra, in vetro e in cemento si levarono al cielo, giganteschi monumenti di marmo ornarono piazze vastissime, larghi viali vennero bordati d’alberi, enormi spazi furono trasformati in parchi e giardini perfettamente curati.

Come fu possibile un lavoro così straordinario? Penso che la risposta stia nella forte coesione sociale e nazionale del popolo coreano, che si fonda sull’esistenza  di un antico spirito comunitario. Quell’antico spirito fu mosso da un fulcro moderno, e la figura del Grande Leader divenne il cuore odierno di un sentimento antico.

Ѐ facile trovare, per tutto il Paese, libri che raccolgono aneddoti sui leader coreani. Sono tradotti nelle principali lingue europee: inglese, francese, spagnolo, russo. Sono storie che parlano il linguaggio del mito e che, soprattutto nel caso del Presidente Kim Il Sung, raccontano  le gesta eroiche di un personaggio fuori dal comune, coi caratteri tipici dell’eroe dotato di grande generosità, nobili sentimenti, amore per il popolo.

A questo punto, non possiamo non domandarci: come il mito del Grande Leader ha potuto essere trasmesso e conservato intatto attraverso il tempo?

Penso che osservare più da vicino la società e le istituzioni create nel corso di quasi settant’anni di storia socialista possa essere un buon modo per aiutarci a comprendere.

Prima di tutto le istituzioni culturali. Le scuole, dall’asilo all’università, hanno un ruolo fondamentale nel mantenimento di quello spirito comunitario che ruota attorno alla figura del Padre della Patria. I coreani si considerano un’unica famiglia, tutti figli dello stesso padre, armoniosamente uniti attraverso il comune interesse al mantenimento della patria socialista. L’identificazione con uno Stato che si prende carico di ogni bisogno dei suoi cittadini, per tutto il corso della loro vita, è totale.

Il nostro programma prevede la visita al Palazzo dei bambini. L’altissimo livello tecnico raggiunto dai fanciulli, spesso molto giovani, nell’uso di strumenti musicali, nel canto e nelle arti figurative ci sorprende tutti. Non possiamo non pensare alle nostre “recite di fine anno”. Un confronto impossibile.

Ancor più sorprendente è la visita alla Biblioteca Nazionale di Pyongyang. L’edificio ha più di 600 stanze: sale di lettura, sale per l’ascolto della musica, aule per lo svolgimento di lezioni, laboratori d’informatica, sale conferenze ed un’aula magna in grado di ospitare 800 persone. La ricerca dei testi è effettuata tramite postazioni informatiche collegate alla rete coreana chiamata Kwangmyong, mentre la distribuzione avviene per mezzo di un efficiente sistema di trasmissione automatica. Visitando la Grande Casa degli Studi del Popolo, come è anche chiamata, apprendiamo che qui la biblioteca non è concepita solo come luogo di ricerca e di lettura. Ho potuto osservare di persona due aule in cui si stavano svolgendo una lezione di storia coreana ed un corso di lingua inglese. La cortese giovane che ci faceva da guida ci ha spiegato che ci sono un centinaio di professori a disposizione di chi abbia bisogno di spiegazioni e traduzioni e che i cittadini coreani possono informarsi dei corsi di lingue e delle conferenze che si svolgono nell’edificio attraverso l’emittente televisiva nazionale.

Ma le sorprese non finiscono qui. Contrariamente a quanto saremmo portati a pensare, la storia antecedente al periodo socialista è oggetto di grande attenzione. Visitando Kaesong, ho potuto vedere con quale cura sono stati ricostruiti i quartieri tradizionali. Le case lungo il fiume, addossate l’una all’altra, con i loro tetti dalla forma a pagoda, danno al paesaggio umano un tocco di grazia ed eleganza, secondo quello che era un tempo il senso estetico coreano. I vecchi testi parlano di una particolare attenzione posta nella scelta del sito abitativo. L’ideale era un luogo riparato dalla montagna, abitata dai quattro angeli protettori: il dragone azzurro a est, la tigre bianca a ovest, l’uccello rosso a sud e la tartaruga a nord. Un corso d’acqua doveva scorrere davanti all’abitazione.  Oggi le file di case lungo il fiume, costruite nel fertile suolo verdeggiante di Kaesong, conservano abbastanza quel rapporto armonioso con la natura che era proprio delle case di un tempo.

Ma la notizia che più desta la mia meraviglia, riferita con orgoglio dalla guida locale, è che gli abitanti di Koryo, parola da cui ha origine la parola Corea, nella prima metà del XII secolo, due secoli prima di Gutenberg, furono i primi al mondo a inventare i caratteri metallici per la stampa.

Molti sono ancora i luoghi di interesse che potrebbero essere fonte di riflessione e motivo di confronto con la nostra cultura, dai templi buddhisti ai parchi naturali, dalle cooperative  agricole alle conquiste tecnologiche. Ma lo spazio è tiranno.

Concludiamo la nostra visita a Phanmunjom, dove una sottile striscia di cemento fra tre baracche azzurre segna il confine fra le due Coree. Siamo nella “zona demilitarizzata”, quella terra di nessuno che attraversa la penisola lungo il trentottesimo parallelo. Oggi non c’è nessuno a sud e il sogno della riunificazione sembra allontanarsi. I soldati nordcoreani raccontano la storia della separazione e il sogno, mai tramontato, della riunificazione. Qual è la posizione della Corea del Nord su questo importante problema?

Il governo della Corea del Nord ritiene che la riunificazione nazionale debba realizzarsi senza l’intervento di forze straniere e senza l’uso delle armi e, a partire dal 1953, in occasione dei colloqui di pace, ha riproposto la sua idea per oltre duecento volte. A questo punto una domanda sorge spontanea: come è possibile, dopo tanti anni, in presenza di sistemi economici così diversi  ed ormai consolidati, realizzare un tale sogno? La risposta della Corea del Nord a tale domanda è stata la proposta di una confederazione di due Stati basati sul principio della pacifica convivenza, ognuno rispettoso dell’altrui sistema economico e politico. Il Governo confederale dovrebbe rappresentare un Paese neutrale che non fa parte di nessuna alleanza militare internazionale. Non dimentichiamo, però, che a sud del trentottesimo parallelo vengono svolte regolarmente esercitazioni statunitensi in concomitanza con l’esercito sudcoreano e che gli Stati Uniti sono presenti nel Sud con oltre 40.000 soldati ed un arsenale atomico con più di mille armi nucleari dislocate in tutto il Paese. Ciò significa un’arma nucleare ogni 100 chilometri quadrati, la più alta densità atomica del mondo.

 

 

Considerazioni finali

Il viaggiatore che visita la Corea del Nord si trova di fronte a un mondo che, per la sua forte originalità e per la sperimentazione di un modello di società alternativo a quello del resto del mondo,  è continua fonte di riflessione su fenomeni che da secoli sono stati oggetto di ricerca da parte di filosofi ed antropologi.

Qual è il rapporto individuo-società? Quanto un sistema politico riesce a condizionare il pensiero umano? Che significa essere liberi? La parola libertà può avere un significato oggettivo? Come nasce un mito? Ѐ possibile realizzare una società giusta?

Il problema della società giusta è stato da sempre al centro della riflessione umana. Cos’è la giustizia in senso astratto nessuno è mai riuscito a definirlo. Tutti siamo però di fronte a concreti ed indubitabili esempi di ingiustizia: una società con persone ricchissime accanto ad altre senza lavoro, persone che vivono in dimore sontuose accanto ad altre che vivono per strada. Senza parlare di drammi sociali immensi, quali la droga, la prostituzione, la criminalità, il razzismo, il gioco d’azzardo. In Corea del Nord questi mali sono quasi inesistenti. La casa, la scuola e la sanità sono gratuite, così come le gite d’istruzione, i campeggi e le attività artistiche e sportive. I generi di prima necessità sono venduti allo stesso prezzo, molto basso, in tutto il Paese. Le tasse non esistono. Il lavoro c’è per tutti. La donna e l’uomo sono uguali e quindi la prostituzione è inesistente. La delinquenza è un fenomeno quasi sconosciuto. L’attenzione all’ambiente è esemplare: le vie sono alberate, i giardini e i parchi curatissimi, coperti di aiuole fiorite e frequentati da uccelli, le industrie pesanti lontane dalle città e stazioni di rilevazione dell’inquinamento controllano l’ambiente in tutto il Paese.

Percorrendo la Corea del Nord verso la frontiera cinese, si ha l’impressione di attraversare due mondi, il simbolo della recente storia umana: a est la verdeggiante campagna coreana, le montagne boscose, i corsi d’acqua cristallina, i villaggi immersi nelle piantagioni di riso e mais; a ovest il paesaggio cinese: una foresta di edifici enormi, centri commerciali che spuntano come funghi, un ponte sospeso sul fiume, rimasto incompleto sul versante coreano. Quel ponte rappresenta il futuro, il mondo globalizzato, ignaro della natura e dell’ambiente, verso cui tutti vogliono correre e trasportare dietro di sé anche il mondo coreano, ancorato caparbiamente alla sua visione della vita, a quella filosofia corale, radicalmente alternativa al nostro modo d’intendere il vivere sociale e le libertà individuali.

In Corea del Nord la dimensione collettiva della vita è nettamente prevalente su quella individuale: le manifestazioni coreografiche, l’organizzazione del lavoro nelle cooperative, le grandi parate militari, i gruppi di gente che la domenica si recano nei parchi, si riuniscono sotto gli alberi e cantano e mangiano insieme, le colonie dei bambini che vanno al mare con l’organizzazione del Partito sono fenomeni che ci parlano, sì, di un mondo controllato e disciplinato, ma anche di vita comunitaria e di solidarietà. Siamo sicuri che la soluzione occidentale, con il suo individualismo esasperato e i suoi fenomeni di solitudine, con le tragiche conseguenze che tutti conosciamo, sia la migliore in assoluto?

La mitologia costruita attorno al Presidente eterno e alla dinastia ereditaria, il culto della personalità, fenomeni sovente presi di mira dal sarcasmo e dal disprezzo occidentali, costituiscono un laboratorio contemporaneo che potrebbe far luce sulla nascita dei miti e sull’origine di una dinastia ereditaria che, caso unico nell’universo comunista, ha caratteri simili a quelli delle antiche civiltà. Ci si potrebbe chiedere in che misura la storia coreana, con le sue tradizioni buddiste e confuciane, abbia influito su una particolare forma di socialismo che non ha eguali in altre parti del mondo.

Purtroppo, ho avuto modo di osservare, in più di un’occasione, come l’Occidentale in visita in Paesi molto diversi dal suo, ponga sempre se stesso al centro del mondo e della storia, dando giudizi affrettati sulle altre culture, con la certezza dogmatica di chi ha risolto tutti i misteri della vita. Non appena vede un elemento che ricorda la nostra società del passato, subito dipinge “gli altri” come arretrati, fermi agli anni Venti o Cinquanta o Sessanta, come se l’Occidente fosse il fulcro attorno al quale ruota la storia del mondo, il centro temporale a cui tutti i popoli si devono uniformare. E più il sistema osservato è lontano da quello abituale, più l’esperimento sociale è audace, più i giudizi si fanno astiosi, intrisi di disprezzo, fino a rasentare la xenofobia. I Nordcoreani sono stati dipinti come un popolo di automi o di schiavi; a volte vivono in città vuote, finte, non si sa dove; altre si muovono a branchi, sempre in silenzio, vittime di un sistema spietato e disumano. A nessuno è venuto il dubbio che, se per caso fosse vero, ciò significherebbe che la mente umana è così fragile e malleabile che ogni sistema può farne ciò che vuole. E allora l’esperimento coreano potrebbe farci venire qualche dubbio anche sul nostro sistema, sulla nostra tanto sbandierata libertà. Siamo proprio sicuri che il nostro sia il migliore dei mondi possibili? In realtà, a qualcuno, già duecento anni fa, qualche dubbio era venuto.

“Nessuna persona ridotta in schiavitù vive in condizioni peggiori di coloro che credono a torto di essere liberi”. Lo disse Johann Wolfgang von Goethe.


Un gruppo di persone che fa il picnic nel parco di Moranbong, Pyongyang

Un gruppo di persone che fa il picnic nel parco di Moranbong, Pyongyang


 
Un'immagine della Corea tradizionale, museo di Sariwon

Un’immagine della Corea tradizionale, museo di Sariwon


 
Un antico gioco tradizionale, lo iut-nori, museo di Sariwon

Un antico gioco tradizionale, lo iut-nori, museo di Sariwon


 
Lezione di calligrafia, Palazzo dei Bambini, Pyongyang

Lezione di calligrafia, Palazzo dei Bambini, Pyongyang


 
Monumento alla riunificazione, Pyongyang

Monumento alla riunificazione, Pyongyang


 
Il confine fra le due Coree

Il confine fra le due Coree


 

 

Fonti

La Corée, aperçu général, Editions en Langues Etrangères, Pyongyang, 1999;

Kim Kwang Il, Pak Hak Il e Han Jong Yon, Anecdotes relatives à Kim Il Sung, Editions en langues étrangères, Pyongyang, 2011;

www.italiacoreapopolare.it

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VOTO LOCALE DAL RESPIRO INTERNAZIONALE. LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE IN KOSOVO

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Un’elezione lunga un mese e divisa in tre atti (1) quella che si è tenuta nella provincia separatista (e contesa) serba del Kosovo e con la quale sono state rinnovate le amministrazioni delle municipalità di cui si compone.

L’evento elettorale rappresentava il concreto attuarsi del punto 11 dell’accordo siglato il 19 aprile a Bruxelles dai premier Thaci e Dacic, secondo il quale consultazioni elettorali si sarebbero tenute su tutto il territorio della provincia autoproclamatasi Stato nel 2008 nel quadro di riferimento legale del Kosovo. Le elezioni del 3 novembre, quindi, hanno rappresentato la prima pietra dell’organizzazione territoriale della regione sotto il controllo di Pristina: con la chiusura di tutte le strutture controllate e finanziate dalla madrepatria e presenti nella parte settentrionale termina la presenza nominale serba nel Nord del Kosovo e si conferma, de facto, l’indipendenza della provincia a maggioranza albanese. Il voto, infatti, serviva soprattutto a dare forma e rappresentanti legali a quelle nuove strutture autonome dei serbi del Kosovo previste dall’accordo di Bruxelles, dotate di poteri esecutivi, propri organi di rappresentanza e inquadrate nella cornice costituzionale della Repubblica del Kosovo.

 

 

 

LOCALE DAL RESPIRO GLOBALE: GLI INTERESSI DIETRO LE ELEZIONI

Pur trattandosi di un voto per il rinnovo di istituzioni amministrative, i diversi interessi ancora presenti nella regione hanno trasformato la consultazione da puramente locale in qualcosa di interessante a livello internazionale.

Ovviamente, erano di particolare interesse per l’assetto interno e la maturità statuale del Kosovo: dato che queste erano le prime elezioni che si tenevano sull’intero territorio della regione – in precedenza i serbi del Nord avevano votato in elezioni organizzate da Belgrado –  Pristina doveva dimostrare di essere in grado di organizzare elezioni libere, democratiche e trasparenti. La realtà dei fatti ci restituisce una Repubblica del Kosovo come uno Stato ancora non maturo, tuttora in transizione, che non sembra pronto per camminare con le proprie gambe – il Kosovo è il Paese più povero del Vecchio Continente, con una economia inesistente, un tasso di disoccupazione superiore al 30% e un livello di povertà (intorno al 30%) direttamente proporzionale a quello della corruzione che dilaga in tutti i settori e a tutti i livelli – e con una fiducia nelle istituzioni ancora tutta da costruire (il dato relativo all’affluenza alle urne è significativo: al primo turno dei circa 1.700.000 potenziali elettori si sono recati alle urne assai meno del 50% degli aventi diritto, mentre il dato è sceso al 40% in occasione del secondo turno che si è tenuto l’1 dicembre). (2)

Anche Belgrado guardava con sguardo interessato a quanto succedeva ai seggi e attendeva con ansia i risultati del voto perché considerava le elezioni il mezzo formale per legittimare la propria presenza in Kosovo attraverso la vittoria alle urne della lista Iniziativa Civica “Srpska” – fortemente finanziata e sponsorizzata dalle istituzioni serbe – che avrebbe, conseguentemente all’affermazione elettorale, garantito il controllo della futura della Comunità delle Municipalità serbe (da adesso CMS).

I terzi attori ad avere interesse nel buon andamento delle elezioni erano l’Unione Europea e, di rimando, gli Stati Uniti – o viceversa – che consideravano le amministrative come parte integrante della messa in pratica degli accordi stipulati a Bruxelles e un passaggio obbligato in vista dei prossimi passi verso l’allargamento comunitario nella regione balcanica. Il 28 ottobre 2013 si era registrato un nuovo momentum nelle relazioni UE – Kosovo con la firma del Stabilisation and Association Agreement (SAA), primo passo concreto per l’integrazione europea della regione.

Queste elezioni hanno un’importanza eccezionale per il futuro del Kosovo. Così si era espressa l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e sicurezza Catherine Ashton nei giorni immediatamente successivi il primo turno del 3 novembre.

E per la politica europea, verrebbe da aggiungere. Per entrare in una seria relazione con Bruxelles, Pristina necessita di implementare i valori comunitari come la libertà, la democrazia, una buona gestione dello Stato, il rispetto dei diritti umani e la costituzione di uno stato di diritto. In quest’ottica, le elezioni amministrative rappresentavano un primo test sia per valutare la maturità del Kosovo, della sua politica, dei suoi rappresentanti e della sua popolazione sia, per Bruxelles, per valutare la politica estera e di allargamento dell’Unione Europea nella regione. Viste sotto questa luce, non meraviglia se le delegazioni internazionali hanno salutato come un successo un evento elettorale caratterizzato da standard minimi, scarsa partecipazione, incidenti ai seggi, liste elettorali piene di errori. Per i delegati dell’OSCE, organismo preposto alla supervisione elettorale, seppur costretti alla fuga dall’assalto ai seggi di Mitrovica Nord, il processo si è tenuto in modo regolare. Questo, invece, il giudizio di Roberto Gualtieri, capo delegazione dell’UE in Kosovo: “il 3 novembre è stato un giorno molto importante per il Kosovo. I kosovari hanno colto l’opportunità di votare, per esprimere il loro diritto democratico e per scegliere i loro rappresentanti. Nella maggior parte del Paese, la giornata elettorale si è svolta in maniera calma e pacifica. Certamente condanno gli attacchi nel Nord di Mitrovica/Mitrovicë che sono stati non solo attacchi ai seggi, ma al diritto fondamentale delle persone di esprimere la loro volontà attraverso le urne. Ciononostante, il fatto che le persone siano andate a votare dimostra il fallimento di coloro che intendevano boicottare il voto”. (3)

In Kosovo, la parola successo ha assunto, quindi, sfumature inattese e un carattere relativo perché il giudizio sullo svolgimento delle elezioni non poteva che essere positivo: la presenza di un failure State alle porte d’Europa è inaccettabile per le istituzioni comunitarie che in questa regione si stanno giocando una partita internazionale di vitale importanza. Ne andava delle strategie di politica estera operate da Bruxelles che ha dimostrato di non avere un piano B rispetto al perseguire un progetto di integrazione europea nei Balcani resosi sempre più necessario per contrastare l’attivismo diplomatico ed economico turco – le parole di Erdogan Türkiye Kosova’dır, Kosova Türkiye’dir (la Turchia è Kosovo, il Kosovo è Turchia)  pronunciate in occasione di una recente visita nella regione  ha posto un ulteriore preoccupazione nella diplomazia di Bruxelles – e russo; e ne andava, inoltre, del cinico prestigio di Lady Ashton, pronta a lasciare la carica nel 2014 non prima di aver segnato un risultato tangibile del proprio operato.

 

 

 

LE CONSEGUENZE DEL VOTO

 

La mappa del potere in Kosovo

Le elezioni amministrative hanno cambiato la mappa e gli equilibri del potere interno del Kosovo tanto che, come ha titolato il quotidiano di Pristina Koha Ditore, abbiamo assistito ad un Terremoto in Kosovo: gli elettori hanno punito, in via diretta, gli amministratori locali verso cui l’insoddisfazione era palpabile e, per via indiretta, i centri di potere della capitale.

Ramush Haradinaj, recentemente assolto dal Tribunale de L’Aja ed esponente di prestigio dell’Alleanza per il futuro del Kosovo (AAK), analizzando a caldo la natura del voto ha fatto notare come il risultato delle elezioni sia dovuto allo scontento e l’insoddisfazione per la governance a livello nazionale. Questo stato d’animo verso il potere centrale si riflette a livello locale dove i cittadini hanno manifestato la propria opinione verso coloro che li amministrano al livello più basso.

D’altronde, il dialogo con Belgrado e l’accordo di Bruxelles hanno fatto emergere un sentimento contrario alle linee della normalizzazione e, insieme, hanno fatto sì che l’attenzione si spostasse sui problemi interni e sulla necessità di riforme strutturali per lo sviluppo del Paese.

In tutto questo, un dato è innegabile: la perdita di consensi e di appoggio al sistema di potere centrato sulla figura del premier Hashim Thaci, il grande sconfitto. Il suo Partito Democratico del Kosovo (PDK) ha perso molte municipalità anche a causa dei numerosi processi per corruzione cui i suoi esponenti e candidati sono implicati; rete di corruzione che, secondo alcuni analisti, ha consentito finora a Thaci di mantenere il controllo su un Paese che è governato da strutture informali, la cui assemblea parlamentare è disfunzionale e sottoposta alla volontà di “supervisori invisibili” che sono le potenze del Quint (4).

I risultati dovrebbero portare a riflessioni profonde sugli equilibri di potere tra le forze politiche in vista delle prossime elezioni parlamentari. Se sino a questo momento, le forze di opposizione al potere di Thaci hanno mostrato incapacità di attrarre consensi necessari per formare una vera e credibile alternativa per un cambio di Governo, adesso, con la mappa del potere che ha assunto nuove forme, gli scenari futuri per la politica interna del Kosovo sembrano essere destinati a mutare: il PDK ha subito una forte perdita, in termini di suffragi e di municipalità, anche in molti centri considerati roccaforti del partito e, in virtù di questo, la Lega Democratica del Kosovo (LDK) si candida fortemente a divenire il primo partito del Kosovo dal momento che ha fatto registrare una vittoria in nove municipalità e ha ridotto il gap con il PDK in termini di voti; anche se, dopo 14 anni, Isa Mustafa, leader del partito, ha perduto la capitale Pristina che adesso verrà amministrata da Shpend Ahmeti del Movimento Autodeterminazione! (Vetevendosje), contrario all’accordo di Bruxelles. Male, contro ogni previsione, l’AAK di Haradinaj, cui non è bastato il ritorno in patria del vecchio leader per ottenere un risultato soddisfacente, che ha vinto in sole tre municipalità e perduto due importanti roccaforti come Peja e Gjakova.


 
Serbia, serbi e elezioni nel nord del Kosovo

Le elezioni amministrative hanno messo in evidenza un altro fatto difficilmente negabile: la divisione tra i serbi che vivono a Nord del fiume Ibar, nella parte settentrionale della regione, e quelli che, invece, vivono nelle enclaves sparse sul resto territorio. Il diverso tasso di partecipazione ne è la testimonianza tangibile: a fronte di un marcato astensionismo registrato nelle municipalità del nord (al primo turno poco più del 12%) ha fatto da contraltare una notevole partecipazione dei serbi che vivono a Sud del fiume Ibar dove si sono toccate anche punte del 60%. RadaTrajkovic, deputata della Lista Unica Serba al Parlamento di Pristina e cittadina di Gracanica alla vigilia delle elezioni aveva delineato le differenze tra i serbi che vivono in Kosovo: “Noi nelle enclaves abbiamo già passato un processo difficile che aspetta i Serbi del Nord. Siamo passati nella posizione che dobbiamo lottare da soli, ma nel Parlamento del Kosovo adesso si sente la voce di resistenza. Noi abbiamo lottato per il riconoscimento, ma come spiegarlo ai serbi del Nord”.

Il dato sopra riportato non deve sorprendere perché la popolazione del Nord non è preparata a lasciarsi alle spalle gli anni di rivendicazioni e di guerra. Quattordici anni sono pochi per dimenticare e l’idea sostenuta da Belgrado e da Bruxelles, che i serbi avrebbero partecipato numerosi al voto, si è rivelata essere un puro azzardo.

Aleksandar Vucic, Presidente del Partito Progressista Serbo, aveva rivolto un accorato invito a serbi del Nord del Kosovo a recarsi alle urne: “voi siete gli unici che possono mantenere e preservare la Serbia in Kosmet”. Al primo turno, invece, i serbi non hanno dato ascolto alle voci belgradesi e hanno disertato le urne. Neppure Krstimir Pantic, l’uomo forte di Belgrado in Kosovo, candidato a sindaco di Mitrovica Nord e esponente di spicco della Iniziativa Civica “Srpska” è riuscito a convincerli. Se in questa elezione l’importante era soprattutto partecipare, ha ragione Slobodan Eritz a sostenere che le elezioni nel nord del Kosovo sono state boicottate e hanno subito un fiasco completo e che, analizzate dal punto di vista della sovranità serba, le elezioni che si sono svolte nella provincia meridionale serba del Kosovo e Metohija, sono state perse. La sconfitta non risulta dal risultato delle elezioni, ma dalla decisione del Governo della Serbia di invitare i serbi del Kosovo a partecipare alle elezioni organizzate dal Governo separatista di Pristina. I serbi del nord del Kosovo, nonostante le forti pressioni ricevute da Belgrado, hanno boicottato le elezioni: al primo turno ha votato circa il 5%, e al secondo, dopo una feroce pressione politica e mediatica, meno del 20%. I serbi del nord del Kosovo considerano queste “chiamate”, questi inviti delle autorità di Serbia, in realtà, come costrizioni a vivere in una auto-proclamata “Repubblica del Kosovo”, che non riconoscono (5).

Eppure le elezioni amministrative erano importanti proprio per il Nord del Kosovo visto che da queste sarebbero stati eletti coloro che devono, adesso, rappresentare i vertici della costituenda CMS. Per questo motivo, Belgrado aveva indicato (e confidato) nella partecipazione alle elezioni l’unico mezzo per proteggere gli interessi serbi in Kosovo e invitato gli elettori a convogliare le loro preferenze sulla lista Iniziativa Civica Srpska i cui candidati sono stati presentati come coloro che tuteleranno la Serbia ed i serbi in Kosovo. La lista Srpska ha vinto in nove delle dieci municipalità a maggioranza serba (6).

Ma ha vinto davvero Belgrado?

La narrazione serba continua a presentare la CSM come una vittoria dello Stato serbo in Kosovo e la possibilità scaturita dalle urne di poterla costituire non può che essere considerata una vittoria: la Serbia ha ottenuto in Kosovo una vittoria storica, grazie alla quale sono state poste le fondamenta per la creazione della Comunità dei comuni serbi – ha dichiarato il consulente del Presidente dello Stato Marko Djuric – Dopo i risultati del secondo turno delle elezioni amministrative in Kosovo nessuno, nemmeno le autorità di Pristina, potrà fermare la formazione della Comunità dei comuni serbi. Una posizione forte della Serbia sul terreno renderà più forte la sua posizione nel dialogo che si conduce a Bruxelles. Alle autorità di Pristina non piace tutto questo (7). Vista in questa luce appare di fondamentale importanza la vittoria dei candidati della Srpska perché, essendo più vicini politicamente al Governo di Belgrado, rappresentano il modo più sicuro per fare in modo che la Serbia possa continuare a curare i propri interessi e quelli dei serbi della regione attraverso il controllo della CMS.  

Se la possibilità di costituire l’associazione delle municipalità serbe era un qualcosa di ascrivibile alla realtà più probabile, quel che a Belgrado non avevano messo in preventivo alla vigilia era di trovarsi a dover fronteggiare un confronto fra serbi sfociato nel successo del boicottaggio del primo turno delle elezioni nelle municipalità settentrionali. Questo rappresenta una sconfitta soprattutto per l’uomo emergente della politica serba, quell’ Alexander Vucic il cui futuro politico dipende dalla riuscita della prospettiva europea (che a sua volta dipende dalla capacità di Belgrado di attuare l’accordo di Bruxelles) e che ha sostenuto con forza l’accordo di Bruxelles invitando i serbi nel Nord del Kosovo al voto in nome dell’Europa: gli albanesi sono i vincitori perché sono state organizzate le prime elezioni in tutto il territorio della provincia, anche se poi effettivamente boicottate dal nord. Il perdente è la Serbia, per meglio dire l’attuale Governo di Belgrado, che per favorire l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea fa concessioni che non hanno mai fine e che sono dannose per gli interessi nazionali. Nelle parole di Slobodan Eritz, direttore della rivista Geopolitika, è ancora viva, dunque, l’opinione che vuole la Serbia asservita ai desideri di Unione europea e Stati Uniti, vale a dire riconoscere il Kosovo in maniera incondizionata.

 

 

 

PROSPETTIVE

La prima sfida che attende Pristina e Belgrado afferisce proprio dalla Comunità delle Municipalità serbe: dagli anni 90′ fino al mese di aprile di questo anno tutte le decisioni riguardanti il Kosovo erano di competenza della Serbia. La costituzione di questa entità amministrativa cambia le prospettive. L’accordo firmato a Bruxelles sottintende un bilanciamento dei poteri nella parte settentrionale della regione e non un riconoscimento della sovranità di Pristina ed è strettamente legato a garantire una forma di autonomia da Pristina ai serbi del Nord del Kosovo rappresentata dalla stessa Comunità che, parafrasando le parole di Aleksandar Vulin, direttore dell’ufficio per il Kosovo e Metohija, non sarà una organizzazione non governativa, avrà una sua rappresentanza a Bruxelles e sarà internazionalmente riconosciuta, avrà il pieno controllo su sanità, istruzione, crescita economica e pianificazione territoriale. Adesso, le parti in causa dovranno lavorare per soddisfare la necessità di trasformare le linee dell’accordo in incentivi tangibili per i serbi del Nord Kosovo per poter andare oltre l’astratta previsione della CMS.

Le parole di Kristmir Pantic, eletto sindaco di Mitrovica Nord a capo della lista Iniziativa Civica Srpska, sono un evidente sintomo di come l’Associazione delle Municipalità serbe rappresenti una barriera per impedire il riconoscimento del Kosovo quale Stato indipendente: “(in) nove comuni con la maggioranza serba hanno vinto la politica ufficiale dell’esecutivo serbo e la Serbia. Grazie a questa vittoria sarà continuata la nostra lotta per la sovranità serba in Kosovo. In nove comuni dove avremo la maggioranza i serbi continueranno a proclamare ad alta voce che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo”. È chiaro come la Serbia e i suoi rappresentanti nel Nord del Kosovo non accetteranno l’interferenza di Pristina e questo è difficile da accettare per le istituzioni kosovare. Gli albanesi guardano alla nascita dell’Associazione alla stregua di una nuova Repubblica Srpska, un’entità separata all’interno del proprio territorio ma oltre il suo controllo. Pur non avendo lo stesso carattere giuridico della Republika Srpska di Bosnia a Pristina si teme ancora che si arrivi ad una bosnianizzazione della regione, timori alimentati anche dal fatto che l’accordo di Bruxelles non fa menzione dei legami tra la CMS e Belgrado e, soprattutto, non li regolamenta.

Pristina, ovviamente, vorrebbe il controllo del Nord ma non potendolo ottenere nel breve periodo – se non ricorrendo ad un improbabile atto di forza – può attuare una strategia di lungo periodo  proprio in virtù dei risultati delle elezioni amministrative:  la lista Iniziativa Civica Srpska affine al credo politico di Belgrado, infatti, dovrà condividere il potere locale con altri partiti, tra cui, per esempio, la Iniziativa Civica SDP di Oliver Ivanovic, più aperti al dialogo con Pristina. Questo scenario potrebbe far vacillare la visione strategica di Belgrado dal momento che, per governare, la Srpska dovrà formare delle coalizioni con altre forze politiche. La cornice di riferimento del discorso strategico serbo non è solida: se non fossero state ripetute le elezioni nei seggi di Mitrovica si sarebbe rischiato di avere un sindaco e una maggioranza del consiglio municipale albanesi e a quel punto il castello di carte sarebbe crollato. Slobodan Eritz è convinto che, una volta appurata la riuscita del boicottaggio, siano stati inscenati finti incidenti, al fine di trovare una ragione formale per la ripetitività del voto, e poi, attraverso una maggiore pressione politica e mediatica si sia alzata l’affluenza dei serbi alle urne, in quanto questi ultimi sapevano di quanti voti avevano bisogno per far eleggere un sindaco serbo. Nell’opinione del giornalista esperto di questioni balcaniche Jean-Arnault Derens, annullare le elezioni permette ai protagonisti degli “storici” accordi degli scorsi mesi di non perdere la faccia, gettando l’intera responsabilità dell’accaduto addosso ai “radicali” mascherati, impossibili da riconoscere. (…) Nel breve termine, gli incidenti fanno il gioco di Belgrado, perché se le elezioni si fossero svolte senza intoppi, il passo seguente sarebbe stato necessariamente il riconoscimento dell’indipendenza della provincia. La Serbia può guadagnare tempo (8).

Può guadagnare tempo ma l’attuale posizione di forza data dalla vittoria della Srpska potrebbe indebolirsi nel medio periodo perché strettamente legata ai risultati delle elezioni. Se questi non si confacessero alla visione serba? Se vincessero candidati non legati ai partiti di Belgrado? Se a vincere fossero gli esponenti dei partiti che aprono al dialogo con le istituzioni della provincia? (9)

Nel medio e lungo periodo, questo scenario avvantaggia Pristina che può cercare di influenzare la CMS facendo pressione su quei partiti serbi che sono aperti ad una collaborazione per, poi, vincolarli alla propria linea politica.

Rimane in sospeso la questione relativa al riconoscimento del Kosovo: la legittimità internazionale delle istituzioni di Pristina è strettamente legata ai desideri politici serbi e rimane legata al cammino europeo di Belgrado.  Se si pensa che anche l’implementazione dell’accordo siglato a Bruxelles non ha garanti e garanzie internazionali e che questa si basa solo sulla buona volontà delle due parti, si comprende come l’edificio sia costruito su fondamenta tutt’altro che solide.

Il successo di facciata delle elezioni amministrative permette, però, alla Serbia e al Kosovo di rilanciare e di continuare il proprio cammino verso l’integrazione nelle strutture comunitarie. Come ben fa notare Matteo Tacconi in un articolo apparso su Longitude, una delle ragioni di questo desiderio europeo è money, il denaro. (10) Nikolic, una volta eletto Presidente nel maggio dello scorso anno, dipinse il proprio Paese come una casa con due porte, una rivolta verso l’UE e una rivolta verso la Federazione Russa. Quest’ultima, nonostante gli investimenti in settori chiave non sembra in grado di generare cambiamenti nella vita economica della Serbia e, per questa ragione, l’avvicinamento a Bruxelles è diventato prioritario per Belgrado. Ovviamente, anche Pristina ha l’occasione di rilanciare la propria debole (se non inesistente) economia con il supporto forte e presente dell’UE attraverso i fondi IPA (Instrument for Pre-Accession Assistance) destinati alla regione.

L’integrazione europea deve essere giocata su tre diversi campi: sulla progressiva stabilizzazione della regione, sulla riconciliazione e sullo sviluppo economico e sociale. Se per quest’ultimo aspetto si sono fatti considerevoli passi avanti, le recenti elezioni amministrative kosovare hanno lasciato in sospeso i problemi relativi ai primi due campi di azione. Il cinismo spicciolo di Catherine Ashton e il suo desiderio di lasciare un segno tangibile del proprio operato prima di lasciare la carica di Alto Rappresentante per la politica estera europea hanno fatto sì che  l’accordo del 19 aprile fosse basato sul concetto di mono-etnic based solution e rendesse vani 14 anni di tentativi di costruzione di uno Stato multietnico con la netta separazione tra i serbi e gli altri. La formazione della CMS renderà più profonda questa divisione: è improbabile, infatti, che l’implementazione delle linee guida dell’accordo porti ad una totale integrazione dei serbi del Nord del Kosovo all’interno della cornice legale del nuovo Stato; è, bensì, più probabile che si verifichi un accentuarsi della divisione interetnica resa possibile stavolta dalla separazione istituzionale rappresentata dalla CMS.

Alla luce di questo, non è facile capire chi sia il reale vincitore delle elezioni.

 

 

 

Note 

 

1.         Il primo turno delle elezioni si è tenuto il 3 novembre mentre il secondo l’1 dicembre. Il 17 novembre, invece, si è ripetuto il voto nei tre seggi di Mitrovica Nord assaltati durante il primo turno e che ha spinto la Commissione Elettorale Centrale di Pristina a rendere nullo il voto e a ripeterlo.

2.         Per alcuni dati sull’economia del Kosovo consigliamo la lettura dell’articolo http://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/La-fragilita-economica-del-Kosovo-130750 mentre per i dati relativi alle elezioni rimandiamo al sito ufficiale della Commissione Elettorale Centrale di Pristina http://82.114.76.26/NightResults/Results.aspxRaceID=1&UnitID=1&IsPS=0&Turnout=3&LangID=1

3.         http://www.partitodemocratico.it/doc/262121/elezioni-amministrative-in-kosovo-gualtieri-importante-passo-in-avanti-verso-la-democrazia.htm

4.         Per comprendere le modalità decisionali in Kosovo rimandiamo all’interessante articolo di Henrique Schneider, The Village and the Municipality in political struggle: a case study in today’s Kosovo, Balcanistica, num. 26, 2013, pp. 161 – 181.

5.         Intervista completa a Slobodan Eritz http://www.eurasia-rivista.org/intervista-sulla-situazione-in-kosovo-e-metohija-a-slobodan-eritz/20456/

6.         La lista Iniziativa Civica Srpska ha vinto a Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan, Leposaviq, Novo Brdo, Gracanica, Partes, Ranilug, Klokot. A Strpce, invece, a vincere è stato il candidato del Partito Liberale Indipendente (SLS), favorevole al dialogo con Pristina.

7.         http://voiceofserbia.org/it/content/djuric-nessuno-pu%C3%B2-formare-la-creazione-della-comunit%C3%A0-e-comui-serbi

8.         http://www.lindro.it/politica/2013-11-06/106929-kosovo-per-la-normalizzazione-servira-tempo

9.         Anche una vittoria al ballottaggio di Oliver Ivanovic con la sua Iniziativa Civica SDP avrebbe creato delle difficoltà a Belgrado nel mantenere il saldo controllo dell’Associazione delle Municipalità considerato il fatto che Ivanovic si è sempre dichiarato favorevole al dialogo con Pristina e che questi non appartiene a nessun partito di stanza a Belgrado.

10.       Tacconi M., Let’s Make a Deal, Longitude, numero 28, anno 2013, p. 71.

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SOCHI 2014: DI NUOVO “SPORT E POLITICA”

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Obama ha già fatto sapere che non andrà, così come tutti gli altri membri della sua Amministrazione. E lo stesso farà l’accoppiata francese Hollande-Fabius. A costoro, presumibilmente, si accoderanno, “in rappresentanza” delle rispettive popolazioni, i capi di Stato ed i presidenti del Consiglio di altre nazioni-simbolo della democrazia.

Sì, perché il motivo del rifiuto di  presenziare alla cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici invernali di Sochi, che si terranno nella città russa dal 7 al 23 febbraio del 2014 (con la coda di quelli “paraolimpici” dal 7 al 16 marzo),  muove ufficialmente dalle “discriminazioni” che il Cremlino eserciterebbe nei confronti dei “diritti degli omosessuali”, o della “comunità gay”, com’è d’uso affermare in ossequio al linguaggio “di genere” e “comunitario” di fabbricazione anglosassone.

Nel frattempo, la suddetta “comunità” approva, facendo la conta delle defezioni.

A completare lo sgarbo (in verità, una puntura di spillo), vi è l’atleta scelto dalla Casa Bianca per rappresentarla in quest’occasione ufficiale. Si tratta di Billie Jean King, una “icona” (termine quanto mai fuori luogo in Russia…) del movimento LGBT americano, e più precisamente di quella sua parte inserita del mondo dello sport a stelle e strisce.

Ora, sono pienamente consapevole che tutto ciò è considerato dai più come un argomento al limite del pittoresco che non meriterebbe tutte queste attenzioni. Peccato però che in questi stessi giorni (tanto per fare un esempio), personaggi del calibro di Kerry o McCain sono intenti a tempo pieno nella mobilitazione della “piazza” ucraina che reclama l’adesione all’Unione Europea, per strappare quella nazione così vicina alla Russia dalla sua sfera d’influenza.  La politica internazionale, d’altra parte, è fatta di queste cose: pochi comandano veramente, e gli altri finiscono sotto il mantello di quei pochi. Come noi europei, costretti nella camicia di forza di una “unione” che va rivelandosi per quello che era sempre stata nelle intenzioni dei suoi promotori “europeisti”: l’Unione Euro-Atlantica.

Una volta chiarito questo, si capisce quindi bene il fatto non marginale che sia l’America in prima fila – e non l’UE stessa – a scaldarsi per una “Ucraina in Europa”.

Ma più che altro bisogna rendersi conto, e una volta per tutte, che quello che viene definito “soft power” (propaganda, persuasione palese e occulta, “cultura” e “intrattenimento” eccetera) non è meno incisivo (e decisivo) dell’“hard power” (le care vecchie “cannoniere”, insomma).

Così, tutto questo scandalizzarsi regolare e sincronico da parte dei politici occidentali per le “discriminazioni verso i gay” in giro per il mondo, oltre che rappresentare uno strumento per riscuotere del consenso (soprattutto in casa propria) ed un corrispondente dissenso contro il nemico, costituisce un’arma vera e propria, attraverso la quale, nel caso riuscissero a provocare una ‘falla’ nella diga posta dalle autorità russe, poter poi inserire altri tasselli di quello che i teorici dell’ideocrazia americana prefigurano come un fantastico “Mondo nuovo” nel quale tutti saranno finalmente “liberati”.

In altre parole, in tutta questa preoccupazione per i “diritti dei gay” (ma anche delle “donne” o delle “minoranze”, assurte a categorie monolitiche) c’è, da una parte, l’evidente uso strumentale di una questione creata a tavolino per scopi propagandistici, dall’altra,  la volontà di provocare e, progressivamente traviare, una società che non ne vuol sapere di “aggiornarsi”.

E non si creda che alla base di tutto ciò vi sia l’amore per la “diversità”, o meglio per l’evidente e provvidenziale varietà insita nel genere umano. Ha affermato la portavoce della Casa Bianca: “La nostra delegazione a Sochi rappresenta la diversità che gli Stati Uniti costituiscono”. Ci vuole effettivamente una bella faccia tosta per dire queste cose ai russi, che nella loro Federazione comprendono oltre centocinquanta popoli autoctoni diversi, mentre gli Stati Uniti, a parte le “comunità” di immigrati ostentate come prova della loro “tolleranza”, non hanno saputo far di meglio che rinserrare in “riserve” tutti i popoli preesistenti all’arrivo dei “Padri fondatori”.

Attenzione, dunque, perché nessun piano dell’azione a favore della “comunità gay” esclude l’altro. Perciò sbaglia sia chi vede in tutto ciò della mera “aria fritta”, sia chi pensa che l’unico obiettivo occidentale sia la conquista di un puro “spazio geopolitico” per arraffare risorse e dominarne le popolazioni per soli fini economici e “di potenza”.

No, l’obiettivo, se così si può dire è “di civiltà”, ma una “civiltà” per l’appunto a rovescio rispetto a quella conosciuta sin qui e che tutti i popoli hanno considerato “normale” nelle sue linee essenziali e archetipiche.

Intanto, noi italiani, che stiamo sempre coi piedi in due staffe (e meno male, considerata la situazione!), non è chiaro che cosa faremo, ovvero se ci allineeremo agli altri occidentali o meno. Ci limiteremo – credo – alle solite dichiarazioni di facciata per non irritare “l’alleato”, ma alla fine, come nel 1980 alle Olimpiadi di Mosca, manderemo regolarmente non solo la nostra delegazione sportiva, ma anche alcuni rappresentanti del governo, che non può non tenere nel debito conto l’importanza della Russia sia dal punto di vista strategico sia da quello appena menzionato della salvaguardia dei fondamentali della “civiltà”.

Come ha recentemente e magistralmente dimostrato Vladimir Putin che, in visita al Papa, gli ha donato un’immagine della Vergine Maria, di fronte alla quale s’è sentito di in dovere, lui per primo (!), di porgere il dovuto rispetto.

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LA FIAMMA DI GAZPROM ILLUMINA L’AQUILA RUSSA

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Sia che si utilizzi il calendario gregoriano oppure, nel caso degli ortodossi, quello giuliano, il 2013 sta in ogni caso volgendo al termine. Un anno ricco di soddisfazioni per la Russia e di conseguenza per Vladimir Putin, il quale ha consacrato con le questioni siriana, prima, e del nucleare iraniano, poi, il definitivo ritorno del paese eurasiatico quale protagonista delle relazioni internazionali. Tuttavia, le soddisfazioni non sono venute esclusivamente dalle qualità diplomatiche del presidente russo e del suo brillante ministro degli Esteri, Lavrov, ma è stato anche il colosso energetico di stato Gazprom – efficace e convincente strumento di politica estera di Mosca in Europa e nel mondo – a mietere importanti successi a livello internazionale, stringendo accordi di rilevanza strategica.

Il più recente e importante sotto molteplici punti di vista è ovviamente quello che ha riguardato l’Ucraina di Yanukovich, il quale, dopo essere rimasto alla finestra nei giorni delle intense ma spaesate manifestazioni (le varie fazioni scese in piazza richiedevano un’adesione all’UE in termini irrealizzabili nella realtà), ha convenuto nell’accettare la proposta del Cremlino, rivelatasi l’unica affidabile. Questa ha avuto come basi dell’accordo l’investimento di 15 miliardi di dollari nel debito di Kiev e soprattutto l’ingente sconto sulle forniture di gas – pari a un terzo del prezzo attuale – che diventerà effettivo dal 1 gennaio 2014, garantendo più che una boccata d’ossigeno alla traballante economia ucraina. Dovendo questa fare affidamento più sul pragmatismo di Mosca (e quindi di Gazprom), che sulle ingannevoli sirene di Bruxelles.

Nel piano di ristabilimento dell’influenza russa sui paesi storicamente vicini per motivi storico-religiosi e che fa seguito alla volontà di Putin nel riavvicinare l’Ucraina alla Madre Russia, un altro importante tassello è costituito dalla Serbia. Belgrado si è trovata a spegnere gli entusiasmi per l’ingresso nell’Unione Europea dopo aver valutato con attenzione sia i risultati delineatisi nelle limitrofe Slovenia e Croazia, che la dubbia affidabilità degli investimenti comunitari, volgendo nuovamente lo sguardo verso il suo maggior investitore estero e storico alleato: Mosca. Un prestito di 500 milioni di dollari è stato accordato nella scorsa primavera per bilanciare il calo del flusso di denaro proveniente dall’eurozona, ed è notizia recente la volontà da parte della Russia di investire nei prossimi tre anni una cifra pari a circa 5 miliardi di euro nel paese balcanico. Anche in questo caso, è Gazprom ad essere trainante per l’accordo: oltre ai lavori – già in corso – per la costruzione del tratto di competenza serbo del gasdotto South-Stream, i rubli in arrivo serviranno per apportare nuove tecnologie e ammodernare le imprese serbe attive nel settore energetico (compreso il ramo eolico), con lo scopo ultimo di fare della Serbia una piattaforma balcanica per la distribuzione di energia e stringendo quindi i legami economici con la Russia, suo fornitore.

Ma se è l’Europa dove Gazprom si rivela essere sempre più protagonista con forniture record[i] e una recente svolta anche nell’immagine che l’azienda vuol dare di sé (da quest’anno sponsorizza, oltre a diverse squadre, anche la massima competizione calcistica europea per club, la Champions League), l’Asia centrale rimane anch’essa fra le priorità di Mosca, a testimoniare che il Grande Gioco sembra non conoscer fine. Con il Kazakhstan già ampiamente membro dell’Unione Doganale e la recente svolta del Turkmenistan a favore della Russia – alla quale ha ceduto i giacimenti di gas che avrebbero dovuto contribuire a riempire il gasdotto d’ispirazione euro-atlantica Nabucco – un altro passo in avanti verso la riconquista dell’ex spazio imperiale è costituito dall’accordo stretto con il Kyrgyzstan: in base ad esso, la repubblica centroasiatica ha ceduto al simbolico prezzo di 1 dollaro la compagnia Kyrgyzgas (con i suoi giacimenti e le sue infrastrutture) a Gazprom, seguendo la cancellazione di 500 milioni di dollari di debito quale premio di Putin dopo la decisione presa dal parlamento di Byshkek di rescindere l’accordo con gli Stati Uniti; i quali dovranno, nel 2014, abbandonare il Paese dopo anni di presenza militare. Si tratta di un primo passo che potrebbe portare col tempo il Kyrgyzstan a divenire membro dell’Unione Doganale, seguendo la strada che ha recentemente deciso d’intraprendere l’Armenia (proprio a discapito dell’UE) e gli auspici nella medesima direzione già espressi a novembre dal Tagikistan, altro stato centroasiatico.

Muovendosi dal cuore dell’Asia verso Est, giungono quest’anno altre notizie che fanno brillare l’astro di Gazprom. In direzione meridionale, spiccano gli storici e sempre più saldi legami con il Vietnam che il presidente Putin non ha dimenticato di enfatizzare nella sua recente visita a Hanoi: con l’interscambio commerciale cresciuto del 20% solo nel 2012 e la collaborazione sul piano energetico più che florida con ben tre joint-venture russo-vietnamite attive nella ricerca di idrocarburi e nella costruzione della prima centrale nucleare vietnamita, le relazioni fra i due paesi sono ai massimi storici con interessanti prospettive per il futuro. Verso Nord-Ovest, invece, è notizia di due giorni fa l’avvio dei lavori per l’oleodotto che avrà il compito di trasportare petrolio dalle regioni settentrionali della Siberia verso la Cina, con il fine di aumentare l’esportazione di idrocarburi verso oriente in risposta al calo della domanda dei clienti europei dovuto alla crisi. L’infrastruttura (la cui costruzione è affidata all’equivalente russa della nostra Saipem, Transneft) sarà completata nel 2016 e trasporterà i prodotti di Gazprom e di altre compagnie russe in Cina, costituendo la seconda rete in questa direzione.

Ulteriori passi in avanti sono stati effettuati dall’Azienda russa guidata da Alexey Miller anche in America latina, nell’ottica di mantenimento e accrescimento dei legami politico-commerciali con determinati paesi. La recente cancellazione del debito, ancora risalente ai tempi dell’URSS, con Cuba – pari a circa 29 miliardi di dollari – a seguito della visita del Primo Ministro russo Medvedev lo scorso febbraio, risponde ad una strategia di ammorbidimento nei confronti di un paese con legami storici, interessi attuali, ma soprattutto importanti scenari futuri: come l’avvio di ricerche per la perforazione da parte di Gazprom dei fondali cubani off-shore alla ricerca di idrocarburi. Poi, un importante accordo strategico – anche in chiave geopolitica – è stato siglato con la Bolivia di Evo Morales, vulcanico presidente dichiaratamente ostile all’ingerenza statunitense nel Sud America e che si è definito “gioioso” per l’ingresso della Russia nell’economia boliviana. Il giacimento in questione, quello di Acero, sarà sfruttato da una joint-venture dove parteciperà anche il gruppo franco-belga Total ma su cui il governo boliviano manterrà la maggioranza. Infine, un considerevole aiuto pari ad un miliardo di dollari, arriverà da Gazprom alla compagnia statale venezuelana PDVSA, attualmente in difficoltà finanziaria e bisognosa sia di iniettare capitali freschi nelle sue casse per aumentare gli investimenti, sia di attirare la competenza che il gigante russo può fornire al fine di sfruttare in maniera appropriata le enormi riserve petrolifere del sottosuolo, da cui l’economia del paese largamente dipende. In cambio del prestito, Gazprom costituirà con la suddetta compagnia una joint-venture per sfruttare alcuni giacimenti nelle regioni occidentali, seguendo un ben preciso disegno politico nei confronti dello stato a cui la Russia è assai legata e che con il neo presidente Maduro sembra voler continuare nella strada intrapresa con coraggio dal defunto Chavez, grande amico di Vladimir Putin.

I passi in avanti compiuti da Gazprom grazie al suo potere energetico, hanno corso quest’anno su di un binario parallelo a quello dei successi conseguiti da Mosca in campo internazionale, decretando definitivamente il 2013 come base per una nuova era in cui la Russia ritorni ad essere ai vertici della politica mondiale. Gli scenari energetici e geopolitici che si prospettano nel 2014 – quali ad esempio le partite che si giocheranno per lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi in Grecia e a Cipro, da un lato, e nell’Artico, dall’altro – saranno di notevole interesse e vedranno questa volta, agire sulla scena mondiale, un ritrovato attore di cui il mondo avvertiva la mancanza.




[i] Gazprom fornisce il 25% del gas totale all’Unione Europea, detenendo il monopolio delle forniture di gas in: Bosnia ed Erzegovina, Estonia, Finlandia, Macedonia, Lettonia, Lituania, Moldavia e Slovacchia. Inoltre, vanta un semi-monopolio in Bulgaria, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Austria e Turchia; con considerevoli quote di esportazioni in Romania, Germania, Francia e, ovviamente, Italia.

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STEFANO VERNOLE ALL’IRIB: CERTI PAESI MANTENGONO EGITTO NEL CAOS PER INTERESSI DI ISRAELE

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“L’Egitto è il paese in grado di garantire la stabilità in tutto il Medioriente grazie alla sua posizione strategica ed in particolare è in grado di controllare il canale di Suez. È l’unico paese arabo il cui esercito è veramente in grado di rivaleggiare con quello israeliano e ha anche alcuna posizione storica di mediatore tra gli israeliani ed i paestinesi. Quindi ovviamente ci sono delle forze che per motivi sopra citati hanno interesse a mantenere il Medioriente in caos. E così si impedisce all’Egitto di rivaleggiare in maniera concreta e forte con l’Israele.”

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TURCHIA E ARMENIA: UNA RICONCILIAZIONE POSSIBILE?

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Il 13 dicembre 2013 il Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu, durante il Vertice di Erevan dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica del Mar Nero, ha definito “un atto inumano” le deportazioni e i massacri degli Armeni del 1915[i]. Nel corso della sua visita nella capitale armena, Davutoğlu ha anche ricevuto un regalo: la versione in lingua turca di un libro che raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti di quello che gli Armeni chiamano “il Grande Male”[ii]. Difficile dire se lo leggerà, ma di sicuro le dichiarazioni di Davutoğlu costituiscono una pietra miliare nelle relazioni tra Turchia e Armenia e aumentano considerevolmente le speranze di una riconciliazione.

Il Genocidio Armeno è senza dubbio uno dei principali pomi della discordia tra Turchia e Armenia, se non il principale. Le radici delle controversie sono molto antiche. Agli inizi del Cinquecento, quando la maggior parte dell’Armenia fu conquistata dall’Impero Ottomano, gli Armeni aderivano per la stragrande maggioranza a una Chiesa ortodossa orientale[iii] (in seguito, però, una parte di loro sarebbe tornata in comunione con Roma fondando la Chiesa Armeno-Cattolica). Sotto la Sublime Porta, però, gli Armeni mantennero libertà di culto e di autogoverno e furono posti sotto la giurisdizione di un appositamente creato Patriarcato Armeno di Costantinopoli, ma furono relegati allo status di dhimmi – popolazioni non-musulmane che, in cambio di protezione, venivano sottoposte a un maggiore carico fiscale e private di alcuni diritti.

La relativa tolleranza degli Ottomani fu dovuta al fatto che le loro conquiste non erano tanto finalizzate a favorire la diffusione dell’Islam, quanto piuttosto a espandere il dār al-Islām, ossia il territorio controllato dai Paesi islamici. Anche in virtù della sua scarsa esperienza governativa, l’Impero Ottomano era ben felice di lasciare libertà di culto e di autogoverno alle varie comunità religiose (millet) e di mantenere in vigore gli ordinamenti giuridici preesistenti, accontentandosi di chiedere il riconoscimento della propria supremazia e di imporre un maggiore carico fiscale ai non-Musulmani. I tentativi di conversione forzata all’Islam non mancarono, ma furono rari: i tributi pagati dai dhimmi, dopotutto, erano un’importante fonte di entrate per lo Stato ottomano.

L’esito di questo sistema fu una sostanziale cristallizzazione delle varie comunità religiose, che nei domini della Sublime Porta vivevano fianco a fianco senza mescolarsi tra loro. Gli Armeni, in particolare, mostrarono una particolare resilienza. Tendenzialmente endogami, nel corso dei secoli assunsero un’identità molto forte e basata soprattutto sull’elemento religioso. Per molti la vita era dura a causa della condizione di cittadini di seconda classe, ma non mancarono gli Armeni che fecero fortuna nel commercio, nella finanza e nell’amministrazione ottomana. Uno di loro fu Abraham Pascià (nato Abraham Eramyan), nell’Ottocento importante banchiere e diplomatico ottomano nonché amico personale del Sultano Abdulaziz[iv]. La situazione, però, iniziò a cambiare (e, paradossalmente, in peggio) quando l’Impero Ottomano iniziò il suo giro di boa e le potenze europee iniziarono a esercitare un’influenza sempre maggiore sullo stesso, non solo al fine di ampliare i propri domini ma anche per proteggere la popolazione cristiana sottomessa alla Sublime Porta.

Il 1839 fu l’inizio di un periodo di riforme epocali che presero il nome di Tanzimat. Tra le tante innovazioni, una delle principali fu la parificazione formale dei cittadini dell’Impero Ottomano a prescindere dall’elemento religioso, abrogando i millet e ponendo le basi per la creazione di una comune identità ottomana. Si trattò di uno dei primi passi verso la trasformazione di un impero multinazionale e multiconfessionale in uno Stato nazionale turco, che sarebbe andata definitivamente in porto negli anni Venti con Mustafa Kemal, detto Atatürk (Padre dei Turchi). Molte delle riforme, però, rimasero sulla carta, e l’abolizione del sistema dei millet contribuì a sguinzagliare quelle tensioni interetniche, e soprattutto interreligiose, che fino ad allora erano state sostanzialmente limitate. Tra i Musulmani si diffuse un antiarmenismo sotto vari aspetti speculare a quell’antisemitismo allora diffuso in vari Paesi dell’Europa centrale, mentre gli Armeni dell’Impero Ottomano presero a guardare verso la Russia, che nel corso del secolo strappò agli imperi Ottomano e Persiano il Nagorno-Karabach e le regioni di Erevan e Kars. A partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento le tensioni sfociarono in periodici atti di violenza, e nel 1915 l’avanzata delle truppe russe nell’Impero Ottomano infiammò gli Armeni della regione del Lago Van, oggi nella Turchia Orientale ma all’epoca a maggioranza armena. La reazione ottomana fu violentissima: milioni di Armeni, Assiri e Greci Pontici furono deportati verso la Siria, e centinaia di migliaia, forse milioni, di loro caddero sotto le baionette dell’esercito ottomano[v].

A seguito della Prima Guerra Mondiale fu istituita la Repubblica Democratica Armena, comprendente i territori dell’Armenia Russa ceduti alla Sublime Porta in virtù dei Trattati di Brest-Litovsk e una parte delle aree a forte presenza armena dell’Impero Ottomano. La Repubblica, però, ebbe vita breve: nel 1920, infatti, buona parte dei suoi territori fu riconquistata dalla Turchia, e il resto fu assorbito dall’Unione Sovietica che istituì la Repubblica Socialista Sovietica Armena. I passaggi di mano furono suggellati dal Trattato di Kars del 1921 che, tra le tante cose, sancì il passaggio alla Turchia del Monte Ararat, sacro per gli Armeni in quanto, secondo la tradizione biblica, fu il punto di approdo dell’Arca di Noè, e dell’antica capitale armena Ani. Un ulteriore schiaffo venne dall’assegnazione del Nagorno-Karabach, la cui popolazione era in gran parte armena, alla Repubblica Sovietica Azera in qualità di provincia autonoma. La decisione fu dovuta soprattutto alla volontà del governo sovietico di ingraziarsi la neonata Repubblica Turca (Turchi e Azeri sono etnicamente molto affini). Nella primavera del 1945 l’URSS, da poco uscita vincitrice nella Seconda Guerra Mondiale, chiese la restituzione dei territori ceduti alla Turchia in base ai Trattati di Brest-Litovsk, ma le rivendicazioni non andarono a buon fine, e a seguito della morte di Stalin il governo sovietico vi rinunciò ufficialmente[vi]. La comunità armena in Turchia, nel frattempo, era quasi scomparsa: la maggior parte di coloro che erano scampati ai massacri, infatti, si era assimilata ai Turchi etnici o ai Curdi, magari convertendosi all’Islam, oppure era fuggita in Occidente dove avrebbe dato vita a un’influente diaspora armena.

L’indipendenza dell’Armenia nel 1991 portò alla riapertura di vecchie questioni irrisolte e all’apertura di nuove. Malgrado i due Paesi sembravano inizialmente in grado di instaurare relazioni  produttive (la Turchia fu infatti uno dei primi Paesi a riconoscere l’indipendenza armena e assistette Erevan in un periodo di difficoltà economiche[vii]), il conflitto nel Nagorno-Karabach tra Armenia ed Azerbaigian provocò un deciso peggioramento dei rapporti tra Ankara e Erevan. Mentre l’esercito armeno avanzava nel Nagorno-Karabach ed espelleva dalla regione i membri della minoranza azera (stesso fato toccò agli Armeni residenti in Azerbaigian), il Paese della Mezzaluna, oltre a rifornire di armamenti l’esercito azero, chiuse i propri confini con l’Armenia, istituì un embargo contro il Paese e minacciò persino un intervento militare contro Erevan qualora non avesse abbandonato il Karabach, salvo poi abbassare i toni a seguito della minaccia russa di intervenire a sostegno dell’Armenia[viii]. La politica turca, comunque, riuscì a creare seri problemi economici all’Armenia, e anche se nel 1994 la guerra si concluse con una sostanziale vittoria armena, che ora controllava quasi tutto il Nagorno-Karabach e anche una zona cuscinetto tra l’Armenia e l’ex provincia autonoma azera, il Paese era ormai allo stremo[ix]. Negli anni successivi, comunque, l’Armenia visse una sostanziale ripresa economica, soprattutto grazie al sostegno della Russia e della diaspora.

Negli anni Novanta i rapporti tra Turchia e Armenia rimasero molto tesi. Uno dei maggiori motivi di contrasto riguardava la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), del metanodotto Baku-Tbilisi-Erzurum e della linea ferroviaria Kars-Tbilisi-Baku. Si tratta di vie di comunicazione che collegano la Turchia e l’Azerbaigian passando per la Georgia, e non per un’Armenia che pur si trova lungo la via più diretta, e per questo furono aspramente contestati da Erevan[x]. Da notare che il dirottamento attraverso la Georgia di queste vie di trasporto è dovuto proprio alla continua chiusura dei confini turco-armeni. L’Armenia, inoltre, non ha mai riconosciuto ufficialmente il Trattato di Kars, e sebbene non abbia mai avanzato rivendicazioni ufficiali nei confronti della Turchia, e anzi l’ex Ministro degli Esteri Vardan Oskanyan abbia a suo tempo affermato che “l’Armenia accetta il trattato di Kars”, tanto la Dichiarazione di Indipendenza quanto la Costituzione armena chiamano “Armenia Occidentale” i territori di Kars e di Ardahan[xi]. La Turchia, dal canto suo, oltre a continuare a sostenere l’Azerbaigian sulla questione Karabach, critica la campagna per il riconoscimento del genocidio armeno portata avanti dalle autorità di Erevan e dagli esponenti della diaspora. Un motivo di controversie è poi la questione della centrale nucleare di Metsamor, situata in Armenia a 17 chilometri dal confine turco. Chiuso a seguito del terremoto del 1988 e riaperto negli anni Novanta per ovviare alla scarsità di energia a seguito del blocco turco-azero, l’impianto è obsoleto e si trova sulla lista nera dell’Unione Europea assieme ad altre tre centrali in Bulgaria. Un’eventuale catastrofe, a detta di un docente dell’Università di Ferrara, coinvolgerebbe Turchia, Georgia e Armenia[xii].

L’ascesa del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) nel 2002 è stata seguita da importanti schiarite nei rapporti tra Turchia e Armenia. L’azione del governo di Erdoğan si è contraddistinta per un parziale superamento dell’eredità kemalista tanto attraverso il miglioramento delle relazioni con le principali minoranze etniche e religiose del Paese, quanto per mezzo di una politica estera finalizzata all’instaurazione di relazioni produttive con i propri vicini di casa (la cosiddetta zero problem) e alla creazione di una sua sfera di influenza nei territori un tempo parti dell’Impero Ottomano (neo-ottomanismo). Il Paese non ha comunque abbandonato l’obiettivo di entrare nell’Unione Europea, e paradossalmente l’attuale Turchia moderatamente islamista e imperiale è sotto vari aspetti più “europea” di quella rigidamente nazionalista degli scorsi decenni.

Sul primo fronte va registrato un certo recupero dell’identità culturale degli Armeni residenti in Turchia. Molte testimonianze della millenaria presenza armena nella Penisola Anatolica, dopo decenni di abbandono, sono state oggetto di restauro. Una tra queste è la Cattedrale della Santa Croce, risalente al X secolo e situata in un’isola sul lago Van, che nei primi anni Duemila è stata sottoposta a un rigoroso restauro e nel 2010 riaperta al culto, sebbene per solo un giorno all’anno[xiii]. L’anno dopo, nella non lontana Diyarbakır, la Chiesa di San Ciriaco (Surp Giragos), anch’essa molto antica, è diventata il primo edificio permanentemente aperto al culto armeno dai tempi del Grande Male. In futuro una parte dell’edificio ospiterà un museo armeno[xiv]. Si tratta di gesti piccoli ma notevoli dal punto di vista simbolico, così come simbolicamente notevoli sono state le massicce proteste seguite all’assassinio del giornalista turco di etnia armena Hrant Dink, direttore di Agos, il settimanale della comunità armena costantinopolitana. Il giornalista, pur non dimentico del Grande Male e delle discriminazioni subite dagli Armeni nell’immediato periodo repubblicano, era comunque fautore di una riconciliazione tra Turchi e Armeni. Il suo omicidio ad opera di un ultranazionalista si è rivelato un boomerang: il 24 gennaio 2007, il giorno dei suoi funerali, oltre centomila persone sfilarono per le strade di Istanbul al grido di “Siamo tutti Armeni” e protestando contro il famigerato Articolo 301[xv], in virtù del quale lo stesso Dink era stato condannato per aver “insultato la turchicità” pochi mesi prima del suo assassinio[xvi].

Il sacrificio di Hrant Dink ha senza dubbio costituito uno spartiacque nelle relazioni tra Turchia e Armenia. Sebbene parlare di “genocidio” resta un tabù e il governo continua a negare l’esistenza di un piano per sterminare gli Armeni dell’Anatolia, la coscienza storica dei Turchi sul tema sta aumentando, e il 24 aprile, data di inizio delle deportazioni degli Armeni, viene oggi commemorato nelle principali città turche[xvii]. Sul fronte dei rapporti con l’Armenia, poi, si sono registrate delle forti schiarite. Nel 2008 il Presidente turco Abdullah Gül è stato il primo politico turco di alto livello a visitare l’Armenia, in occasione dell’incontro tra Turchia e Armenia per le qualificazioni per i Mondiali del 2010, e l’anno dopo Ankara e Erevan hanno firmato un memorandum d’intesa per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. La road map prevedeva concessioni da entrambe le parti: la Turchia avrebbe rinunciato a vincolare la normalizzazione dei rapporti col suo vicino armeno alla restituzione del Karabach all’Azerbaigian, e Erevan, in cambio, avrebbe riconosciuto il Trattato di Kars e rinunciato alla sua campagna internazionale per il riconoscimento del genocidio armeno, acconsentendo alla creazione di una commissione turco-armena per lo studio della questione[xviii].

Il protocollo d’intesa, però, è sostanzialmente rimasto sulla carta, e gli anni successivi sono stati caratterizzati da un sostanziale peggioramento dei rapporti tra i due Paesi. Nel 2010 il Parlamento armeno ha sospeso la ratifica del protocollo d’intesa, dopo che la controparte turca aveva nuovamente vincolato la stessa alla risoluzione della disputa sul Nagorno-Karabach[xix], e nel giugno del 2013 il Procuratore Generale di Erevan è giunto a chiedere la restituzione dei territori ceduti alla Turchia a seguito del Trattato di Kars, delle Chiese armene situate in territorio turco e compensazioni per i discendenti delle vittime del Genocidio[xx]. Dichiarazioni che però non hanno realmente compromesso un processo di distensione che sembra irreversibile, come dimostrato dalle recenti dichiarazioni di Davutoğlu.

Un’eventuale normalizzazione delle relazioni turco-armene produrrebbe vantaggi soprattutto a Erevan. La mai realmente terminata guerra con l’Azerbaigian e il costante blocco turco fanno dell’Armenia un Paese parzialmente isolato. Gli unici collegamenti via terra col resto del mondo passano attraverso la Georgia e l’Iran, e anche qui non mancano i limiti: nel primo caso la chiusura dei confini tra Russia e Georgia, nel secondo la natura aspra e accidentata della regione di confine tra Armenia e Iran. La strada che congiunge i due Paesi non è propriamente l’Autostrada del Brennero, e la costruzione della linea ferroviaria tra i due Paesi, che pure sta suscitando un certo interesse da parte di società russe, iraniane e cinesi, è ancora in fase di appalto[xxi]. L’Armenia, quindi, trarrebbe benefici notevoli dall’eventuale riapertura dei confini con la Turchia, sia in quanto le consentirebbe un accesso più rapido ai mercati di Russia ed Europa, sia perché così potrebbe ridurre la sua forte dipendenza da Mosca. Un altro stimolo per l’Armenia a ristabilire piene relazioni con la Turchia viene dall’immigrazione. Oggi in Turchia vivono 170.000 Armeni etnici, e se settantamila sono i reduci del Grande Male e della diaspora che sono rimasti in Turchia e hanno ottenuto la cittadinanza turca, gli altri sono immigrati irregolari, perlopiù donne impiegate come domestiche e badanti. La loro presenza nella Turchia del boom economico è sostanzialmente accettata, ma la loro posizione li rende facilmente strumentalizzabili, come dimostrano le dichiarazioni con cui, nel 2010, il premier turco Erdoğan ha minacciato di rimpatriare gli irregolari qualora l’Armenia avesse continuato la sua campagna per il riconoscimento del Genocidio Armeno[xxii]. Le tensioni, però, si sono successivamente stemperate, e nel 2011 i circa mille figli degli immigrati irregolari hanno ottenuto il permesso di frequentare le scuole in lingua armena del Paese della Mezzaluna[xxiii]. Infine c’è la questione degli scambi commerciali: se il mercato armeno è sostanzialmente aperto ai produttori turchi, che nel 2008 hanno esportato verso l’Armenia beni dal valore complessivo di 260 milioni di dollari, in Turchia le merci armene sono sottoposte ad embargo, e questo proprio mentre l’economia turca sta vivendo una fase di forte crescita economica[xxiv].

Per la Turchia, però, i benefici sono tutt’altro che irrilevanti. Questi riguardano soprattutto l’arena internazionale: due dei maggiori prerequisiti posti dall’UE per l’ammissione della Turchia, infatti, sono la normalizzazione dei rapporti con l’Armenia e il riconoscimento del Genocidio del 1915. La pacificazione turco-armena, inoltre, contribuirebbe non poco alla stabilizzazione di una regione tradizionalmente turbolenta come il Caucaso, e non è un caso che la Guerra in Georgia del 2008 abbia dato un forte impulso alla normalizzazione. Ma anche i benefici di carattere economico non sono da sottovalutare. Per comprenderlo basta andare a Kars, una città di provincia nei pressi del confine con Georgia e Armenia. Un tempo una delle città più aperte della Turchia, i cui abitanti (o almeno i più abbienti) avevano ereditato dalla passata dominazione russa la passione per il balletto e le cene a base di caviale e champagne, oggi però spicca per la sua povertà. La rivitalizzazione della città passa attraverso la riapertura dei confini, e una delle maggiori opportunità è offerta dal turismo armeno, in particolare di quello della diaspora. Non lontano da Kars, sul lato turco del fiume che segna il confine del Paese con l’Armenia, si trovano infatti le rovine di Ani, una potenziale mecca per i circa duecentomila Armeni della diaspora che ogni anno si recano nella loro terra ancestrale. Per raggiungere il sito dall’Armenia, però, è necessario un lungo viaggio attraverso la Georgia, e ciò è chiaramente una grossa ipoteca nei confronti dello sviluppo turistico dell’area. Secondo l’ex sindaco di Kars Naif Alibeyoğlu, però, le opportunità non si limitano ai milioni di dollari di nuovi introiti: i turisti, infatti, “conoscerebbero dei Turchi e scoprirebbero che non sono malvagi come immaginavano”[xxv]. Aprendo quindi nuovi spiragli di pace.

Malauguratamente, però, gli uomini non sono fatti di sola ragione, e per quanto Turchia e Armenia possano impegnarsi è difficile che, almeno sul breve termine, le ragioni pragmatiche possano avere la meglio su quelle emotive. Tanto il genocidio, quanto la disputa del Karabach hanno una forte valenza emotiva, e non c’è da stupirsi se i nazionalisti di entrambe le parti abbiano espresso forti accuse ai loro governi a seguito dell’Accordo del 2009. L’orgoglio turco porta a respingere le accuse di genocidio e ad affermare che gli Azeri del Karabach sono stati vittime di un “genocidio”, quando il termine giusto sarebbe al più “pulizia etnica”[xxvi]. Il rancore armeno, a sua volta, rende spesso oggetto di critica anche chi fa un semplice viaggio in Turchia[xxvii]. Per quest’ultima, poi, c’è l’ostacolo dell’apparato militare, da sempre massimo difensore dei valori kemalisti e quindi, tra le tante cose, particolarmente ostile verso il revisionismo storico e la conciliazione con le minoranze, siano esse i Curdi o ciò che resta delle antiche comunità cristiane. Significativo, sotto questo punto di vista, è il caso dell’organizzazione segreta Ergenekon (dal nome della leggendaria montagna da cui provengono i popoli altaici), responsabile di una serie di omicidi, tra cui quello di Hrant Dink, e di denunce e di minacce ad una serie di personalità che avevano “insultato la turchicità”, ossia parlato apertamente del Genocidio o della condizione delle minoranze. Nell’agosto 2013 i membri dell’organizzazione hanno subito severe pene detentive, e i suoi capi condannati all’ergastolo[xxviii]. Questi atti, però, saranno destinati a ripetersi se non si chiudessero una volta per tutte le porte al nazionalismo, e ciò è di gran lunga più difficile che non mettere dietro le sbarre i membri di un’organizzazione eversiva.

Resta da capire chi vincerà la sfida, che sembra essere quella della resistenza ad oltranza. Oggi i punti di forza della Turchia sono un’economia in costante crescita, una certa solidarietà da parte dei Paesi islamici e gli interessi strategici dell’Occidente, sia quelli legati agli idrocarburi sia il contenimento della rinascente Russia e dell’islamismo radicale; l’Armenia, invece, può contare sulla solida alleanza con la Russia, su un’influente diaspora e sulla solidarietà da parte di molti intellettuali occidentali. Sarà innanzi tutto la geopolitica, quindi, a stabilire se e come i due Paesi ristabiliranno normali relazioni.




[iii] Le Chiese ortodosse orientali (dette anche Chiese orientali antiche per evitare confusioni con la Chiesa Ortodossa propriamente detta) sono quelle Chiese che riconoscono soltanto la validità dei primi tre concili ecumenici. Esse sono, nello specifico, la Chiesa Ortodossa Assira, la Chiesa Apostolica Armena e le Chiese Copte egiziane ed etiopi.

[v] D. Hiro, Inside Central Asia, Overlook Duckworth, New York/Londra 2011, p. 70.

[ix] S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 444.

[xv] L’Articolo 301 è un articolo del Codice Penale turco che prevede pene detentive fino a tre anni per chiunque offenda pubblicamente la turchicità, le istituzioni turche o le maggiori cariche dello Stato. L’articolo è stato usato diverse volte per mettere sotto accusa chi parlava pubblicamente di “genocidio” armeno (tra i casi celebri, oltre a quello di Hrant Dink, vanno ricordati il Premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk e la scrittrice Elif Şafak). Nel 2008, però, l’articolo è stato fortemente mitigato sostituendo “turchicità” con “nazione turca” e introducendo l’obbligo dell’approvazione del Ministro della Giustizia.

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IL SECOLO CINESE?

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È uscito il numero XXXII (4-2013) della rivista di studi geopolitici “Eurasia” intitolato:

 

IL SECOLO CINESE?

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

 

EDITORIALE

IL SECOLO CINESE? di Claudio Mutti

 

 

GEOFILOSOFIA

HEGEL E IL FONDAMENTO GEOGRAFICO DELLA STORIA MONDIALE di Davide Ragnolini*

All’interno delle «Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte» del grande filosofo tedesco la riflessione sulla base geografica della storia mondiale trova una significativa collocazione propedeutica alla stessa storia filosofica del mondo, la cui importanza non è stata ancora sufficientemente colta. Hegel poneva a fondamento dello svolgimento storico mondiale il rapporto tra i popoli e la condizione naturale nella quale questi hanno localizzazione. Secondo l’impostazione storico-idealistica di Hegel, tempo e spazio hanno nella storia e geografia universale il loro correlato fenomenico dal quale i popoli avviano la propria esistenza. Da un punto di vista filosofico il rapporto tra spirito e natura costituisce la struttura teoretica portante su cui Hegel basa l’emancipazione di un popolo dalla condizione di mero «ente naturale» a soggetto storico all’interno della storia mondiale. Dal geografo e collega Carl Ritter,il filosofo tedesco ha tratto i princìpi interpretativi per la comprensione delle possibilità di sviluppo che le differenze geografiche offrono ai popoli, la rappresentazione geologica della superficie terrestre, la sua divisione in continente euroafrasiatico ed aree insulari, e infine la contrapposizione tra terra e mare. Questi rappresentano solo alcuni dei molti aspetti della geografia hegeliana, forieri di sviluppi successivi per la teoria geopolitica. 

 

 

DOSSARIO: IL SECOLO CINESE?

LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE: PROFILO E RISORSE a cura della Redazione

La Cina oggi: una panoramica dei dati essenziali e delle dinamiche in atto contribuisce alla comprensione della più grande realtà asiatica.

 

LA NUOVA VIA DELLA SETA di Qi Han

La signora Qi Han è incaricata d’Affari dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia. “Eurasia” la ringrazia per aver gentilmente concesso di pubblicare il testo del discorso da lei pronunciato in occasione del Forum Eurasiatico di Verona (17-18 ottobre 2013). 

 

RITORNO ALLA VIA DELLA SETA di Giuseppe Cappelluti

 Dal mito alla realtà. Dopo secoli di oblio la Via della Seta, storico ponte tra l’Occidente e la Cina, sta tornando ad essere una direttrice primaria del commercio internazionale. Lungo i suoi itinerari si è tuttavia prefigurata l’ennesima disputa tra eurasiatismo ed euro-atlantismo: da un lato il percorso attraverso Russia e Kazakistan, più rapido e stimolato dal rafforzamento dell’integrazione eurasiatica, dall’altro quello attraverso il Caucaso e il Mar Caspio voluto dall’Unione Europea.

 

LA CINA PER UN ORDINE MULTIPOLARE di Spartaco A. Puttini

 L’ascesa della Cina si è imposta come una realtà della quale tener conto, in tutte le dimensioni proprie della geopolitica. Ma per coglierne la portata e le conseguenze per la vita internazionale occorre collocarla in un contesto preciso: quello attualmente attraversato dalle relazioni internazionali e caratterizzato dal braccio di ferro in corso tra il tentativo statunitense di imporre al mondo il proprio “dominio a pieno spettro” e l’emergere di un equilibrio di potenza multipolare. Nelle righe che seguono cercheremo di dare sommariamente conto dell’azione politica della Cina popolare su diverse scacchiere (dall’America Latina all’Africa) evidenziandone finalità ed effetti. Di particolare rilievo risulta l’impulso dato allo sviluppo dei rapporti economici Sud-Sud con mutuo beneficio, che promettono di erodere il potere ricattatorio esercitato dalle centrali finanziarie legate all’Angloamerica nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Si accennerà al complesso rapporto che viene a stabilirsi concretamente tra l’aspirazione cinese ad una crescita armonica e pacifica e il vincolo sistemico indotto dagli Stati Uniti con la corsa agli armamenti e con il susseguirsi di gravissimi crisi regionali che contribuiscono ad attizzare le tensioni tra le Potenze.                         

 

 LA SECONDA PORTAEREI CINESE di Andrea Fais

La crescita della potenza economica cinese ha avuto principalmente due ripercussioni internazionali. L’una, di carattere commerciale, sta già modificando le dinamiche dei flussi di capitale nel pianeta ed è quella più dibattuta dalla stampa europea ma troppo spesso accentuata, se non deformata da giudizi raramente in sintonia con la realtà dei fatti. L’altra, di carattere strategico, mantiene ritmi di trasformazione più lenti, non tanto per il ritardo con cui la Repubblica Popolare Cinese è giunta ad affrontare nel concreto i temi salienti della guerra informatica e della modernizzazione militare quanto piuttosto per l’enorme potenziale accumulato dal Pentagono nel decennio compreso tra il 1998 e il 2007. Eppure dal momento che le dimensioni commerciale e militare sono interdipendenti, all’inversione di tendenza nella prima potrebbe presto seguirne un’altra nella seconda. Il debutto della prima portaerei cinese, la Liaoning, nel settembre 2012 aveva lanciato un dado sul tavolo: la sfida a quello strapotere aeronavale statunitense che, assieme al primato internazionale del dollaro, costituisce l’architrave dell’egemonia nordamericana sul resto del mondo.

 

LA TRIADE NUCLEARE DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE di Alessandro Lattanzio

L’arsenale strategico cinese è oggetto di varie congetture. Qui viene presentato un quadro sintetico delle varie stime relative all’arsenale nucleare, dovute ai più importanti enti occidentali di analisi strategica.

 

GLI ALTRI PARTITI NELLA CINA POPOLARE di Giovanni Armillotta

 Le origini, la storia e l’organizzazione dei partiti democratici. Le lotte comuni assieme ai comunisti nell’epopea della liberazione contro i giapponesi, e nella guerra civile nel periodo della dittatura del Guomindang. La collaborazione di essi col Partito Comunista Cinese nell’amministrazione del Paese e le rappresentanze dei partiti indipendenti nelle alte istituzioni statali. Paralleli col sistema partitico della nostra Italia 1945-1994. Nell’articolo è adottato il sistema di traslitterazione Pinyin di nomi e toponimi.

 

LA  QUINTA GENERAZIONE AL POTERE di Sara Nardi

Negli ultimi anni il problema dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa si è fatto stringente anche in Cina. Come seconda potenza mondiale e come nazione pienamente inserita nel processo di globalizzazione economica e digitale, il colosso asiatico è ormai entrato sotto la lente d’ingrandimento della famigerata osservazione internazionale. Si tratta di una realtà complessa, che spesso risente delle contraddizioni o delle forzature che il punto di vista politico e geografico dell’osservatore reca necessariamente con sé. Tuttavia, è stato lo stesso Xi Jinping ad annunciare un piano di riforme che risolvano in modo più efficace le complicate questioni legate alla corruzione, agli intrecci impropri tra politica e stampa e alla regolamentazione della rete multimediale. Una sfida da cui dipende l’immagine della Cina nel mondo e, dunque, la sua capacità di guadagnare legittimazione e consenso internazionali.

 

HUKOU. LA RESIDENZA IN CINA di Maria Francesca Staiano

La RPC è caratterizzata da un sistema di registrazione permanente della residenza (Hukou) che esclude i residenti non regolari, soprattutto i lavoratori migranti, dal godimento delle prestazioni sociali, come l’accesso ai servizi di istruzione, di sanità, di previdenza sociale e di sicurezza sul lavoro. Ciò ha generato una divaricazione netta tra la popolazione urbana e i migranti che provengono dalle zone rurali. Il sistema dello Hukou deriva da una tradizione storica-culturale antica ed è stato modificato varie volte dal Governo cinese. Oggi, la questione dello Hukou è nell’agenda del terzo plenum del Partito Comunista della RPC e quanto mai attuale. La Cina si trova ad affrontare la sfida di un esercito di lavoratori migranti che, sostenendo l’economia cinese, pretendono gli stessi diritti dei cittadini urbani.

 

MYANMAR: UNA PARTITA ANCORA APERTA? di Stefano Vernole

Lo “sdoganamento” del Myanmar apparentemente favorisce l’intrusione occidentale nell’area del Sud-Est asiatico, ma la stabilizzazione dell’ex Birmania è funzionale agli interessi di sicurezza della Cina. La strategia geoeconomica del PCC appare ancora una volta vincente. Il secolo asiatico vedrà Pechino protagonista?

 

LA CINA IN ROMANIA di Luca Bistolfi

La Cina è vicina, e molto, anche in Romania. Da anni ormai, semplici cittadini, operai, imprenditori e multinazionali di servizi e infrastrutture provenienti dalla Città Proibita hanno adottato il Paese carpatico quale meta di investimenti a lunga durata. Nel bellum omnium contra omnes i romeni se ne vanno dal loro Paese e ad esser assunti sono i cinesi, sempre più a basso costo e non meno sfruttati. Un risultato, fra i tanti, è che anche le aziende italiane, andate per suonare, sono state suonate. Sempre dai cinesi. E la Romania, ancora una volta, piange.

 

IL TURISMO CINESE DEL XXI SECOLO di Ornella Colandrea

Negli ultimi tre decenni, la Repubblica Popolare Cinese ha adottato politiche e misure che, modificando fortemente la struttura socioeconomica del paese, hanno inaugurato una fase di costante crescita economica. La Cina rappresenta oggi un interessante mercato in  crescente espansione in cui il turismo costituisce uno dei fulcri centrali dell’industria nazionale. Il mercato turistico cinese rappresenta una grande opportunità per l’Europa e per il sistema di offerta italiano in particolare. L’articolo analizza i dati, i ritmi di sviluppo, le tendenze, i profili dei turisti cinesi, individuando criticità e opportunità.

 

IL TURISMO CINESE IN ITALIA di Elena Premoli

Affari, ma non solo: anche più tempo libero, voglia di esplorare il mondo, curiosità sempre crescente, desiderio di evasione, necessità di staccarsi dalla frenetica vita delle grandi megalopoli asiatiche. E, soprattutto, maggiore disponibilità economica. Sono questi alcuni fattori che stanno alla base di un fenomeno  sempre in crescita e che sta raggiungendo cifre davvero importanti. Si tratta del turismo cinese, dei viaggi interni alla Cina o all’estero che sempre più abitanti della Terra di Mezzo decidono di compiere per piacere.  Dove si posiziona il nostro Paese all’interno di questa filiera? Quali passi sono stati già compiuti, da quali sbagli è bene trarre insegnamento e quali piccole accortezze sono richieste agli operatori del settore per accogliere al meglio gli ospiti in arrivo dalla Repubblica Popolare? L’articolo offre un breve excursus sull’evoluzione del fenomeno turistico, andando alle radici della pratica del viaggiare per poi arrivare velocemente ai giorni nostri. Espone alcune cifre che definiscono un’idea generale del fenomeno e si chiude con uno sguardo particolare su quanto è possibile fare per trarre maggiori guadagni da tale tendenza, impossibile da trascurare.

 

LA RICEZIONE DI CARL SCHMITT IN CINA di Davide Ragnolini

La recente traduzione in cinese delle opere del giurista tedesco e la crescita delle pubblicazioni dedicategli in Cina rappresentano un elemento di novità sotto un duplice punto di vista. Da un lato contribuiscono sul piano ermeneutico ad arricchire la storia della ricezione della filosofia schmittiana del diritto sotto un più generale aspetto teoretico-dottrinale nel dibattito scientifico mondiale; dall’altro, queste pubblicazioni sono rilevanti come inedita introduzione di un autore europeo ormai classico all’interno della specificità politico-culturale della più grande nazione asiatica. Un recente saggio di Qi Zheng fornisce una panoramica su questo dibattito scientifico in Cina e al contempo ci dà la possibilità di intravedere i limiti attuali della ricezione cinese di un pensatore che, come spiega la stessa Qi Zheng, come nessun altro ha causato tante controversie in Cina.

 

 

CONTINENTI

GLOBALIZZAZIONE: DEFINIZIONE E CONSEGUENZE di Cristiano Procentese

La globalizzazione costituisce il fenomeno più rilevante degli ultimi decenni: ingrediente ormai irrinunciabile di ogni riflessione, rimane, ciononostante, un concetto ancora generico e impreciso. Tuttavia, dopo le apologetiche profezie dei sostenitori della globalizzazione, il risultato degli ultimi anni è  stato un modello di sviluppo che ha come componente intrinseca l’accentuazione delle diseguaglianze, la precarizzazione del lavoro ed il senso d’insicurezza dei cittadini. La crescita incontrollata della speculazione finanziaria, la delocalizzazione delle imprese, che diventano multinazionali o transnazionali, e l’impotenza dei governi nazionali nel gestire un fenomeno così complesso, sono le priorità cui la politica, riappropriandosi delle proprie prerogative, dovrebbe cercare di dare una risposta.

 

LA LETTONIA VERSO L’EURO di Giuseppe Cappelluti

Il 1 gennaio 2014 sarà una data storica per la Lettonia: il Paese baltico, infatti, diventerà il diciottesimo membro di Eurolandia. Per ragioni sia economiche sia geopolitiche (la volontà di sancire l’appartenenza all’Occidente in funzione antirussa) l’adozione dell’euro è stata uno dei principali obiettivi del governo di centrodestra, ma il Paese è tutt’altro che entusiasta. L’accettazione della Lettonia nell’Eurozona, dopo tutto, è stata vincolata all’adozione di rigide misure di austerità, e non manca chi, memori dei cinquant’anni di occupazione sovietica, teme per la propria sovranità nazionale. Alcuni economisti, d’altro canto, non vedono di buon occhio alcuni provvedimenti recentemente approvati in materia fiscale e temono che il Paese si trasformi in un ponte verso i paradisi fiscali, o peggio che diventi esso stesso un paradiso fiscale.

 

LE MANI SULL’ASIA CENTRALE di Giuseppe Cappelluti

La Cina è oggi uno dei maggiori interlocutori commerciali degli “stan” dell’Asia Centrale, e i suoi interessi nell’area sono in forte crescita. Emblematici delle strategie geopolitiche di Pechino verso il Centrasia sono i rapporti con Kazakhstan e Kirghizistan. Se fino a poco più di vent’anni fa la Cina era totalmente assente dagli orizzonti kazachi, la sempre più massiccia presenza cinese nell’economia dell’Aquila della Steppa, non più limitata al tradizionale settore degli idrocarburi, ne ha fatto uno dei più importanti partner commerciali e strategici. Inoltre, pur non mancando timori per un possibile boom dell’immigrazione cinese, gli interessi tra i due Paesi sono reciproci, a partire dalle questioni legate alla sicurezza e dalle nuove infrastrutture che collegheranno Cina e Russia attraverso il Kazakhstan. Il Kirghizistan, al contrario, interessa essenzialmente per la sua posizione geografica, mentre la sua futura adesione all’Unione Doganale non è propriamente una buona notizia per quello che un tempo fu il Celeste Impero. Ma nei due Paesi le mosse cinesi suscitano non pochi sospetti: legittimi interessi o espansionismo geoeconomico?

 

LA GUERRA CIVILE DEL TAGIKISTAN (1992-1997) di Andrea Forti

Nonostante la durata, cinque anni, e l’elevato numero di vittime (dai cinquanta ai centomila morti) la guerra civile del Tagikistan rimane, agli occhi del grande pubblico occidentale (e non solo), uno dei conflitti meno conosciuti del convulso periodo immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda, oscurato dai contemporanei ma ben più mediatici conflitti nella ex-Jugoslavia, in Algeria o in Somalia. La guerra civile tagica, nonostante l’oblio che ormai circonda questa drammatica pagina di storia, è di grande interesse sia per lo studio dei conflitti nati dal dissolvimento dell’Unione Sovietica che per eventuali comparazioni con conflitti attualmente in corso, come quello in Siria che oppone le forze governative alla ribellione islamista.

 

COMUNITÀ RELIGIOSE IN SIRIA di Vittoria Squillacioti

La Siria odierna è un paese complesso dal punto di vista etnico e religioso. Per comprendere quali siano effettivamente le differenze che caratterizzano la sua popolazione è necessario tenere presente le variabili della lingua, della confessione religiosa e dell’eventuale collocazione geografica delle diverse comunità, tre variabili che agiscono profondamente nella definizione delle diverse identità e appartenenze. Nel variegato mosaico siriano riscontriamo così la presenza dominante dei musulmani, ancorché suddivisi tra sunniti, sciiti, ismailiti, alawiti, drusi e yazidi, ma anche diverse varietà del cristianesimo ed una comunità ebraica.

 

ARABIA SAUDITA: ALLEANZE ESTERE E DINAMICHE INTERNE di Sara Brzuszkiewicz

In seguito al deciso rifiuto da parte dell’Arabia Saudita del seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per il quale era stata eletta come membro non permanente, ci si interroga sugli attuali rapporti del Regno dei Saud con storici alleati, rivali di sempre e timido dissenso interno, per scoprire che, nonostante a prima vista possa sembrare il contrario, il vento del cambiamento è ancora lontano dalla Culla dell’Islam.

 

IL TAGLIO DELL’ISTMO DI SUEZ di Lorenzo Salimbeni

Nel novembre del 1869 venne inaugurato il Canale di Suez. Ci era voluto quasi un decennio di massacranti lavori per portare a compimento quest’opera ciclopica, dopo che già in fase di progettazione non erano mancate le polemiche. La necessità di mettere in collegamento il Mar Mediterraneo ed il Mar Rosso era chiara a tutti, ma la modalità con cui conseguire tale obiettivo era oggetto di discussione. Vi fu chi propose di aprire un canale fra il Mar Rosso ed il delta del Nilo (come era già stato fatto all’epoca dei Faraoni e della dominazione araba dell’Egitto), chi insistette per un collegamento ferroviario Alessandria-Il Cairo-Mar Rosso e chi spinse per tagliare l’istmo di Suez, anche se si riteneva che fra i due mari vi fosse un dislivello di alcuni metri che avrebbe richiesto la costruzione di complesse chiuse. La Compagnia Universale del Canale di Suez presieduta dallo spregiudicato Ferdinand de Lesseps, il genio ingegneristico di Luigi Negrelli e l’iniziale opposizione britannica furono i soggetti più importanti nella fase iniziale dell’ambiziosa opera di scavo.

 

 

INTERVISTE

TUCCI IN ORIENTE. L’AVVENTURA DI UNA VITA. INTERVISTA A ENRICA GARZILLI (a cura di Andrea Fais)

Enrica Garzilli è, dal 1995, direttrice delle riviste accademiche “International Journal of Sanskrit Studies” e “Journal of South Asia Women Studies”. È stata quindi Research Affiliate al P.G.D.A.V. College, una delle più antiche istituzioni dell’Università di Delhi. Dal 1991 al 2011 ha vinto la Senior Fellowship presso il Center for the Study of World Religions dell’Università di Harvard (1992–94), ha compiuto quattro anni di studi post-laurea in storia, informatica e giurisprudenza, ha insegnato come Lecturer di sanscrito all’università di Harvard e servito come direttore editoriale della Harvard Oriental Series-Opera Minora, è stata Visiting Researcher alla Harvard Law School (1994–96) e docente presso le università di Macerata, Perugia e Torino. Collabora in qualità di esperta alla RSI – Radiotelevisione Svizzera e a riviste e giornali italiani.

 

“GLOBAL TIMES”: UNO STRUMENTO DI DIALOGO. INTERVISTA A LI HONGWEI (a cura di Andrea Fais)

Li Hongwei è caporedattore dell’edizione in lingua inglese del quotidiano di approfondimento cinese “Global Times”. Fondato nel 1993 dall’editore del “Quotidiano del Popolo”, il “Global Times” ha raggiunto una popolarità internazionale a partire dal 2009, quando fu lanciata l’edizione in lingua inglese che ha raggiunto i lettori di tutto il mondo, accreditandosi come riferimento imprescindibile per conoscere analisi e opinioni della società cinese. La presente intervista è stata rilasciata ad Andrea Fais, collaboratore di “Eurasia” e di “Global Times”.

 

 

RECENSIONI

Luciano Pignataro, La Cina contemporanea da Mao Zedong a Deng Xiaoping (1949-1980) (Andrea Fais)

Tiziano Terzani, Tutte le opere (Stefano Vernole)

Carlo Terracciano, L’Impero del Cuore del Mondo (Andrea Fais)

Massimo Cacciari, Il potere che freno (Claudio Mutti)

 

 

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Il secolo cinese?

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SOMMARIO

 

Editoriale 

C. Mutti, Il secolo cinese?

 

Geofilosofia
Davide Ragnolini, Hegel e il fondamento geografico della storia mondiale

 
Dossario – Il secolo cinese?
Redazione, La Repubblica Popolare Cinese: profilo e risorse
Qi Han, La nuova Via della Seta
Giuseppe Cappelluti, Ritorno alla Via della Seta
Spartaco Alfredo Puttini, La Cina per un ordine multipolare
Andrea Fais, La seconda portaerei cinese
Alessandro Lattanzio, La triade nucleare della Repubblica Popolare Cinese
Giovanni Armillotta, Gli altri partiti nella Cina Popolare
Sara Nardi, La quinta generazione al potere
Maria Francesca Staiano, Hukou. La residenza in Cina
Stefano Vernole,  Myanmar: una partita ancora aperta?
Luca Bistolfi, La Cina in Romania
Ornella Colandrea, Il turismo cinese del XXI secolo
Elena Premoli, Il turismo cinese in Italia
Davide Ragnolini, La ricezione di Carl Schmitt in Cina

Continenti
Cristiano Procentese, Globalizzazione: definizioni e conseguenze
Giuseppe Cappelluti, La Lettonia verso l’euro
Giuseppe Cappelluti, Le mani sull’Asia centrale
Andrea Forti, La guerra civile del Tagikistan (1992-1997)
Vittoria Squillacioti, Comunità religiose in Siria
Sara Brzuszkiewicz, Arabia Saudita: alleanze estere e dinamiche interne
Lorenzo Salimbeni, Il taglio dell’istmo di Suez

 Interviste
Tucci in Oriente. L’avventura di una vita. Intervista a Enrica Garzilli  (Andrea Fais)
“Global Times”: uno strumento di dialogo. Intervista a Li Hongwei (Andrea Fais)

Recensioni
Luciano Pignataro, La Cina contemporanea da Mao Zedong a Deng Xiaoping (1949-1980) (Andrea Fais)
Tiziano Terzani, Tutte le opere (Stefano Vernole)
Carlo Terracciano, L’Impero del Cuore del Mondo (Andrea Fais)
Massimo Cacciari, Il potere che frena (Claudio Mutti)

 

 

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi.

 

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IL SECOLO CINESE?

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Sommario del numero XXXII (4-2013)

 
 
“Il prossimo scontro sarà tra gli Stati Uniti e la Cina” (Lionello Lanciotti, Dove va la civiltà cinese?, Roma 2005, p. 28).

 

Nel loro famoso libro sulla “guerra senza limiti”, Qiao Liang e Wang Xiangsui hanno indicato come “operazioni di guerra non militari”1 alcuni generi non convenzionali di conflitto che caratterizzano gli scontri attualmente in atto nella realtà internazionale: la guerra commerciale, la guerra finanziaria, la nuova guerra terroristica, la guerra ecologica.

A queste nuove forme di guerra sarebbe il caso di aggiungerne un’altra, configurabile come una dinamica geopolitica che contribuisce a spostare definitivamente verso l’Eurasia il baricentro del potere mondiale: la guerra dell’oro.

Secondo William Kaye, un ex della Goldman Sachs che gestisce fondi finanziari a Hong Kong, “la Cina possiede tra 4.000 e 8.000 tonnellate di oro fisico. Non solo i Cinesi sono i più grandi produttori di oro, ma sono anche i maggiori importatori di oro al mondo. La Cina accumula in maniera rapida e massiccia l’oro estirpato all’Occidente. (…) Penso che la Cina non abbia terminato di accumulare oro. Dai forzieri occidentali ne è uscito molto, lo hanno ammesso le grandi banche centrali: la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Inghilterra”. Kaye afferma che l’oro della Federal Reserve è diventato proprietà della Banca Popolare Cinese e, in parte, anche della Reserve Bank of India e della banca centrale russa. “Nei forzieri della Federal Reserve – dice – non c’è più nulla”2.

L’eventualità che la Cina riprenda il suo ruolo di grande potenza mondiale ossessiona da tempo la classe politica statunitense. A Richard Nixon, che normalizzò i rapporti degli Stati Uniti d’America con la Repubblica Popolare Cinese, viene attribuita la frase seguente: “Basta fermarsi un momento a riflettere su cosa accadrebbe se qualcuno capace di assicurare un buon sistema di governo riuscisse a ottenere il controllo di quel territorio. Buon Dio, nessuna potenza al mondo potrebbe… Voglio dire, mettete 800 milioni di cinesi al lavoro con un buon sistema di governo, e diventeranno i leader del mondo”3.

Al “secolo americano” ormai tramontato non seguirà il “nuovo secolo americano” progettato dai vari Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard Perle, Zalmay Khalilzad ecc. Che al “secolo americano” stia per subentrare un “secolo cinese” è timore ormai ampiamente diffuso negli ambienti atlantisti. In un dibattito di due anni fa che annoverava Henry Kissinger tra i suoi partecipanti, un professore di storia dell’economia dell’università di Harvard che di Kissinger è il biografo ufficiale, Niall Ferguson, ha detto: “Ritengo che il XXI secolo apparterrà alla Cina, perché lo sono stati quasi tutti i precedenti secoli della storia. Il XIX e il XX rappresentano un’eccezione. Per ben diciotto degli ultimi venti secoli la Cina è stata, in vario grado, la maggiore economia mondiale”4.

Ci pare interessante la frase con cui l’ex segretario di Stato nordamericano ha replicato al suo biografo: “Il punto non è se il XXI secolo apparterrà alla Cina, bensì se, in questo secolo, riusciremo a integrare la Cina in una visione più universale”5 – dove “visione universale” va naturalmente inteso come “visione occidentalista del mondo”. In che cosa consista il compito proposto da Kissinger risulta chiaro da una risposta che egli ha data nel corso di un’intervista del 2011: “Dobbiamo ancora vedere che cosa produrrà la Primavera araba. E’ possibile che in Cina ci saranno rivolte e manifestazioni (…) Non mi aspetto però sommovimenti della stessa portata della Primavera araba”6. Kissinger infatti esclude, giudicandola fallimentare, l’idea di applicare alla Cina la strategia perseguita a suo tempo dall’Occidente contro il blocco guidato dall’URSS: “Un piano americano che si proponesse esplicitamente di dare all’Asia un’organizzazione capace di contenere la Cina o di creare un blocco di Stati democratici da arruolare in una crociata ideologica non avrebbe successo”7.

La difficoltà di praticare una politica che si limiti a “contenere la Cina” ha favorito la nascita di un’altra concezione strategica: quella che gli analisti della Rand Corporation, unendo i termini containment ed engagement, hanno denominata congagement. Il senso di questa strategia venne così enunciato una quindicina d’anni fa da uno dei suoi teorici, Zalmay Khalilzad, che era stato ambasciatore in Iraq e in Afghanistan nonché consigliere del Segretario della Difesa Rumsfeld: “Se la Cina opta per la cooperazione con l’attuale sistema internazionale e diventa progressivamente democratica, allora questa politica evolverà in un mutuo partenariato. Se invece la Cina diventa una potenza ostile e interessata all’egemonia regionale, allora la nostra posizione evolverà nel containment8.

In ogni caso, gli strateghi statunitensi dovrebbero aver preso atto che un attacco frontale contro la Cina sarebbe destinato all’insuccesso. Come ha avvertito Jordis von Lohausen, “i tentativi di intrusione economica o militare – la sua estensione è troppo vasta – non possono nulla contro di essa. Essa è di un’altra razza e di una cultura antica, di gran lunga più antica. La Cina ha accumulato tutta l’esperienza della storia mondiale e resiste ad ogni trasformazione. La Cina è inattaccabile”9.

 

 

Claudio Mutti, direttore di “Eurasia”.

 

 

1. Qiao Liang e Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, a cura del Generale Fabio Mini, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001, p.80.
2. www.rischiocalcolato.it/2013/11
3. AA. VV., Il XXI secolo appartiene alla Cina?, Mondadori, Milano 2012, p. 12.
4. AA. VV.,  op. cit., p. 12.
5. AA. VV., op. cit., p. 23.
6. Conversazione di John Geiger con Henry Kissinger, in: AA. VV., op. cit., p. 74.
7. H. Kissinger, Cina, Mondadori, Milano 2011,  pp. 441-442.
8. Zalmay Khalilzad, Congage China, IP-187, Rand Corporation, Santa Monica 1999.
9. Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Kurt Vowinckel, Berg am See 1981.

 

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LA VIA DELLA SETA 2.0

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Con la fine della Guerra Fredda, le teorie dominanti negli Stati Uniti giunsero a preconizzare il prossimo avvento di un nuovo secolo americano, contraddistinto dalla supremazia del campo occidentale e dalla centralità globale dell’area transatlantica. Negli ultimi anni queste previsioni sono state ampiamente ridimensionate dall’emersione di nuovi poli economici mondiali che, sfruttando le dinamiche del processo di globalizzazione economica, hanno potuto svilupparsi, creando potenti aree di mercato al di fuori dell’Occidente. In particolare, la Russia, la Cina, l’India e i Paesi dell’Asia Centrale sembrano aver costruito le fondamenta per la formazione di un nuovo ordine internazionale capace di riaffermare l’antico primato mondiale della Via della Seta, con conseguenze e implicazioni epocali per l’Europa.

Conferenza presso la sala del Sangallo Palace Hotel in Via Masi, 9 a Perugia.

Per l’occasione sarà presentato il nuovo numero di “Eurasia”, dedicato alla Cina.
Modera:
Andrea Fais (collaboratore del tabloid cinese “Global Times”).

Intervengono:
Claudio Mutti (direttore della rivista di studi geopolitici “Eurasia”).

Li Xiaoyong (direttore dell’Ufficio Stampa dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese).

Giovanni Pomponi (Console onorario del Kazakhstan in Umbria).

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TURKEY AND ARMENIA: A RECONCILIATION IS POSSIBLE?

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During an international summit in Erevan on 13th December 2013, the Turkish Minister of Foreign Affairs Ahmet Davutoğlu defined “inhuman” the deportations and massacres of Armenians of 1915[1]. During his visit in the Armenian capital, Davutoğlu received a book with several testimonies of the survivors of the Great Crime (as the Armenians call the Armenian Genocide)[2]. We don’t know if he will read it, but this is not important: Davutoğlu’s historical statements are far more significant, because they greatly increased the hopes for a reconciliation between Turkey and Armenia.

The Armenian Genocide is one of the main bones of contention between Turkey and Armenia, if not the main one. The roots of the controversy date back to the 16th century, when most of Armenia was conquered by the Ottoman Empire. At that time, almost all of the Armenians belonged to an Oriental Orthodox church[3] (the Armenian Catholic Church, which is in communion with Rome while keeping the Armenian rite, was established in the mid-18th century). The Sublime Porte awarded the Armenians freedom of religion and of self-government under a purposefully created Armenian Patriarchate of Constantinople, but relegated them, as well as the other non-Muslims, to a status of dhimmi – namely, non-Muslim populations deprived of some rights and subject to a higher tax burden in exchange of religious and self-governmental freedom.

The Ottomans’ relative tolerance was related to the actual aim of their conquests, which was not so much the spread of Islam, but rather the enlargement of the territories controlled by the Islamic countries (dār al-Islām). Furthermore, as they generally lacked a great administrative experience, the Ottoman Turks usually left in place pre-existing administrative practices. What the Ottomans demanded were the recognition of their domination and a higher fiscal burden on non-Muslims. Forced conversions to Islam were rare, although existent: the taxes paid by the dhimmis, after all, were an important source of incomes for the Ottoman state.

This led to a substantial crystallization of the religious communities. People believing to different Gods could live side-by-side, but usually conducted separate lives, and the Armenians were particularly resilient to assimilation thanks to their endogamy and their strong identity based on religion. Furthermore, in spite of their status of second-class citizens, some Armenians turned up to be particularly successful in business, trade and administration, in particular those from the prosperous community of Constantinople. One of them was Abraham Pasha (born Abraham Eramyan), a prominent Ottoman banker and diplomat and a close friend of Sultan Abdul-Aziz’s[4]. Nevertheless, since the middle 18th century, both the decline of the Ottoman Empire and the strengthening of the influence of the European powers led to a change – and, paradoxically, a worsening – in the condition of the Armenians.

Since 1839, a shrinking Ottoman Empire started a series of historic reforms leading to its final transformation from a multiethnic and multireligiose empire into a national state under Mustafa Kemal Atatürk. The first step were the Tanzimat reforms, which provided for a formal equality among the citizens of the empire regardless of religion, the abrogation of the millet system and the creation of a common Ottoman identity. Despite their impact could have been revolutionary  for the Ottoman society, these reforms did not lead to great changes, and many of them went unapplied because of heavy resistances in the state bureaucracy. Furthermore, the abrogation of the millet system led to a growth in the interreligious tensions, so far rather limited. Especially among Muslims, the Armenians became the target of heavy anti-Armenian feelings similar to the anti-Semitic ones of then-Central Europe. Eventually, the Russian conquest of Nagorno-Karabakh and the regions of Yerevan and Kars, all of them populated mainly by Armenians, favoured the spread of irredentist claims among the Armenians of the Ottoman Empire. Since the last decade of the 19th century, there were periodical clashes between Armenians and Muslims, and in 1915 the Armenians of the Lake Van, in nowadays south-eastern Turkey, stood up against the Ottoman ruler. They hoped that the advancing Russian troops would have liberated them after some days, but unfortunately they only triggered the well-known overreaction of the Ottoman troops. Starting from 24th April of that year, indeed, millions of Armenians, Assyrians and Pontic Greeks were deported from their homeland, and hundreds of thousands of them were killed during the deportations[5].

After the First World War, the First Republic of Armenia was established in the territories of the Russian Armenia ceded to the Sublime Porte after the 1917 Treaty of Brest-Litovsk and in some of the Armenian populated areas of the Ottoman Empire. The life of the Republic was nevertheless rather short. In 1920, most of its territories were reconquered by the Ottoman Empire, while in the rest the Bolsheviks settled up the Armenian Soviet Socialist Republic. In 1921, the Treaty of Kars fixed the borders between Armenia – and in turn the Soviet Union – and the Turkish Provisional Government. The allotment to Turkey of the Mount Ararat, the Holy Mountain of the Armenians, and the ancient Armenian capital of Ani were two bitter pills for the Armenians, and another slap was the assignment of the predominantly Armenian Nagorno-Karabakh to Azerbaijan with the status of an autonomous province two years later. Further than the usual “divide and rule”, this last decision was due to international politics considerations: the Soviet Union wanted to establish good relations with the fledgling Republic of Turkey, and awarding Karabakh to an administrative entity whose titular ethnicity was Turkic and particularly close to the Turks was all but void of significance.

In the spring of 1945, the USSR asked the restitution of the territories ceded to Turkey after the treaties of Brest-Litovsk and Kars. They came as one of the preconditions for the stipulation of a military agreement with the Soviets proposed by the then Turkish government, with the other being the acceptance of a Soviet military base on the Turkish Straits[6]. These requests, nevertheless, turned up to be a boomerang for the Soviet government. The Turkish government turned to the Western powers in search of help, and they in turn supported the Turkish position[7]. As a consequence, the USSR had to step off, and Stalin’s death led to an official relinquishment of any territorial claims[8]. In the meanwhile, the once flourishing Armenian community of Turkey was almost disappeared, and most of those who had escaped the massacres had fled to the Soviet Union and the West (mainly France and the United States), where they have established a strong and influential Armenian Diaspora. Many of those who remained, on the other hand, had assimilated themselves to the Turkish or Kurdish population, and somebody even took on the Islamic faith.

In 1991 Turkey was one of the first states to recognize Armenia’s independence[9]. The rebirth of the Armenian state, nevertheless, was followed not only by a reopening of old issues, but also by the birth of new ones. The main of the latter was undoubtedly the Nagorno-Karabakh conflict between Armenia and Azerbaijan. During the final phase of the Soviet Union, the growth of irredentist claims in the region led to a series of interethnic clashes between Azeri and Armenians throughout Azerbaijan, then hosting a strong Armenian minority also outside Karabakh. In 1992, when the Soviet Union was finally over, the clashes gave rise to a war between Armenia and Azerbaijan for the control of the former Azerbaijani Autonomous Province. If Russia, after an initial support to Azerbaijan, turned to Armenia, Turkey supported its brother country since the same outbreak of the war. Further than supplying Azerbaijan’s army with weapons, Turkey closed its borders with Armenia, set up an embargo over Armenian goods, and even threatened the country with a military intervention in case Nagorno-Karabakh wouldn’t have been returned to Azerbaijan. Only Russia’s threat to intervene beside Armenia forced Turkey to calm down[10].

The Nagorno-Karabakh war ended in 1994 with a substantial Armenian victory, which now controlled not only most of the disputed region, but also a buffer zone between Armenia and Nagorno-Karabakh. Azeri and Kurds living in Nagorno-Karabakh and the buffer zone were killed or forced to escape, and the same happened to the Armenians living in Azerbaijan and the Azerbaijani-controlled parts of Nagorno-Karabakh. A truce was reached by Armenia and Azerbaijan under the Bishkek Protocol, but it was repeatedly violated by both sides. The Turkish blockade, nevertheless, was not useless, because it greatly contrived to Armenia’s exhaustion after the war and still poses a great obstacle to its development[11]. The country, indeed, would have subsequently recovered thanks mainly to the support of Russia and the Diaspora.

During the 90’s, the relations between Turkey and Armenia remained rather tense. On the one hand, Armenia vehemently criticized the building of the Baku-Tbilisi-Ceyhan oil pipeline, the Baku-Tbilisi-Erzurum gas pipeline and the Kars-Tbilisi-Baku railway link. According to Yerevan, indeed, one of their main aims was to isolate Armenia[12]. It should be noted that it was namely the ongoing blockade of Armenia imposed by both Turkey and Azerbaijan to cause the elongation of these links through Georgia. Furthermore, up to now the Armenian government has never acknowledged officially the Treaty of Kars. The former Minister of Foreign Affairs Vardan Oskanyan has stated that his country accepts its current borders with Turkey, but the regions of Kars and Ardahan are still called “Western Armenia” in both the Declaration of Independence and the Armenian Constitution[13]. On the other hand, Turkey keeps a strong support to Azerbaijan over the Karabakh dispute, and continues to deny the Armenian Genocide officially. A further bone of contention between Armenia and Turkey is the Metsamor nuclear power plant issue. Situated 17 kilometres away from the Turkish-Armenian border, the plant was closed in 1988 and reopened six years later to increase the Armenian energy supply, which was quite scarce after the war. But the plant is obsolete, and the risk of a nuclear catastrophe which would involve not only Armenia, but also Turkey and Georgia, is unfortunately rather high[14].

The electoral success of Gül and Erdoğan’s Justice and Development Party (AKP) in 2002 was followed by a moderate thaw between Turkey and Armenia. The new government strived, and strives, both to improve the status of the ethnic and religious minorities of the country and to set up positive relations with its neighbours (“zero problems with neighbours”). There is also a certain neo-imperialism in this policy, and namely in the attempt to establish a Turkish sphere of influence in the territories which were once part of the Ottoman Empire, especially the Muslim ones (neo-Ottomanism). Both this Turkish neo-imperialism and the recognition of some rights to the ethnic and religious minorities of the country, as shown by the opening of a public television channel completely in Kurdish, can be considered a partial departure from the rigidly nationalism inherited by Atatürk. The country, nevertheless, has never abandoned its target to join the European Union, and however paradoxical it may sound, the moderately Islamist and neo-imperial Turkey of nowadays is under various aspects more European than the Kemalist one. Some of the main features of Kemalism, such as its authoritarianism and the extensive recourse to history alteration (a tendency, the latter, which actually has never been abandoned), could not be considered “European”, at least if we associate Europe with the West.

Like the other main minorities, also the Armenians have been enjoying an increase in their cultural and religious rights. Several Armenian churches and buildings, some of which more than a thousand year old, have been restored, sometimes after decades of oblivion. One of them is the 10th century Cathedral of the Holy Cross, situated on an island of the Lake Van, which since 2010 holds a Mass a year[15]. In the following year, the St Giragos Church in Diyarbakır, an important city not far away from the Syrian border, became the first Armenian church permanently open after the Genocide. In the future, part of the building will host an Armenian museum[16].

Also the public mood in Turkey about both Armenians and the Genocide issue seems to be changing. A demonstration about this come from the massive participation to the funerals of Hrant Dink, a Turkish journalist of Armenian descent who was killed by an ultranationalist. More than a hundred thousand people took part in his funerals and protested against the infamous Article 301[17], according to which the journalist was condemned for having written about the Armenian Genocide some months before his death[18].

Hrant Dink’s sacrifice marked a turning point in the Turkish-Armenian relations. The Turkish governments still denies the existence of a plan to exterminate the Anatolian Armenians, and talking about an Armenian “genocide” in Turkey is still a taboo. The Turks, nevertheless, are growing more conscientious about the issue, and the 24th April, the starting date of the deportations of the Armenians in 1915, is now commemorated in the main Turkish cities[19]. The relations with Armenia have also partly melted. In 2008, the Turkish President Abdullah Gül became the first high-level Turkish politician to visit Armenia, the occasion being the football match between Turkey and Armenia for the qualifications for the 2010 World Cup. One year later, Ankara and Yerevan signed a protocol for the regularization of their relations. According to the protocol, Turkey renounced to bind the normalization of its relationships with its neighbour with the restitution of Nagorno-Karabakh to Azerbaijan, while Armenia, in turn, would have officially recognized the Treaty of Kars and agreed to the establishment of a joint Turkish-Armenian commission for the study of the Armenian Genocide issue[20].

The protocol, nevertheless, so far has remained a mere declaration of intents. In 2010, its ratification was blocked by the Armenian Parliament, after the Turkish government stated that it would not have ratified the agreement before the settlement of the Nagorno-Karabakh dispute[21]. Turkish-Armenian relations further worsened in June 2013, when the General Procurer of Yerevan asked the restitution of the territories ceded to Turkey under the Treaty of Kars, of the Armenian churches situated in Turkey and some material compensations for the Genocide victims[22]. The desire of pacification, on the other hand, seems to be still rather strong, as shown by the recent Davutoğlu’s statements.

The advantages coming from a possible normalization would undoubtedly be greater for Armenia. Both the war with Azerbaijan, which actually has never really ended, and the ongoing Turkish blockade make Armenia a partially insulated country. The only open land links between Armenia and the outside world are those through Georgia and Iran, but the former’s potential is greatly limited by the closure of the borders between Russia and Georgia after the 2008 War, while the one and only road linking Armenia and Iran is rather impervious. The two countries have recently agreed to build a new railway line, but its construction is still to be subcontracted[23]. Furthermore, this railway will be less useful than a reopening of the borders with Turkey, because this would give the country an almost direct access to the Russian and European markets, while, at the same time, decrease Armenia’s heavy reliance on Russia. A normalization of the relations with Turkey would also lead to an improvement of the conditions of the about 100,000 Armenian illegal immigrants living in Turkey. Up to now, their presence in the thriving Turkey has been usually accepted, but their illegal status make them targets for political pressures. In 2010, for instance, the Turkish premier Erdoğan threatened to repatriate the illegal immigrants in case Armenia would have continued its campaign for the international recognition of the Armenian Genocide[24]. In the following year, nevertheless, around 1,000 children of the illegal immigrants were allowed to study in the Armenian schools of Turkey[25]. Finally, the reconciliation would implicate a lift of the ban of the importations of Armenian goods in Turkey, with all its foreseeable consequences[26].

Nevertheless, also Turkey would greatly benefit from a reconciliation. The main ones involve international politics. Two of the main prerequisites posed by the European Union to Turkey for the accession to the European Union are indeed the recognition of the Armenian Genocide and the establishment of regular relations with Armenia. Furthermore, the re-establishment of Turkish-Armenian relations would greatly contrive to stabilize the Caucasus: it should not be surprising if the 2008 Russian-Georgian War were somehow tantamount for the intensification of the talks between Turkey and Armenia. The economic benefits, on the other hand, should not be underestimated. They concern mainly the Eastern regions, closer to the Armenian border and rather excluded from the economic boom of the latest years. The border reopening is a potential opportunity for them: the former major of Kars Naif Alibeyoğlu, for instance, stated in an interview for The Economist that it would stimulate the growth of tourism, especially the Armenian Diaspora one, towards the ruins of Ani, which are not far away from Kars. The touristic development would mean not only millions of dollars of new incomes for Kars, but also, as stated by Alibeyoğlu, an occasion for the Armenian tourists “to meet Turks and realise they are not so evil as they imagined”[27]. And, of course, the other way round.

So, there is plenty of reasons to support reconciliation, but this process is actually hindered by a number of issues with a strong emotional meaning. For both Turks and Armenians, the other is often an enemy, and sometimes “the” enemy. Most Armenians heavily grudge the Genocide and the Turkish official position around it, and many criticize even those who visit Turkey for a simple trip[28]. Turkish nationalists, on the other hand, respond to the Armenian accuses of genocide pointing the finger to the ethnic cleansing of Karabakh Azeri and calling it “genocide”[29]. Furthermore, if Turkey improved its relations with Armenia, it would automatically worsen those with Azerbaijan, which greatly relies on Turkey to put pressure on its archenemy. For many Turks, the Azeri are brothers for both ethnic (they are both Oghuz Turkic peoples, and their languages are mutually intelligible) and religious reasons (Turks and Azeri are both Muslims, although the former are predominantly Sunnite and the latter mainly Shiite), and risking to compromise their special relationship with Azerbaijan to make peace with Armenia would be rather unconceivable.

The confrontation between Turkey and Armenia remembers an attrition war, and making any forecast about the winner is very difficult. The main aces in the hole of Turkey are now a booming economy, a certain support from the Islamic countries, some of which, such as Pakistan and Saudi Arabia, don’t even have official relations with Armenia, and the Western strategic interests (business opportunities, pipeline routes and containment of both Russia and radical Islam). Armenia, on the other hand, can rely on its strong alliance with Russia, its influential Diaspora and the solidarity of many Western intellectuals. The evolution of the geopolitical situation in the Caucasus, the Near and Middle East and the Former Soviet Union states will probably be crucial in defining winners and losers.

 




[3] The Oriental Orthodox churches (not to be confused with the Eastern Orthodox ones) are those churches recognizing only the first three ecumenical councils. They are namely the Assyrian Orthodox Church, the Armenian Apostolic Church and the Coptic Churches of Egypt and Ethiopia.

[5] D. Hiro, Inside Central Asia, Overlook Duckworth, New York/London 2011, p. 70.

[11] S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milan 2000, p. 444.

[17] The Article 301 is an article of the Turkish penal code providing for up to three years in prison for anyone publicly denigrating Turkishness, the Republic of Turkey and the Grand National Assembly of Turkey. Because of this article, several prominent personalities who publicly mentioned the Armenian Genocide have been charged of “insulting Turkishness”: further than Hrant Dink, some of them are the writer Elif Şafak and the Nobel laureate in Literature Orhan Pamuk. In 2008, one year after Dink’s murder, the article was reformed: the controversial formula “insulting Turkishness” was replaced with the more moderate “insulting the Turkish nation”, the penalty aggravation for the Turkish citizens who denigrate their country abroad was removed and any case needs now the approval of the Ministry of Justice before proceeding.

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CINA E TURCHIA, RELAZIONI IN CRESCITA

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Il pieno riconoscimento turco dell’integrità territoriale cinese ha cancellato le passate polemiche su Uiguri e Xinijang e decisamente favorito il forte sviluppo delle relazioni fra i due Paesi, soprattutto dal punto di vista economico. L’avvicinamento di Ankara all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai costituirà il primo passo per una più ampia integrazione di carattere geopolitico?

 

 

Superata la breve crisi del 2009  –  allorché una serie di incidenti fra Han e Uiguri nella regione dello Xinijang  determinò le dure critiche dell’esecutivo  turco alla politica cinese in quell’area – gli anni più recenti hanno visto un significativo aumento delle relazioni sino-turche.

Innanzitutto, il governo cinese ha potuto incassare il pieno sostegno di Ankara  nei confronti di ogni separatismo e di ogni forma di eversione terrorista: nel luglio 2013 Repubblica Popolare Cinese  e Turchia hanno affermato la loro volontà di cooperazione in questo campo, nel rispetto dell’ integrità nazionale dei due Paesi. La politica cinese ha effettivamente confermato la sua buona volontà e la sua apertura nei confronti della minoranza uigura, sicché i disordini che di tanto in tanto affiorano sono interpretati da parte turca per quello che sono, e cioè manifestazioni periodiche di frange separatiste che non coinvolgono la grande maggioranza della popolazione uigura; in qualche caso si tratta di dissapori e problemi di carattere locale che rientrano in un limite fisiologico di scontro/confronto, e la cui gestione non richiede certamente intrusioni di Stati esteri o prese di posizione invasive da parte  di organizzazioni internazionali.

Il 2013 è stato dichiarato in Cina “anno della Turchia” (con inaugurazioni ufficiali tenutesi nel mese di marzo a Pechino e a Shanghai), mentre il 2012 era  stato “anno della Cina” nel Paese della Mezzaluna: riscontri evidenti  di una rinnovata attenzione fra i due Paesi,  i cui interessi gravitano anche verso la vasta area dell’Asia centrale ove la turcofonia è ben presente così come la capacità di investimenti economici di Pechino. L’inserimento della Turchia come “partner di dialogo” dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (aprile 2013) – lo stesso ruolo attualmente ricoperto dalla Bielorussia e dallo Sri Lanka – costituisce una svolta importante nelle relazioni  fra Ankara e Pechino, considerato anche che la dirigenza turca considera il ruolo di partner  come preliminare a una futura adesione a pieno titolo all’Organizzazione.

Nell’ottobre 2010 il Primo Ministro  Wen Jiabao si era recato in Turchia dando il via a una positiva ripresa delle relazioni sinoturche. In quell’occasione venivano stipulati fra i due Paesi ben quattro accordi di carattere generale:

  • Accordo di contesto per l’ulteriore espansione e approfondimento della cooperazione bilaterale in materia di commercio ed economia;
  • Memorandum di intesa per l’avvio di uno studio congiunto riguardante un piano di sviluppo a medio e a lungo termine della cooperazione in materia di commercio ed economia;
  • Memorandum di intesa per il miglioramento della cooperazione nella realizzazione di infrastrutture e nei servizi di consulenza tecnica in Paesi terzi;
  • Memorandum di intesa per la composizione di un gruppo di lavoro congiunto avente a oggetto la nuova Via della Seta.

Tali accordi si aggiungevano a quelli già in vigore nel 2010, da quello sul commercio (stipulato fra le parti fin dal 1974) a quelli su economia, industria e cooperazione tecnica (1981), sulla protezione e promozione degli investimenti (1990), sulla salvaguardia dalla doppia tassazione (1995) e al memorandum d’intesa fra il sottosegretariato del Primo Ministro presso il ministero del commercio estero  turco e il ministero per il commercio estero e la cooperazione economica della RPC in tema di consultazioni fra i due Paesi in materia di commercio (1999).

Nel 2012 si è registrata un’altra importante visita: in febbraio il Vicepresidente Xi Jinping ha incontrato ad Ankara il Presidente Gül, indicando nella Turchia “uno dei Paesi più interessanti del mondo” e rievocando il legame intercorrente  lungo la storica Via della Seta. Oltre cento delegazioni di affari provenienti dalla Cina hanno stabilito nell’occasione importanti contatti con la controparte, mentre sono stati sottoscritti accordi economici per un valore di quasi quattro miliardi e mezzo di dollari.

Nell’aprile 2012 è stato il Primo Ministro turco Erdogan a recarsi in Cina e a incontrare Wen Jiabao, per il primo incontro fra Capi di Governo dei due Stati dopo 27 anni. Oltre che a intensificare gli accordi commerciali, la visita ha contribuito a fissare la cooperazione fra i due Paesi in ambito nucleare, con forti investimenti cinesi in Turchia in quel settore. Nel 2013 meritano particolarmente di essere menzionati gli accordi per la modernizzazione e in qualche caso la creazione ex novo di linee ferroviarie in Turchia,  in vista anche  di un collegamento ad alta velocità fra i due Paesi e  della realizzazione di una linea che collegherà Istanbul a Shanghai senza fermate intermedie (un primo approccio sulla questione si era tenuto nel luglio 2010 a Pechino in un incontro fra i rispettivi ministri dei trasporti).

Negli anni recenti, insomma, le relazioni e la cooperazione fra Cina e Turchia hanno prese il volo: il valore dell’interscambio commerciale, che nel 2000 era di un miliardo di dollari, nel 2012 ha superato i 24 miliardi, ed è in fortissima crescita, tanto che alcuni analisti pensano possa raggiungere i 50 miliardi nel 2015 e rasentare i 100 miliardi intorno al 2020. Di tali 24 miliardi, le esportazioni cinesi verso la Turchia rappresentano la gran parte (21,3 miliardi, contro 2,8 miliardi di esportazioni turche verso la RPC); in forza di ciò, la Cina rappresenta per la Turchia il terzo più importante Paese al mondo – dopo Germania e Russia – per quanto riguarda le importazioni. Le categorie più rappresentate sono quelle delle telecomunicazioni, dell’elettronica e dell’elaborazione dei dati, dei filati tessili  e del macchinario industriale, mentre ultimamente sta crescendo grandemente anche l’importazione di tubi senza saldatura.

Nel campo degli investimenti il margine di crescita è senza dubbio ampio, posizionandosi  l’impegno cinese in Turchia – a quanto segnala la Banca Centrale turca – intorno ai 26 milioni di dollari nel decennio 2002/2012, un importo non particolarmente rilevante. La politica di massicci investimenti all’estero perseguita dal governo della RPC determinerà certamente una consistente crescita dei flussi, secondo quella linea di tendenza che è già stata anticipata – come segnalato – nel settore ferroviario e in quello nucleare, e che potrebbe  riguardare anche i collegamenti autostradali. Per il momento sono circa 450  le imprese cinesi che operano nel Paese della Mezzaluna, e di queste circa il 10 % dispone di un capitale sociale superiore ai 500.000 dollari.

Confronto culturale e spiccata cooperazione economica non consentono ancora di parlare di convergenza politica fra Cina e Turchia, anche se l’avvicinamento di Ankara all’Organizzazione di Shanghai e l’assenza di reali motivi di frizione fra i due Paesi possono favorire a medio – lungo termine questa ipotesi. Sarà importante, in questo contesto, che cinesi e turchi sappiano percorrere il loro cammino sulla strada di un’effettiva  sovranità geopolitica non compromessa da pressioni internazionali.

 

* Aldo Braccio è redattore di “Eurasia”

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CRISI DIPLOMATICA E SEGNI DI DISGELO: POSSIBILI ACCORDI SUL NUCLEARE

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Faccio mio l’appello dei miei predecessori in favore della non proliferazione delle armi e del disarmo da parte di tutti, a cominciare dal disarmo nucleare e chimico. Finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione come quella attuale si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità”. (Appello di Papa Francesco nel messaggio per la 47a Giornata Mondiale della Pace, che è stata celebrata il 1 gennaio 2014 sul tema: “Fraternità, fondamento e via per la pace”).

Una dimensione quanto mai “irrisoria e irruenta” caldeggia la scena mondiale, acuendo ed inasprendo il problema della proliferazione nucleare. È quanto si desume dalle parole di Papa Francesco: è lo spettro del terrorismo che incalza e si innesta dietro l’angolo dell’agguato, ne rimarca gli orrori disastrosi dell’11 settembre 2001, incute timore e innesca “terrore internazionale”, assumendone una connotazione sempre più globale. “Il pericolo che gruppi terroristici possano entrare in possesso di armi nucleari (…), non può essere sottovalutato e richiede una collaborazione sempre più intensa tra i servizi di intelligence e di questi con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) e con il Giappone dei Paesi fornitori nucleari”. (1) È indispensabile e necessaria una maggiore attenzione agli aspetti di nuclear security (oltre che di nuclear safety) nella progettazione delle centrali nucleari e degli impianti del ciclo del combustibile, per prevenire la possibilità e limitare gli effetti di attacchi terroristici, in vista del raggiungimento di un equilibrato e accettabile compromesso. Questo è lo scenario preoccupante che si profila e si dipana nello scacchiere internazionale, che è stato oggetto di discussione in programma nell’agenda politica internazionale, svoltasi a Ginevra il 7 e 8 novembre, di una seconda tornata di trattative, a seguito delle giornate del 15 e 16 ottobre per affrontare il controverso programma atomico iraniano sospettato di finalità militari (2), in particolar modo dallo stato di Israele; manifestato in una nota dal capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu: “l’esito raggiunto a Ginevra non è stato un accordo storico, ma un errore storico che rende il mondo un posto molto più pericoloso, in quanto il regime più pericoloso potrà fare passi significativi per acquisire l’arma più pericolosa”. È quanto si desume dall’ accordo siglato alla presenza del noto gruppo P5+1, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza  (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina) più la Germania (3) e la Repubblica Islamica dell’Iran. A presiedere i colloqui l’Alto rappresentante della politica estera europea Catherine Ashton, colloqui destinati a “esplorare sia le proposte messe sul tavolo sia le idee che arrivano dall’Iran”. L’Iran ha da sempre manifestato il suo interesse per l’energia nucleare, ha firmato il TNP (Trattato di non proliferazione) e ha affermato che il suo programma nucleare non ha come scopo la costruzione di ordigni atomici, ma soltanto la produzione di energia elettrica. I sospetti sui reali obiettivi del programma nucleare iraniano risiedono nella sua capacità di essere uno dei più importanti produttori di petrolio e di gas naturale. (4)

È dal 1979 che gli Stati Uniti applicano sanzioni economiche all’Iran; sanzioni, “estese anche a Paesi che hanno rapporti economici con l’Iran”. (5) Una riprova di ciò risale al 13 dicembre, quando un gruppo di esperti interrompe le trattative alla sede dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA sede a Vienna) con i rappresentanti del 5+1 a seguito alla decisione di Washington di inserire nella lista nera aziende e operatori che avevano aggirato le sanzioni contro l’Iran. E la delegazione iraniana impegnata a Vienna nei negoziati sul nucleare, decide di sospendere le trattative in corso nella sede dell’AIEA e tornare in patria per ulteriori consultazioni. “La decisione va contro lo spirito dell’accordo raggiunto il mese scorso con Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina e Germania, da qui la scelta di far rientrare gli esperti”, questo il monito del Ministero degli Esteri iraniano. Tali sanzioni internazionali rivolte all’Iran hanno animato il “dibattito giuridico -politico in seno all’Unione europea” (6), tesa a “scoraggiare il nemico dall’intraprendere un’azione militare, prospettandogli un costo e un rischio superiori ai possibili guadagni” (7). Ciò sia nella la forma “by punishment”, cioè attraverso la minaccia di una rappresaglia, sia nella forma “by denial”, cercando di ridurre i benefici che un avversario può aspettarsi perseguendo un certo corso di azione (8). Ed è proprio in tale contesto che ha preso avvio la seconda giornata di negoziati a Ginevra, in cui il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha tenuto a precisare “del probabile accordo in più fasi con l’Iran” sul suo programma nucleare in cambio di una “revoca modesta” delle sanzioni economiche a Teheran (9). A tal proposito, si ricorderà che nel 2002 Teheran ammise di lavorare in segreto allo sviluppo di un programma nucleare e in particolare all’arricchimento dell’uranio; mentre nel 2009 fu costretta a rivelare la costruzione di un nuovo impianto di arricchimento fino a quel momento tenuto segreto. “L’arricchimento dell’uranio è universalmente considerato la parte più sensibile di un programma nucleare perché, oltre a essere quella tecnologicamente più complessa, può essere destinato con relativa facilità a usi militari (a seconda del livello di arricchimento, infatti, l’uranio può essere impiegato in reattori o armi)” (10). La presenza di tali armi nello scenario della sicurezza internazionale ha dato adito a un vivace dibattito sulla possibilità di una riduzione o quanto meno di una completa rimozione. Gli elementi che a tal fine hanno contribuito alla riunione delle principali superpotenze mondiali sono stati: il perdurare delle tensioni intorno al programma nucleare iraniano; la rinnovata attenzione alla non proliferazione e al disarmo dell’amministrazione Obama; l’emergere di un consenso internazionale sui pericoli derivanti da organizzazioni terroristiche alla ricerca di armi nucleari. Il principio del disarmo nucleare è sancito dall’articolo VI del Trattato di Non Proliferazione (TNP) “ognuna delle Parti al Trattato si impegna a perseguire quanto prima negoziati in buona fede sulle misure effettive sulla cessazione della corsa agli armamenti nucleari e il disarmo nucleare, e per un Trattato sul disarmo generale e completo sotto controllo internazionale rigoroso ed effettivo” (11). L’equilibrio di fondo voluto dal TNP prevede sia garanzie di non proliferazione, che incentivi ad un adeguato sfruttamento dell’energia atomica a fini pacifici su base non discriminatoria, come proposto dall’art. V del Trattato stesso. Tuttavia, è all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) che sono affidate le cosiddette “clausole di salvaguardia, e cioè un sistema di ispezioni, volto ad accertare la non diversione a scopi bellici dell’energia nucleare” (12). Merita menzione un’attività che si è andata sviluppando negli ultimi anni, e che risulta essere legata al concetto di disarmo, compreso quello nucleare, ovvero la Cooperative threat reduction, manifestatasi nell’ambito del G8 il cui programma è Global Partnership, adottato al Vertice G-8 di Kananaskis del 2002. “L’Italia si trova in prima fila tra i Paesi del G8 nel partecipare a tale esercizio (…) L’Italia si trova, al tempo stesso, in prima fila alle Nazioni Unite nel sensibilizzare la comunità internazionale sul fatto che tali attività hanno una specifica valenza per il disarmo nucleare”(13).

“Il modo migliore per assicurarci che l’Iran non si doti di armi nucleari è avere i mezzi per verificare il reale smantellamento dell’arsenale: le organizzazioni internazionali a ciò deputate dovranno avere pieno accesso nel Paese”, ha concluso Barack Obama. Ed è su tale rigore che assume grande potenzialità, altresì, ai sensi dell’art. 176 della Costituzione iraniana (14) la riunione del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale (CSSN) presieduta dal Presidente della Repubblica, per assicurare gli interessi nazionali, l’integrità territoriale e la sovranità nazionale. Tale punto legittimerebbe l’azione del Consiglio in sede di negoziati politici per la questione dell’eventuale legittimità politica nucleare dell’Iran. “Il suddetto CSSN si occupa di determinare le politiche di difesa e sicurezza del Paese nel contesto delle politiche generali definite dalla Guida; di coordinare le attività politiche e di informazione, le attività sociali, culturali ed economiche in funzione delle misure generali di difesa e sicurezza; di mettere a fuoco le capacità materiali e morali del Paese al fine di far fronte alle minacce interne ed esterne” (15).

 

Sfide future

La proliferazione nucleare è da sempre considerata come una minaccia all’attuale sistema di relazioni internazionali; la strada che conduce a un disarmo nucleare risulta impraticabile e costellata da ostacoli e difficoltà, rendendo privi e impraticabili i rapporti tra le principali potenze, diretti ad un efficace, lungo e duraturo negoziato globale. “La strada maestra non potrà essere, per il prevedibile futuro, quella di un approccio integralista (…) di cui l’interruzione della produzione di materiale fissile a scopi di esplosioni nucleari (Fissile Material Cut-off Treaty – FMCT) dovrebbe essere il primo passo” (16). Un aspetto da tenere in considerazione riguarda il fatto che “la battaglia contro la diffusione delle armi nucleari sarà molto più efficace se le restrizioni necessarie al controllo ed al monitoraggio delle attività nucleari saranno interpretate come uno strumento imparziale della comunità internazionale e non come motivo di discriminazione tra i Paesi sulla base del loro orientamento politico o strategico” (17). Per tali motivi, l’impegno dei Paesi più potenti è rivolto a una drastica riduzione del flusso di proliferazione nucleare, condizione necessaria e indispensabile per limitare efficacemente il trasferimento di tecnologia e materiali nucleari pericolosi.

I problemi sorgono quando la campagna contro la proliferazione, e in particolare le sanzioni, inducono a una guerra contro un Paese appartenente all’ “asse del male” e dove l’obiettivo primario non è quello di fermare la proliferazione, ma di promuovere un cambiamento di regime. A complicare ulteriormente tale scenario è il timore che l’intervento suddetto sia volto non a una restaurazione della pace e dell’ordine sociale, ma finisca per creare una situazione di malcontento generale e di guerra civile. In cui, “la produzione e il traffico delle armi da guerra, incluse quelle nucleari e spaziali, è ormai fuori dal controllo della cosiddetta “comunità internazionale” e delle sue istituzioni. E l’uso delle armi dipende dalla “decisione di uccidere” che viene presa da autorità statali e non statali secondo le loro convenienze strategiche, di carattere non solo politico ma anche e soprattutto di carattere economico” (18). Rendendo irrealizzabile ed impraticabile il progetto auspicato dal Presidente Barack Obama: “Dichiaro in modo chiaro e convinto l’impegno dell’America per la ricerca della pace e della sicurezza in un mondo senza armi nucleari. I Paesi in possesso di armi nucleari si orienteranno verso il disarmo. I Paesi senza armi nucleari non le acquisiranno, e tutti i Paesi potranno avere accesso all’energia nucleare a scopi pacifici” (gennaio 2010). In un siffatto contesto del processo di globalizzazione, la guerra di aggressione risulterà legalizzata e garante di una “guerra giusta”, attraverso cui “le grandi potenze occidentali hanno dichiarato di usare la guerra come strumento essenziale per diffondere i diritti umani e la democrazia in tutto il mondo. E per garantire un futuro di pace esse ricorrono alla “war on terrorism”, estesa in ogni angolo del pianeta” (19).

 

*Caterina Gallo è laureata in Scienze delle Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Salerno

 

 

  1. (1) “Le prospettive del nucleare” C. Mancini – Affari esteri, 2005 – 37, 147, pp. 617 – 634.
  2. (2) “Nonostante le ripetute assicurazioni dell’Iran riguardo alla natura esclusivamente pacifica del suo programma nucleare, è opinione prevalente nelle agenzie di intelligence e tra gli esperti internazionali che il regime di Teheran covi segrete aspirazioni militari. Sebbene, nel 2002 Teheran ha ammesso di lavorare in segreto allo sviluppo di un programma nucleare e in particolare all’arricchimento dell’uranio; e nel settembre 2009, è stata costretta a rivelare la costruzione di un nuovo impianto di arricchimento fino a quel momento tenuto segreto”. E. Sorvillo, Osservatorio di Politica Internazionale – Istituto Affari Internazionali, “Il regime di non proliferazione nucleare alla vigilia dell’ottava Conferenza di Riesame del Trattato di non proliferazione Nucleare”, pp. 8, n. 13 – maggio 2010.
  3. (3) Si ricorderà che negli ambienti diplomatici europei il gruppo era noto come Ue3+3 (Francia, Germania e Gran Bretagna) nato per iniziativa dei tre paesi europei nel 2003, poi proseguita nella formula P5+1. Fino a qualche anno fa il gruppo era coadiuvato dall’Ufficio dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune dell’Ue, allora Javier Solana, svolgendo il ruolo di primo interlocutore degli iraniani. I membri permanenti del Consiglio di Sicurezza proposero all’Iran “incentivi sotto forma di pacchetti di concessioni nel campo economico e tecnologico, un modo questo per avere sotto controllo le sue attività nucleari. Di fronte ad un netto rifiuto dell’Iran, il gruppo propose e ottenne l’approvazione di tre distinti pacchetti di sanzioni da parte del Consiglio di Sicurezza volte a ostacolare le ambizioni nucleari iraniane. Nell’ottobre del 2009 i P5+1 chiesero all’Iran di trasferire fino a tre quarti del suo uranio a basso arricchimento in Francia ed in Russia, dove sarebbe stato trasformato in barre da utilizzare nel reattore nucleare installato presso il centro di ricerca di Teheran, che dovrebbe produrre isotopi da impiegare a scopi medici. Dopo un assenso di principio iniziale, il governo iraniano respinse l’accordo e ha continuato ad arricchire l’uranio autonomamente”. Osservatorio di Politica Internazionale – “Il regime di non proliferazione nucleare alla vigilia dell’Ottava Conferenza di Riesame del Trattato di non proliferazione Nucleare”, pp. 8, n. 13 – maggio 2010.
  4. (4) “L’Iran, il programma nucleare, gli Stati Uniti, l’Europa e l’AIEA”, A. Sangiorgi, Affari esteri – 2005, 37 – 146, pp. 360 – 380.
  5. (5) È sintomatico il caso della General Electric, proprietaria della Nuova Pignone in Italia. Ad essa è stato recentemente vientato di esportare prodotti meccanici dall’Italia in Iran. A. “L’Iran, il programma nucleare, gli Stati Uniti, l’Europa e l’AIEA”, A. Sangiorgi, Affari esteri – 2005, 37 – 146, pp. 360 – 380.
  6. (6) I documenti ufficiali dell’Unione Europea menzionano il problema del programma nucleare dell’Iran a partire dal giugno 2004 (Conclusioni della Presidenza dei Consigli europei del 18 giugno, 5 novembre, 23 novembre e 18 dicembre 2004). Implicitamente, si approvano i negoziati in corso dall’ottobre 2003 tra la Francia, la Germania e il Regno Unito, da un lato, e l’Iran, dall’altro. L’Unione Europea ha la responsabilità degli aspetti della collaborazione economica e commerciale, che dovranno far parte dell’eventuale accordo globale con l’Iran.  Le competenze dell’Unione Europea nel settore nucleare risalgono al 1957, insieme al Trattato per la Comunità Economica Europea (mercato comune), fu firmato a Roma il Trattato per la Comunità Europea per l’Energia Atomica (Euratom). Negli anni ’70 è stato anche concluso un Accordo con l’AIEA nel settore della sicurezza nucleare.  “L’Iran, il programma nucleare, gli Stati Uniti, l’Europa e l’AIEA”, A. Sangiorgi, Affari esteri – 2005, 37 – 146, pp. 360 – 380.
  7. (7) Snyder Glenn, “Deterrence and Defence”, Princeton University Press, 1961, pp. 3
  8. (8) Freedman Lawrence “Deterrence”, 2004, New York, Polity
  9. (9) Lo Scià firmò il 5 marzo 1957 un accordo bilaterale con gli Stati Uniti per ricevere assistenza nella produzione di energia nucleare. A partire dal 1959, le attività di insegnamento e di ricerca in materia nucleare cominciarono in Iran: la creazione del Centro di ricerca nucleare di Teheran (CRNT), ad opera dell’Organizzazione Iraniana per l’energia Atomica (OIEA) e di altri corsi legati all’ambito dell’applicazione della tecnologia nucleare. Sabahi S. Farian “Storia dell’Iran 1890 – 2008”, Milano, 2009
  10. (10) Osservatorio di Politica Internazionale – “Il regime di non proliferazione nucleare alla vigilia dell’Ottava Conferenza di Riesame del Trattato di non proliferazione Nucleare”, pp. 8, n. 13 – maggio 2010
  11. (11) Per meglio esplicitare si menziona il documento fondamentale che ha favorito il contenimento della diffusione di armi nucleari, il Trattato di Non Proliferazione Nucleare del 1968 (Non Proliferation Treaty – Npt), considerato come la pietra angolare della stabilità nucleare. Il Npt distingue i firmatari tra stati nucleari (che hanno condotto test nucleari prima del 1967) e tutti gli altri stati che, per poter essere membri del Npt, vengono catalogati come stati non nucleari. Il trattato si costituisce di tre sezioni: 1. il principio di non proliferazione: gli stati non nucleari si astengono dall’acquisire armi nucleari o dal ricercarne il controllo, mentre gli stati nucleari accettano di non trasferire armi nucleari o parte di esse ad altri. Inoltre, tutti i paesi firmatari del trattato dovrebbero astenersi dal trasferire materiali fissili (non salvaguardati) agli stati nucleari. 2. Il principio di disarmo: i paesi firmatari del trattato, ed in particolare gli stati nucleari, si impegnano a negoziare in buona fede al fine di raggiungere in tempi brevi il disarmo nucleare e la cessazione della corsa agli armamenti nucleari. 3. Il principio di accesso alla tecnologia nucleari a scopi pacifici: tutti i firmatari del trattato hanno il diritto di sviluppare ed essere assistiti nello sviluppo di energia nucleare per scopi civili. Rapporti di scenario sul G8 a cura di Istituto Affari Internazionali – Centro Studi di Politica Internazionale – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, giugno 2009.
  12. (12) “L’Iran, il programma nucleare, gli Stati Uniti, l’Europa e l’AIEA”, A. Sangiorgi, Affari esteri – 2005, 37 – 146, pp. 360 – 380
  13. (13) C. Trezza “Il disarmo e la non proliferazioni nucleare”, Affari esteri, 146 aprile, p. 308, 2005.
  14. (14) Si può ritrovare il testo inglese della  Costituzione iraniana del 24 ottobre 1979 al seguente indirizzo, http://notes9.senato.it/web/opentrad.nsf/1cac5566c26cb8fac12573b1004ef1c2/7b3f91b39ac006aec125758b00513c61/$FILE/Costituzione%20della%20Reppubblica%20islamica%20dell’Iran.doc.
  15. (15) M. Berlanda “Il programma nucleare iraniano: profili giuridici e politici. Il ruolo dell’AIEA e le lacune del diritto internazionale”, Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, Anno XIV – n. 41, ottobre 2012.
  16. (16) “Il disarmo e la non proliferazione nucleare”, C. Trezza, Affari esteri, 2005 – 37 – 146 – pp. 303 – 309.
  17. (17) “Rapporti di scenario sul G8”,  il presenta Rapporto è stato realizzato nell’ambito del progetto Osservatorio di politica internazionale, promosso dalle Amministrazioni del Senato della Repubblica, della Camera dei Deputati e del Ministero degli affari esteri e realizzato in collaborazione con autorevoli Istituti di ricerca: Istituto Affari Internazionali, Centro Studi di Politica Internazionale, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Giugno 2009.
  18. (18) “I diritti umani: una ideologia occidentale in declino”, D. Zolo, Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=41561.
  19. (19) “I diritti umani: una ideologia occidentale in declino”, D. Zolo, Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=41561.

 

Fonti

http://notes9.senato.it/web/opentrad.nsf/1cac5566c26cb8fac12573b1004ef1c2/7b3f91b39ac006aec125758b00513c61/$FILE/Costituzione%20della%20Reppubblica%20islamica%20dell’Iran.doc;

http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=51037&typeb=0&Nucleare-Obama-annuncia-un-possibile-accordo-con-l-Iran;

http://www.asca.it/news-Papa__disarmo_da_parte_di_tutti__anche_nucleare_e_chimico-1346381-ATT.html;

http://it.euronews.com/2013/12/13/nucleare-richiamata-in-patria-per-consultazioni-la-delegazione-iraniana/;

http://it.euronews.com/2013/11/24/nucleare-iran-netanyahu-accordo-e-errore-storico/

 

 

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LA CENTRALITÀ DELL’ANALISTA NEL MONDO MULTIPOLARE

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Nel mondo multipolare le priorità dei Servizi Segreti sono generate dalle nuove sfide per il controllo dello spazio virtuale. Quest’ultimo è direttamente correlato alla ridefinizione del concetto di Sicurezza Nazionale, con la conseguente moltiplicazione e diversificazione delle attività di intelligence, la cui missione deve tendere non solo alla istituzionale difesa dello Stato, ma anche alla sicurezza della cittadinanza. Il terrorismo, la sicurezza economica e finanziaria, generate dalla crisi globale, sono i responsabili dell’aumento delle minacce nel mondo multipolare ed iperconnesso.

Dal 2013, si è aggiunta una nuova area di crisi: la guerra cibernetica, ossia la militarizzazione dello spazio virtuale. I processi di miglioramento in materia di tecnologia e la rivoluzione nelle dinamiche della globalizzazione, hanno ridotto le tempistiche dei decisori, un fattore che obbliga i Servizi ad operare simultaneamente su diversi ambiti, senza diminuire l’accuratezza necessaria alle esigenze delle autorità di Governo e Militari. Il termine intelligence indica sia una “tipologia di conoscenza”, quanto l’organizzazione che lavora per produrre e difendere quella conoscenza, ma anche l’insieme delle attività svolte da tale ordinamento. L’Intelligence è il valore aggiunto scaturito dalla raccolta, valutazione, analisi, integrazione ed interpretazione delle informazioni disponibili potenzialmente significative per una scelta decisionale. Dunque, lo scopo è diminuire le incertezze riguardo alle capacità ed alle azioni dell’avversario ed anche degli alleati, come evinto dal datagate. Il processo di acquisizione e valutazione dei dati, permetterà al decisore politico e militare di essere parte della realtà in cui è calato, con la comprensione e la percezione dei fatti, inoltre, sarà agevolato nella sua strategia di contrasto dall’identificazione dei possibili rischi che il suo atteggiamento comporterà. L’analista principalmente, interpreta e valuta le informazioni al fine di prevenire attività criminose ed in contemporanea delinea le possibili opportunità per bloccare eventi ostili. Si occupa di trasformare i dati grezzi, raccolti attraverso i diversi canali informativi, in materiale adatto ad essere compreso ed utilizzato da parte del livello direttivo, cioè da quelle figure che, all’interno di un’organizzazione, si occupano di definire le strategie e di effettuare le scelte.

L’analista, dunque, è colui che trasforma l’informazione in intelligence. Pertanto organizza, verifica e rende facilmente comprensibili i dati raccolti ed elaborati. Perciò è il dispensatore di quella tipologia di conoscenza al servizio del decisore, ossia sulle strategie e capacità degli attori stranieri o nazionali a mettere in atto un preciso piano in contrasto allo Stato bersaglio. Avviene così l’analisi previsionale, vale a dire l’identificazione delle linee di sviluppo futuro a seguito delle conseguenze ad azioni coercitive messe in atto dal decisore nei confronti degli aggressori, dunque i rapporti politici e militari che intercorreranno con quest’ultimi. Una completezza che dovrà mirare a delineare la veridicità dei prossimi scenari sociali. L’analisi strategica deve tendere, perciò, ad influire sul futuro indicando le metodologie per regolare il corso degli eventi durante una crisi, assegnando obiettivi a lunga scadenza con l’esame delle minacce attuali ed emergenti alla sicurezza nazionale. Il termine intelligence, potrebbe essere declinato come l’arte di carpire all’avversario le sue intenzioni e questa rimane la migliore prevenzione per ridurre gli effetti dei rischi e delle minacce.

Ciò si traduce in una attività investigativa su tutto quanto accada nel territorio avversario trattando argomenti od informazioni segrete. Tale caratteristica è sempre meno vera con l’avvento della nuova era digitalizzata, dove molte informative riservate sono commercialmente acquistabili od addirittura reperibili in rete. Nel computer però, si trovano ripetizioni, coincidenze e discordanze, pertanto ritorna la centralità dell’analista, infatti solo un profondo conoscitore della materia può discernere i dati reali tra la vastità dei contenuti nello spazio virtuale. Il fattore aggiunto dell’esperto è nell’interpretazione logica delle informazioni fra loro scollegate, il conseguire una verità estrapolata tra altre ipotizzate. In questo percorso, dovrà scientificamente raccogliere le notizie acquisite, sia quelle che avvalorano la teoria sulla quale si è iniziata la ricerca, quanto quelle che la smentiscono e suddividerle poi in gruppi logici, scevri da interpretazioni personali e quindi, eliminate interferenze interne, esterne ed individuali, formulare un indicatore. Quest’ultimo è quella sezione di informazioni che, nella globalità di una situazione, agevola la comprensione dei fatti pregressi e permette all’analista di formulare una ipotesi su quanto potrebbe accadere. Infatti, nel mondo iperconnesso, sempre più ricco di notizie di facile accesso, ma spesso di difficile interpretazione, la figura dell’analista si sta attestando ad un ruolo preponderante all’interno del ciclo di intelligence. Il crescente volume di informazione disponibili ha assunto una connotazione di fondamentale importanza: spesso, infatti, non è la carenza di notizie bensì la sua sovrabbondanza a creare problemi interpretativi e questo rende sempre più complesso e necessario il lavoro dell’analista.

L’abbondanza di dati fa crescere a dismisura le nozioni metodologiche e tecnologiche che deve avere a disposizione per poter svolgere in modo proficuo il proprio lavoro. In questo contesto il mondo istituzionale ha maturato la consapevole necessità di una nuova figura dell’analista, la quale va a distinguersi nettamente dal tradizionale agente investigativo quanto a competenze possedute nonché a collocazione e mansioni organizzative assegnate. L’analisi è un processo che impiega metodi scientifici mescolando intuizione, esperienza, modelli matematici, simulazioni al computer e buon senso. Il prodotto finale è orientato a diversi ambiti di interpretazione: prevenire sorprese all’organizzazione di appartenenza fornendo servizi di allarme precoce allo scopo di individuare gli orientamenti ed i segnali precursori di pericoli e minacce; supportare il processo decisionale; monitorare e mantenere sotto controllo lo stato dell’arte per quanto riguarda le organizzazioni, o le Nazioni antagoniste; contribuire a sviluppare strategie; svolgere un ruolo chiave nella raccolta delle informazioni previsionali in grado di disegnare gli eventi futuri, consentendo ai decisori lo studio di piani strategici. Il campo di applicazione dell’acquisizione dati, non è esclusiva del comparto militare e della politica internazionale, ma anche del settore privato e della sicurezza; in questo ambito si usano le declinazioni di intelligence competitiva per quanto concerne quella aziendale e di intelligence investigativa per la lotta alla criminalità.

È dagli anni 80 che si è sviluppata questa attività parallela nel contesto dello spionaggio, le cui indagini sembrano aver prodotto risultati discutibili o meglio, in senso più ampio, si può affermare che fino ad oggi scarsi sono stati i tentativi di definire con precisione quanto il mondo dell’intelligence può offrire come suo contributo specifico sulle tendenze economiche internazionali a fronte dell’enorme volume di dati provenienti invece da fonti aperte. La necessità di prevenire le mosse o di carpire le novità degli avversari, ha aumentato esponenzialmente i campi di impiego degli analisti, sembra che un terzo di quelli della CIA sia impiegato nello studio di questioni di natura economica. Tuttavia, se si esclude un limitato e non definitivo numero di studi circa i vari aspetti dello spionaggio commerciale e tecnologico, non esiste una valutazione attendibile, circa i successi od i fallimenti di uno qualunque dei principali organismi informativi nel campo dell’intelligence economica. La crescente necessità di governare le dinamiche economiche a livello globale, ha portato all’implementazione delle attività di monitoraggio delle imprese civili concorrenti, con la conseguente specializzazione dell’analista nel settore finanziario, il quale adotta principalmente le stesse metodologie e tecniche in uso nel comparto militare: l’analisi descrittiva, dove inizialmente si organizzano i dati per poi discriminarli; l’analisi esplicativa, il cui l’obiettivo è capire le cause e le motivazioni derivate dalla precedente descrizione; l’analisi predittiva, ossia l’evoluzione del fenomeno oggetto di studio. A queste si completa l’analisi finanziaria, nella quale si tende a valutare gli indicatori economici, le transazioni e le società in esame. Da questo procedimento scaturiranno le ricostruzioni sui flussi di denaro. Questi periodi consentiranno all’analista di esplicitare gli assunti, di individuare leggi e correlazioni ed infine di formulare teorie.

Dunque esiste una corrispondenza dei diversi prodotti, fra l’ambito aziendale e quello istituzionale, a riprova del fatto che i due mondi sono sempre più vicini e convergenti. Le sole differenze sostanziali fra i due campi di applicazione si distinguono sul contenuto dell’analisi e sulle fonti di ricezione dell’informazione. Più dettagliatamente, la difformità fondamentale tra il lavoro di ricerca scientifica e quello di analisi d’Intelligence è nell’approccio: generalista nel primo caso e analitico nel secondo. Nel ciclo dell’acquisizione dati, non esiste una soluzione di continuità tra la risposta alle domande e la nuova richiesta di informazione derivante dall’elaborazione precedente. Originando dalla istanza inziale, i decisori, politici o aziendali, stabiliranno una interrogazione sulla base delle loro necessità strategiche. Dopo una fase di pianificazione, in cui si decidono le metodologie di acquisizione dell’informazione, segue una fase di raccolta segreta, la quale avrà connotazioni di maggiore o minore rischiosità a seconda che riguardi piani militari o di marketing. Una volta che si è in possesso dei dati necessari, si prosegue con la fase di analisi e di produzione dell’intelligence vera e propria, la quale verrà a questo punto distribuita, innanzitutto ai richiedenti ma anche a tutte le altre strutture che si suppone possano trarne vantaggio. Nell’ambito dell’intelligence, il termine generico “fonte” vuole indicare qualsiasi sorgente di informazione, sia quella umana, quanto il database aziendale, così come la fotografia satellitare, od ancora l’intercettazione telefonica. Alla storica figura dell’informatore, denominata più istituzionalmente HUMINT, HUMan INTelligence, l’analista, agevolato dalle innovazioni tecnologiche, può utilizzare diverse nuove fonti: TECHINT, TECHnical INTelligence, la raccolta attraverso mezzi tecnologici; l’OSINT, Open Source INTelligence, l’analisi delle fonti aperte, che prende in considerazione tutta l’informazione disponibile in rete e sulla stampa; l’ELINT, ELettronic INTelligence, ossia la sorveglianza elettronica dei flussi di comunicazione.

Questi supporti all’attività di analisi facilitano il lavoro dell’analista, in particolare in quelle eccezioni dove i dati raccolti siano insufficienti oppure sovrabbondanti. L’approccio metodologico può migliorare le qualità dell’informazione, agevolando l’identificazione di errori o lacune nell’informazione stessa, ma non potrà predire comportamenti inaspettati. In un mondo multipolare e globalizzato, dove le variabili sono molte ed imprevedibili, l’esattezza dell’analisi strategica e finanziaria rappresentano l’unico valore aggiunto che la comunità dell’Intelligence può addurre al processo decisionale. Una corretta analisi non si traduce esclusivamente nella lettura dei dati e neanche nell’assicurare alla giustizia gli autori dei delitti, ma deve essere una perfetta attività di prevenzione ed anticipazione dell’evolversi degli atti ancora in stato embrionale.

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LA GEOPOLITICA DE LA LENGUA

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“En estas condiciones, sólo pueden existir

lenguas vencedoras y lenguas vencidas”

(J. V  Stalin, Al compañero Kholopov 28 julio 1950)


 
 
Lengua e Imperio

Si el término geolingüística no fuese ya utilizado por los lingüistas para expresar la geografía lingüística o lingüística espacial, a saber, el estudio de la difusión geográfica de los fenómenos lingüísticos, se la podría emplear para indicar la geopolítica de la lengua, es decir, el rol del factor lingüístico en relación entre el espacio físico y el espacio político.  Para sugerir esta posibilidad no está solamente la existencia de análogos compuestos nominales, como la geohistoria, la geofilosofía, la geoeconomía, sino también la relación de la geopolítica de la lengua con una disciplina designada por uno de tales términos: la geoestrategia.

Siempre fue la lengua compañera del imperio“: el nexo entre hegemonía lingüística y hegemonía político-militar, así naturalmente representado por el gramático y lexicógrafo Elio Antonio de Nebrija (1441-1522), respalda la definición que el Mariscal de Francia Louis Lyautey (1854 – 1934) dio de la lengua: “un dialecto que tiene un ejército y una marina de guerra”.  En el mismo orden de ideas se inspira el general Jordis von Lohausen (1907-2002), cuando afirma que “la política lingüística se la considera en el mismo plano de la política militar” y dice que “los libros en el idioma original desempeñan en el extranjero un papel a veces más importante que el de los cañones”[1].  De acuerdo con el geopolítico austríaco, de hecho, “la difusión de una lengua es más importante que cualquier otro tipo de expansión, ya que la espada sólo puede delimitar el territorio y la economía aprovecharlo, pero la lengua conserva y llena el territorio conquistado”[2].  Es esto, por otra parte, el significado de la famosa frase de Anton Zischka (1904-1997): “Preferimos a los profesores de lenguas que a los militares”.

La afirmación del general von Lohausen puede ilustrarse con una amplia gama de ejemplos históricos, empezando por el caso del Imperio Romano, que entre sus factores de potencia estuvo la difusión del latín: un dialecto campesino que con el desarrollo político de Roma se convirtió, en competencia con el griego, en la segunda lengua del mundo antiguo; utilizado por los pueblos del Imperio, no por imposición, sino inducidos por el prestigio de Roma.  Desde el principio el latín sirvió a las poblaciones sometidas para comunicarse con los soldados, los funcionarios oficiales y los colonos;  enseguida se convirtió en el sello distintivo de la comunidad romana.

Sin embargo, en el espacio imperial romano, que por medio milenio constituyó una sola patria para diversae gentes (diversos pueblos, tribus) localizadas entre el Atlántico y Mesopotamia, y también entre Gran Bretaña y Libia, no correspondió a una lengua única; el proceso de romanización fue más lento y difícil cuando los Romanos entraban en contacto con territorios en los que se hablaba la lengua griega, expresión y vehículo de una cultura que gozaba, en los ambientes de la misma élite romana, de un enorme prestigio.  El romano fue en sustancia un imperio bilingüe: el latín y griego, en cuanto lenguas de la política, del derecho y del ejército, además de las letras, la filosofía y de las religiones, desarrollaron una función supranacional, a la cual los idiomas locales de la ecúmene imperial no tenían la capacidad para desempeñarla.

Seguramente es casi imposible separar claramente la línea de frontera del dominio del latín y el griego al interior del Imperio Romano, sin embargo, podemos afirmar que la división del Imperio en dos partes y la sucesiva escisión se produjo a lo largo de una línea de demarcación coincidente grosso modo con la frontera lingüística, que redujo a la mitad tanto a los territorios de Europa como a los del norte de África.  En Libia, de igual manera, a lo largo de esta línea es donde se ha producido recientemente la fractura que ha separado de nuevo a Tripolitania de la Cirenaica.

Siguiendo el mapa lingüístico de Europa, se presenta una situación que Dante describe identificando tres áreas distintas: la del mundo germánico, en la que congrega también a eslavos y húngaros; la de lengua griega y aquella de los idiomas neolatinos[3]; al interno de esta última, él puede distinguir posteriormente tres unidades particulares: el provenzal (lengua de oc), el francés (lengua de oil) y el italiano (lengua del sí).  Pero Dante está lejos de utilizar el argumento de la fragmentación lingüística para sostener la fragmentación política, de hecho, él está convencido que sólo la restauración de la unidad imperial podría realizarse si Italia, “el bello país donde el sí suena”[4] volverá a ser “El jardín del Imperio”[5].  Y el Imperio tiene su propia lengua, el latín, porque, como dice el mismo Dante, “la lengua latina es perpetua e incorruptible, y la lengua vulgar es inestable y corruptible.”[6]

En una Europa fragmentada lingüísticamente, que el Sacro Imperio Romano quería reconstituir en unidad política, una poderosa función unitaria es desarrollada también por el latín: no por el sermo vulgaris (latín vulgar), sino por la lengua de cultura de la res publica clericorum (república de los doctos).  Este “latín escolástico”, si queremos indicar su dimensión geopolítica, “fue el portador para toda Europa, e incluso fuera, de la civilización latina y cristiana: confirmándola, como en España, en África ( … ), en la Galia; o incorporando a esa nueva zona o apenas tocada por la civilización romana: Alemania, Inglaterra, Irlanda, por no hablar también de los países nórdicos y eslavos “[7].

 
 

Las grandes áreas lingüísticas

Entre todas las lenguas neolatinas, la que mayor expansión alcanzó fue la lengua castellana.  A raíz de la bula de Alejandro VI, que en 1493 dividió el Nuevo Mundo entre españoles y portugueses, el castellano se impuso en las colonias pertenecientes a España, desde México hasta Tierra del Fuego; pero incluso, después de la emancipación de los estados particulares salidos de las ruinas Imperio de la América, éstos mantuvieron el castellano como lengua nacional, razón por la cual la América Latina posee una unidad cultural relativa y el dominio de la lengua española también se extiende sobre una parte del territorio de los EE.UU.

Por lo que corresponde al dominio de la otra lengua ibérica, para presenciar la extensión del área colonial que en otros tiempos perteneció al Portugal, bastará el hecho que la lengua de Camões es “la lengua romance que dio origen al mayor número de variedades criollas, ya que algunas están extinguidas o en peligro de extinción”[8]: desde Goa a Ceilán, desde Macao a Java, desde Malaca a Cabo Verde y  Guinea.  Entre los Estados que han aceptado la herencia de habla portuguesa, se impone hoy en día el país emergente, representado por el acrónimo BRICS: Brasil, con sus doscientos millones de habitantes, frente a los diez millones y medio de habitantes que viven en la antigua madrepatria europea.

La expansión extraeuropea del francés como lengua nacional, al contrario, fue inferior respecto al que se le tenía como lengua de la cultura y comunicación.  De hecho, si el francés es la quinta lengua más hablada en el mundo por número de hablantes (unos doscientos cincuenta millones) y es la segunda más estudiada como lengua extranjera, se encuentra a su vez en el noveno puesto por número de hablantes nativos (aproximadamente setenta millones; alrededor de ciento treinta si también se añaden los individuos bilingües).  En todo caso, es el único idioma que se encuentra difundido, como lengua oficial, en todos los continentes: es lengua de intercambio en África, el continente que incluye el mayor número de entidades estatales (más de veinte) en los cuales el francés es la lengua oficial; es la tercera lengua en América del Norte; es utilizada también en el Océano Índico y en el Pacífico Sur.  Estados y gobiernos que por diversas razones tienen en común el uso del francés, se agrupan en la Organización Internacional de la Francofonía (OIF), fundada 20 de marzo de 1970 en la Convención de Niamey.

Eminentemente eurasiática es el área de expansión de la lengua rusa, lengua común y oficial de un Estado multinacional que, incluso en la sucesión de las fases históricas y políticas que han cambiado la dimensión territorial, sigue siendo la más extensa sobre la faz de la tierra.  Si en el período soviético el ruso podría ser glorificado como “el instrumento de la civilización más avanzada, de la civilización socialista, de la ciencia progresista, la lengua de la paz y el progreso (…) lengua grande, rica y poderosa (…) instrumento de la civilización más avanzada del mundo”[9] y, como tal, de enseñanza obligatoria en los países de Europa del Este, después de 1991 goza de un estatus diferente en cada uno de los Estados sucesores de la Unión Soviética.  En la Federación Rusa, la Constitución de 1992 consagra el derecho de todo ciudadano a la propia pertenencia nacional y al uso de la lengua correspondiente y, además, garantiza a cada República la facultad de valerse, junto a la lengua oficial rusa, de las lenguas de las nacionalidades que la constituyen.

Si el ruso está en el primer puesto por la extensión del territorio del Estado del que es el idioma oficial, el chino tiene la preeminencia por el número de hablantes. Actualmente utilizado aproximadamente por un millón trescientos mil personas, el chino desde la antigüedad se presenta como un conjunto de variaciones que hacen que sea muy difícil aplicarle el término dialecto; se destaca entre todos el mandarín, un grupo grande y diverso que a su vez se distingue en mandarín del Norte, del Oeste y del Sur.  El mandarín del Norte, que tiene su centro en Beijing, ha sido tomado como modelo para la lengua oficial (pǔtōnghuà, literalmente “lengua común”), hablada como lengua madre por más de ochocientos millones de personas.  Oficialmente, la población de la República Popular de China, que en su Constitución se define como “Estado plurinacional unitario”, se compone de cincuenta y seis nacionalidades (minzu), cada una de las cuales utiliza su propia lengua, y entre éstas, la más numerosa es la Han (92% de la población ), mientras las otras cincuenta y cinco, que constituyen el 8% restante, “hablan al menos sesenta y cuatro idiomas, de las cuales veintiséis tienen una forma escrita y se imparten en las escuelas primarias”.[10]

El hindi y el urdu, que pueden ser consideradas como continuaciones del sánscrito, son las lenguas predominantes en el subcontinente indio, donde diez estados de la Unión de la India conforman el llamado “Cinturón Hindi” y donde el urdu es el idioma oficial de Pakistán.  La diferencia más obvia entre estas dos lenguas consiste en que la primera se sirve de la escritura devanagari, mientras la segunda hace uso del árabe; sobre el plano lexical, el hindi ha recuperado una cierta cantidad de elementos sánscritos, mientras el urdu ha incorporado muchos términos persas.  En cuanto al hindi, se podría decir que ha jugado en el subcontinente indio una función similar a la del mandarín en China, puesto que, formado sobre la base de un dialecto hablado en las cercanías de Delhi (el khari boli), junto con el inglés, se ha convertido, entre las veintidós lenguas mencionadas en la Constitución de la India, en el idioma oficial de la Unión.

El árabe, vehículo de la revelación coránica, con la expansión del Islam se ha difundido mucho más allá de sus límites originales: desde Arabia hasta el norte de África, desde Mesopotamia hasta España.  Se caracteriza por una notable riqueza de formas gramaticales y de una finura de relaciones sintácticas, con tendencia a enriquecer su léxico aprovechando de vocablos de dialectos y lenguas extranjeras, el árabe prestó su sistema alfabético para lenguas pertenecientes a otras familias, como el persa, el turco, el urdu; codificado por gramáticos, se convirtió en la  lengua docta del dâr al-islâm, la cual reemplazó al siríaco, al copto, a los dialectos bereberes; enriqueció con numerosos préstamos al persa, al turco, a las lenguas hindúes, al malayo, a las lenguas Ibéricas; como instrumento de filosofía y ciencia, influenció las lenguas europeas cuando los califatos de Bagdad y Córdoba constituían los principales centros de cultura a los que podía recurrir la Europa cristiana.  Hoy en día, el árabe es de alguna manera conocido, estudiado y utilizado, en cuanto lengua sacra y de práctica ritual, en el ámbito de una comunidad que sobrepasa el millón de almas.  Como lengua materna, pertenecen a ésta aproximadamente doscientos cincuenta millones de personas, distribuidas sobre un área políticamente fraccionada desde Marruecos y Mauritania y se extiende hasta el Sudán y la Península Arábiga.  A tal denominador lingüístico se refieren los proyectos de unidad de la nación árabe formulados en el siglo pasado: “Árabe es aquel cuya lengua materna es el árabe”[11] se lee, por ejemplo, en el Estatuto del Baath.

 
 

La lengua del imperialismo estadounidense

A lo largo de la primera mitad del siglo XX, la lengua extranjera más conocida en la Europa continental fue el francés.  Por lo que respecta en particular a Italia, “solo en el año 1918 se establecieron cátedras universitarias de inglés y en la misma fecha se remonta la fundación del Instituto Británico de Florencia, que, con su biblioteca y sus cursos de idiomas, pronto se convirtió en el centro más importante de difusión del idioma inglés a nivel universitario”[12].  En la Conferencia de Paz del año siguiente, los Estados Unidos, que para entonces ya se habían introducido en el espacio europeo, impusieron por primera vez el inglés – junto con el francés – cual lengua diplomática.  Pero para determinar la decisiva superación del idioma francés por parte del inglés, fue el éxito en la Segunda Guerra Mundial que dio lugar a la penetración de la “cultura” anglo-estadounidense en toda Europa Occidental.  De la importancia asumida por el factor lingüístico en una estrategia de dominación política, por otra parte, no era desconocida por el mismo Sir Winston Churchill, quién declaró explícitamente el 6 de septiembre de 1943: “El poder dominar la lengua de un pueblo brinda ganancias que superan con creces el despojo a provincias y territorios o saquearlas con la explotación.  Los imperios del futuro son aquellos de la mente”.   Con la caída de la Unión Soviética, en la Europa Central y Oriental “liberadas”, el inglés no sólo ha socavado al ruso, sino también ha suplantado en gran parte al alemán, al francés y al italiano, que antes tenían  una amplia circulación.  Por otro lado, la hegemonía del inglés en las comunicaciones internacionales se consolidó en la fase más intensa de la globalización.

De esta manera, los teóricos anglo-americanos del mundo globalizado han podido elaborar, basándose sobre el peso geopolítico ejercido por el idioma inglés, el concepto de “Anglósfera”, definida por el periodista Andrew Sullivan como “la idea de un grupo de países en expansión que comparten principios fundamentales: el individualismo, la supremacía de la ley, el respeto de los contratos y acuerdos, y el reconocimiento de la libertad como valor político y cultural primordial”[13].  Parece que quién introdujo el término “Anglósfera” en el año 2000 fue un escritor estadounidense, James C. Bennett; en su opinión “los países de habla inglesa guiarán el mundo en el siglo XXI” (Why the English-Speaking Nations Will Lead the Way in the Twenty-First Century es el subtítulo de su libro The Anglosphere Challenge), ya que el actual sistema de Estados está condenado a derrumbarse por los golpes del ciberespacio anglófono y de la ideología liberal.  El historiador Andrew Roberts, continuador de la obra de historiografía de Churchill con A History of the English Speaking Peoples since 1900, sostiene que el predominio de la Anglosfera se debe a la lucha de los países anglófonos contra las epifanías del fascismo (es decir, – sic – “la Alemania Guillermina, el nazismo, el comunismo y el Islamismo”), en defensa de las instituciones representativas y el libre mercado.

Menos ideológica la tesis del historiador John Laughland, según la cual “la importancia geopolítica del idioma inglés ( … ) sólo es relevante en función de la potencia geopolítica de los países anglófonos.  Podría ser una herramienta por éstos usado para reforzar su influencia, pero no es una fuente independiente de esta última, al menos no de la potencia militar”[14].  La lengua, concluye Laughland, puede reflejar la potencia política, pero no la puede crear.

En este caso, la verdad está en el medio.  Es cierto que la importancia de una lengua depende – a menudo, pero no siempre – de la potencia política, militar y económica del país que la habla; es cierto que las derrotas geopolíticas conducen a las lingüísticas, es cierto que “el inglés avanza en detrimento del francés, ya que los Estados Unidos en la actualidad es más poderoso que los países europeos, quienes aceptan que sea consagrada como lengua internacional una lengua que no pertenece a ningún país de la Europa continental”[15].  Sin embargo, todavía existe una verdad complementaria: la difusión internacional de una lengua contribuye a aumentar el prestigio del país en cuestión, aumenta la influencia cultural y, eventualmente la política (un concepto, éste, que pocos son capaces de expresar sin recurrir al anglicismo soft power); con mayor razón, el predominio de una lengua en la comunicación internacional da un poder hegemónico al más potente entre los países que la hablan como lengua materna .

Con respecto a la difusión actual del inglés, “lengua de la red, de la diplomacia, de la guerra, de las transacciones financieras y la innovación tecnológica, no hay duda: esta situación proporciona a los pueblos de habla inglesa una ventaja incomparable y a todos los demás una desventaja considerable.”[16].  Cómo explica menos diplomáticamente el general von Lohausen, la ventaja que los Estados Unidos han conseguido de la anglofonía “ha sido igual para sus comerciantes y para sus técnicos, sus científicos y sus escritores, sus políticos y sus diplomáticos.  Mientras el inglés sea más hablado en el mundo, los Estados Unidos más podrán aventajarse de la fuerza creadora extranjera, atrayendo para sí, sin encontrar obstáculos, ideas, escritos, invenciones de los demás.  Aquellos cuya lengua materna es universal, poseen una superioridad evidente.  El préstamo concedido a la expansión de esta lengua retorna centuplicado a su fuente”[17].

 
 
¿Cuál lengua para Europa?

En los siglos XVI y XVII, después del Tratado de Paz de Cateau-Cambrésis (1559) que había sancionado la dominación española en Italia, la lengua castellana, además de ser utilizada por las Cancillerías de Milán y Nápoles, se difunde en el mundo de la política y las letras.  El número de voces italianas (y dialectales) nacidas en ese período por efecto del influjo del español, es elevadísimo[18].  Entre todos estos hispanismos, sin embargo, algunos fueron utilizados sólo ocasionalmente y no pueden ser considerados como de uso general; al contrario, tuvieron una vida efímera y desaparecieron sin dejar rastro; sólo una minoría se convirtió en una parte permanente del vocabulario italiano.  Después de la Paz de Utrecht (1713), que marcó el fin de la hegemonía española en la península, la influencia del castellano sobre la lengua italiana “ha sido mucho menor que la de siglos anteriores”[19].

Es razonable suponer que tampoco el colonalismo cultural de expresión anglo-americana colonial deba durar para toda la eternidad; y de hecho, algunos lingüistas ya predicen que a la actual fase de predominio anglófono, le seguirá una fase de decadencia[20].  Al estar vinculado a la hegemonía imperialista estadounidense, el predominio del inglés está destinado a sufrir en manera decisiva por la transición de la etapa unipolar a la multipolar, por lo que el escenario que la geopolítica de la lengua puede prefigurar razonablemente, es el de un mundo articulado según el multipolarismo de las áreas lingüísticas.

A diferencia del continente americano, que presenta una clara repartición entre el bloque norte anglófono y aquél hispanófono y lusófono de la parte central y sur del continente, Eurasia es el continente de la fragmentación lingüística.  Junto a los grandes espacios representados por Rusia, China o la India, relativamente homogéneos bajo el perfil lingüístico, tenemos un espacio europeo caracterizado por una situación de acentuado multilingüismo.

Por lo tanto, habría sido lógico que los fundadores de la Comunidad Económica Europea, si realmente querían rechazar una solución monolingüística, debieron adoptar como lenguas oficiales, entre aquéllas de los países miembros, las dos o tres más hablada en el área; tal vez escogiendo, en previsión de las sucesivas ampliaciones de la CEE, una terna de lenguas que representasen las tres principales familias europeas: la germánica, la románica y la eslava.  En su lugar, el artículo 1 del reglamento emitido en el 1958, indica cuatro lenguas (francés, italiano, alemán y holandés) como las “lenguas oficiales y lenguas de trabajo de las instituciones de la Comunidad”, con el resultado de que las “lenguas de trabajo” son ahora prácticamente tres: el francés, el alemán y… el inglés.

El fracaso de la Unión Europea impone el someter a una revisión radical al proyecto europeísta y refundar sobre nuevas bases el edificio político europeo.  La nueva clase política que será llamada para afrontar esta tarea histórica, no podrá evadir un problema fundamental como es el de la lengua.

 
 

Traducción:  Francisco de la Torre





[1] Jordis von Lohausen, Les empires et la puissance, Editions du Labyrinthe, Arpajon 1996, p. 49.

[2] Jordis von Lohausen, ibidem.

[3] De vulgari eloquentia, VIII, 3-6.

[4] Dante, Inf. XXXIII, 80.

[5] Dante, Purg. VI, 105.

[6] Dante, Convivio, I, 5.

[7] Luigi Alfonsi, La letteratura latina medievale, Accademia, Milano 1988, p. 11.

[8] Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1982, p. 202.

[9] “Voprosy Filozofij”, 2, 1949, cit. in: Lucien Laurat, Stalin, la linguistica e l’imperialismo russo, Graphos, Genova 1995, p. 52.

[10] Roland Breton, Atlante mondiale delle lingue, Vallardi, Milano 2010, p. 34.

[11] Michel ‘Aflaq, La resurrezione degli Arabi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, p. 54.

[12] I. Baldelli, in Bruno Migliorini – Ignazio Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1972, p. 331.

[13] Andrew Sullivan, Come on in: The Anglosphere is freedom’s new home, “The Sunday Times”, 2 febbraio 2003.

[14] John Laughland, L’Anglosfera non esiste, “I quaderni speciali di Limes”, a. 2, n. 3, p. 178.

[15] Alain de Benoist, Non à l’hégémonie de l’anglais d’aéroport!, voxnr.com, 27 maggio 2013.

[16] Sergio Romano, Funzione mondiale dell’inglese. Troppo utile per combatterla, “Corriere della Sera”, 28 ottobre 2012.

[17] Jordis von Lohausen, ibidem.

[18] Gian Luigi Beccaria, Spagnolo e Spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento, Giappichelli, Torino 1968.

[19] Paolo Zolli, Le parole straniere, Zanichelli, Bologna 1976, p. 76.

[20] Nicholas Ostler, The Last Lingua Franca: English Until the Return of Babel, Allen Lane, London 2010.

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DIETRO LA CRISI IN TURCHIA, CHI TIRA LE FILA PER IL “CAMBIO DI REGIME” ?

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Un “complotto organizzato dall’estero”, ma anche un “complotto delle lobbies dei tassi di interesse e del caos”: le dichiarazioni di Erdogan sulla grave crisi in Turchia non vengono troppo considerate dai media occidentali; eppure – al di là della simpatia/antipatia che può suscitare il Primo Ministro, di cui vengono puntualmente sottolineati i limiti caratteriali e le ambizioni egemoniche – queste denuncie non sembrano insensate, e un loro approfondimento contribuisce a ricostruire la dimensione dei fatti.

Ricordiamo sinteticamente i passaggi recenti più importanti della vicenda in corso:

  • Decine di fermi e di arresti a partire dal 17 dicembre per accuse di corruzione (frode, appropriazione indebita, traffico illegale di oro) – fra i fermati il figlio del ministro dell’Ambiente;
  • Il 21 dicembre altri 16 arrestati, fra cui il direttore generale della Halk Bank (banca a controllo pubblico) e i figli dei ministri degli Interni e dell’Economia;
  • Reazioni governative (circa 30 ufficiali di polizia rimossi e licenziati) e controreazioni della magistratura (il Consiglio di Stato annulla il regolamento che imponeva alla polizia giudiziaria di informare preventivamente il governo di determinate indagini; un procuratore della Repubblica accusa la polizia di avere dato tempo e modo agli indagati di inquinare le prove), mentre gli accusati si discolpano e l’esercito non prende posizione;
  • Dimissioni dei ministri i cui figli sono stati coinvolti nell’inchiesta (Ambiente, Interni, Economia) e rimpasto governativo con altri sette ministri sostituiti (in totale pertanto ben 10 su 21);
  • Tre parlamentari notoriamente “liberali” dell’AKP (fra cui l’ex ministro della Cultura Gűnay) lasciano nello stesso giorno il partito, accusandolo di connivenza con la corruzione .

Parallelamente all’azione giudiziaria si è scatenata una vera e propria tempesta economica, o meglio finanziaria: gli indici di borsa sono al minimo da 17 mesi a questa parte, la lira sta crollando rispetto al dollaro nonostante le iniezioni di grandi quantità di denaro operate dalla Banca Centrale nel tentativo di sostenere la moneta nazionale. E’ da tenere presente che la Turchia si affida ai flussi di denaro straniero per finanziare il suo deficit delle partite correnti (attualmente il 7,5 % del PIL), e la politica monetaria  della statunitense Federal Reserve – che ha di fatto ridotto gli investimenti USA in obbligazioni estere – sta mettendo in grossa difficoltà Ankara. Speculazione finanziaria (sulla lira turca) e azione dirompente della Fed possono insomma essere associate a quelle “lobbies dei tassi d’interesse” cui si accennava all’inizio;  c’è di più, perché la messa sotto accusa della Halk Bank rappresenta   da una parte un attacco alla finanzia pubblica e al ruolo dello Stato nella politica monetaria, dall’altra un attacco alle relazioni fra Turchia e Iran, i cui rapporti commerciali sono sostenuti proprio da tale istituto bancario.

Il tradizionale scontro fra alta magistratura/forze armate (queste ultime per ora alla finestra) e politica si affianca a probabili e assai verosimili influenze internazionali (in Turchia sarebbe veramente sorprendente se non fosse così). Ciò prescinde, ovviamente, dall’effettiva consistenza di accuse di corruzione sulle quali non è possibile ancora pronunciarsi.

Un parlamentare dell’AKP, Mehmet Metiner, in un’intervista rilasciata a un’agenzia di stampa iraniana ha lanciato precise accuse: “La grande “operazione contro la corruzione” partita il 17 dicembre si deve all’insoddisfazione di Stati Uniti, Israele e del movimento di Fethullah Gűlen per le relazioni fra Turchia e Iran”.

Un altro deputato del partito di governo, Salih  Kapusuz, ha parlato di “forze occulte di oltre Atlantico”, e di “collegamenti disgustosi”, riferendosi verosimilmente  al ruolo giocato da Gűlen, che risiede come è noto a Philadelfia e che rappresenta ormai lo pseudo Islam occidentalizzato che tanto spazio ha assunto nella strategia geopolitica atlantica. Diversi quotidiani turchi hanno ripreso le critiche al potente alleato statunitense, sottolineando il ruolo a dir poco ambiguo dell’ambasciatore di Washington, Francis J.  Ricciardone (lo stesso Erdogan ha, senza nominarlo, fatto riferimento al “ruolo provocatorio” di alcuni diplomatici che rischiano l’espulsione). Ricciardone non è – per la cronaca – un diplomatico qualsiasi: è l’alto funzionario che coordinò la task force del Dipartimento di Stato costituita subito dopo l’Undici Settembre nell’ambito della “coalizione contro il terrorismo”. Oggi sarebbe lui, in particolare, a mettere nel mirino la banca di Stato Halk Bank e i suoi rapporti con l’Iran.

Ma perché un “cambio di regime”nei confronti di un alleato tutto sommato fedele e addirittura in prima fila nella sanguinosa (e disastrosa) operazione siriana ? Rimandiamo per questo a un precedente articolo che trattava i numerosi precedenti della conflittualità fra AKP e mondo intellettuale/politico/finanziario occidentale:

http://www.eurasia-rivista.org/occupy-taksim-e-svolta-occidentale-per-la-turchia/19733/

Vi è da aggiungere quella che non è una svolta – ne è ben lungi – ma un campanello d’allarme per chi confida in una Turchia battistrada di un impegno bellicista. Il 27 novembre, con una dichiarazione congiunta che ha destato sorpresa già per il fatto della condivisione, Turchia e Iran si sono espressi per un immediato cessate il fuoco in Siria – contro l’esplicita volontà dei ribelli, che non accettano la sospensione del conflitto, e raccogliendo invece  l’invito in tal senso di Putin.

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S.VERNOLE, REDATTORE DI “EURASIA”, PRESENTA SU RAI 3 IL NUMERO 3/2013

I PADRONI DEL MONDO

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Luca Ciarrocca, I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e dei popoli, Chiarelettere 2013, 237 pagine, € 13,90
 
 
 
Questo saggio di Luca Ciarrocca, giornalista con retroterra economico nonché fondatore del sito indipendente WallStreetitalia.com, costituisce uno strumento di analisi molto utile per comprendere le dinamiche politiche ed economiche che in seguito alla crisi scoppiata nel 2008 hanno ulteriormente consacrato l’ascesa della finanza. Ciarrocca ripercorre, con una prosa chiara e scorrevole, gli eventi (crescita elefantiaca degli strumenti derivati, fallimento di Lehman Brothers, “salvataggio” di AIG, “consegna” di Bear Stearns al colosso JP Morgan Chase, intervento di Washington finalizzato a stabilizzare la terribile situazione bancaria) che sono alla base dell’odierna politica iper-espansiva varata dalla Federal Reserve (di cui viene inquadrata la collusione con il sistema bancario di Wall Street e indagata nel dettaglio la natura profondamente distorta e pericolosa) allo scopo di assicurare la solvibilità degli istituti Too Big To Fail (TBTF). L’autore mette in evidenza anche il ruolo svolto dagli hedge fund, i giganteschi fondi speculativi in grado di condizionare pesantemente l’andamento dei mercati azionari ed obbligazionari, e l’arrendevolezza con cui le classi politiche hanno trattato sia con loro che con le grandi banche. La “riforma della finanza” promossa da Barack Obama si è risolta all’adozione della cosiddetta “Volcker rule” (cioè il Dodd-Frank Act), una legge che ricalca alcuni principi del celebre Glass-Steagall Act, ma che di fatto non impedisce ai giganti di Wall Street di operare con gli stessi metodi pre-crisi.

Viene inoltre indagata a fondo la natura della crisi europea, nell’affrontare la quale Ciarrocca mette in evidenza le colossali inadeguatezze delle classi dirigenti sia a livello nazionale che comunitario, responsabili di aver concesso fiumi di liquidità a costo pressoché nullo alle grandi banche (con tassi di interesse dello 0,25%) mentre stritolavano famiglie e piccole e medie imprese nell’asfissiante morsa dell’austerità – pretesa da Bruxelles e applicata con inedita brutalità soprattutto in Italia, Grecia e Spagna – contribuendo ad alimentare la disoccupazione che affligge in particolar modo i Paesi mediterranei.

L’autore non si limita tuttavia a ricostruire il “film della crisi”, ma giunge a proporre alcune soluzioni tese a riequilibrare la situazione e a ridimensionare drasticamente il potere delle grandi banche. Si tratta del sistema “Positive Money”, elaborato dagli economisti Andrew Jackson e Ben Dyson, basato su sei principi fondamentali indagati e spiegati nei minimi particolari.

Si tratta, in definitiva, di un saggio fortemente critico tra i migliori usciti in questi ultimi anni, nel corso dei quali l’editoria ha proposto una pubblicistica quasi interamente tesa a promuovere cambiamenti di impatto assai ridotto che mirano a rassicurare l’opinione pubblica senza alterare le strutture riproduttive e i rapporti di forza presenti.

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RUSSIA GAINS UKRAINE AND ARMENIA, BUT (MAYBE) WILL LOSE KYRGYZSTAN

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The year which just ended was undoubtedly plenty of successes for the Kremlin. In spite of a rather low economic growth, Russia can still present itself as an island of development in the sea of the European stagnation. Moreover, after almost two decades of negative rates, the country’s natural population change is expected to be slightly positive in 2013[1]. But the most important victories have been achieved in the foreign policy. In September 2013, Putin made Obama accept a compromise over the Syrian issue, and so prevented an American attack that seemed almost certain. Meanwhile, Armenia’s government decided to apply for membership of the Eurasian Customs Union (ECU). In the end of October, the Georgian President Mikheil Saakashvili, a staunch pro-Western and anti-Russian politician, was replaced by the more conciliatory Giorgi Margvelashvili, elected with about 63% of the votes[2]. And, last but not least, on 21st November the Ukrainian Prime Minister Mykola Azarov decided to abandon its goal to sign the Association Agreement with the European Union (EU), which would have established a free-trade area (FTA) between Ukraine and the EU, in order to strengthen its relations with Russia and the CIS states. But, while Europe and America were – fruitlessly – doing their best in trying to persuade Ukraine to reverse its decision, Kyrgyzstan, a poor but strategically important Central Asian republic, refused to sign the Adhesion Agreement to the Eurasian Customs Union[3]. The balance sheet, nevertheless, remains neatly positive.

Ukraine is still unlikely to join the ECU in the near future, as desired by Putin, but the perspective of this happening after the 2015 presidential elections is not unlikely. In spite of the massive pressures exerted by both the Euromaidan protests and the European and American leaders, the Ukrainian President Viktor Yanukovich seems to be rather determined to stand on his decision. Longing for lower gas prices and help for his country, which is on the verge of failure, and after being offered very strict conditions by both the EU and the International Monetary Fund (IMF), Ukraine turned towards Russia. Informal talks between Yanukovich and Putin were intensive throughout the crisis, and, on 17th December 2013, the latter reduced the gas export prices from $400 to $268.5 per thousand cube metre. Moreover, Russia bought $15 billion dollars of Ukrainian government bonds through the Russian National Wealth Fund. And, at least officially, these helps came without any precondition, let alone ECU membership[4].

This is undoubtedly a sign of Putin’s pragmatism. During the crisis, indeed, the Russian President has generally refrained from putting ultimatums or forcing Kiev into the ECU; on the contrary, he stated that Ukraine might be allowed to keep tight trading links with Russia even if it would decide to join a free trade zone with the European Union[5]. Moreover, when Ukraine’s government decided to part with the Association Agreement (whose signing, nevertheless, was far from certain, as the EU required some political and economic reforms as a precondition), Putin was even able to present himself as a guarantor of Ukraine’s independence. During a meeting with the Italian Prime Minister Enrico Letta, for instance, the Russian President stated that “the choice of whom to sign a free trade agreement with is Ukraine’s sovereign choice and we will respect its decision, whatever it is”, and urged the European leaders to stop using “sharp words” on Ukraine[6]. Putin knows very well that putting ECU membership as a precondition for any help would only distance Kiev and increase Western criticism on the Russian foreign policy. What is important for him, now, is that Ukraine’s economy somehow recovers (and the benefits of the recent Russian bailout are already evident, as shown by the stabilization of the Hryvnia exchange rate[7]), Yanukovich comes back to power in 2015, the West accepts the role of Russia in the region, and the pro-European protests end.

If not over, the protest wave which has been investing several Ukrainian regions, mainly in the West and the Centre, is far weakened compared to some weeks ago. On 5th January 2014, indeed, only 5,000 people joined the protests in the Independence Square of Kiev[8], and the last demonstrations came almost unnoticed in the international press. This is striking when one thinks that, on 8th December 2013, the protesters were – at least according to the organizers’ estimates – half a million[9]. And Yanukovich, who so far has refrained from a massive use of force against protesters, is now assuming a stauncher position: on 30th December, for instance, he signed a law introducing the crime of “illegal occupation of public buildings” (the Kiev City Hall and other public structures are still held by the protesters)[10]. But now the Kievan population itself, in spite of its pro-European attitude, seems rather tired of the diseases the protests have been provoking, and in the last weeks there have been several charges against some misdemeanours of the protesters[11].

While Ukraine seemed to be on the brink of a second Orange Revolution, Armenia was rapidly proceeding towards the integration with Eurasia. On 24th December, the road map for the Armenian adhesion to the ECU was approved, and, during his message for the New Year’s Day, the Armenian President Serzh Sargsyan stated that his country is likely to join the ECU in 2014. Furthermore, like Ukraine, Armenia is enjoying the benefits of a steady improvement of its relations with Russia: during his last visit to Yerevan, Putin reduced the prices for the gas exportation to the country from $270 to $189 per thousand cube meter, and mentioned the possibility to apply the Russian prices for the sales of weapons to Armenia[12]. In return, Armenia agreed to sell 20% of Armrosgazprom, the Russian-Armenian joint venture for gas, to Gazprom, which already owned 80% of the company; this, nevertheless, sparked some protests from the opposition[13].

Some other protests, more vocal, came from Azerbaijan, whose authorities stated that “Armenia’s adhesion to the ECU, or to any similar international organization, will be possible only after the liberation of the occupied Azerbaijani lands”[14]. The main fear is an informal – or even official – recognition of the self-proclaimed Republic of Nagorno-Karabakh, established with Armenia’s support. The issue was raised also by the Kazakhstani President Nursultan Nazarbayev, who, during the discussions for the road map for the Armenian adhesion, stated that the latter would arise the issue of the external borders of the Customs Union. The document, nevertheless, was issued without any reference to the Karabakh issue, and an Armenian politician went as far as stating that Nagorno-Karabakh will actually become a member of the ECU[15]. But for Nagorno-Karabakh and the lack of both direct borders with the Union and sea mergers, there seem to be no particular problems in the Armenian adhesion to the Customs Union: at the end of the meeting for the road map, Nazarbayev himself stated that Armenia is far more ready to adhere to the ECU than Kyrgyzstan[16].

Among the candidates to the ECU membership, Kyrgyzstan seems to be one of the less desired. The reasons for this are manifold: Kyrgyzstan is a the second poorest country in the Former Soviet Union after Tajikistan, its borders, especially the southern ones, are scantly controlled and often serve as a transit point for drug and weapon traffic, and its southern regions are rather unstable because of the spread of Wahhabism and the recurring interethnic clashes between Kyrgyzes and Uzbeks. The need for a strong ally and the desire not to be swallowed by instability or by the steadily increasing Chinese influence are undoubtedly two major factors influencing the Kyrgyzstani President Almazbek Atambayev’s staunch determination to join the ECU.

Kyrgyzstan requested officially to join the Customs Union in 2011[17], and in April 2013 Atambayev stated that his country is likely to become the fourth ECU member state by the end of the year[18]. Everything seemed to go rather straightforwardly. In June, the Kyrgyz government decided not to renew the contract with the USA for the use of the Manas Air Base, near the Kyrgyz capital Bishkek. The base will be closed on 11th June 2014[19]. Meanwhile, Russia will enhance its air base of Kant, still near Bishkek[20], and build a new military facility on the Lake Issyk-Kul[21]. A month later, Kyrgyzgaz, the Kyrgyzstani national gas company, was sold to Gazprom for the symbolic price of one dollar. This deal, nevertheless, has actually been a real bargain for Kyrgyzstan: Gazprom, indeed, pledged to undertake investments and modernization works for $670 million, as well as to pay off Kyrgyzgaz’s debts (38 million dollars). Furthermore, the Russian national gas giant will own Kyrgyzgaz for only 25 years, after which the company will come back to the Kyrgyzstani government if the deal will not be renewed[22].

Nevertheless, there was – and is – a number of unresolved issues which would have led to Atambayev’s final decision not to sign the Adhesion Agreement to the Customs Union. One of these is about compensation duties. As a WTO member state, indeed, Kyrgyzstan would have to pay compensations to several nations after joining the ECU and aligning its duties with those of the Union. The Central Asian Republic demanded so to maintain its own duties over around 2,600 products as a temporary measure. Kyrgyzstan, furthermore, required $415 million to support the economic development of the country and improve the security of its outer borders, a provision for the free circulation in the territory of the Union for its migrants, and a deferral of the liberalization of the trade in the Dordoy and Kara-Suu bazaars. None of these conditions, nevertheless, was put into the Adhesion Agreement issued in November, and Nazarbayev stated that “there will be no adhesions to the ECU at special conditions”. Bishkek, in turn refused to sign the agreement, but its Deputy Prime Minister Dzhoomart Otorbayev declined the idea of Kazakhstan and Russia having given “an ultimatum” to the Kyrgyz Republic and stated his willingness to start new consultations with the Eurasian trio in order to sign the Adhesion Agreement in May[23].

Is Kyrgyzstan an undesired guest in the ECU? The country interests mainly for its geographical position and to stabilize the region (or, at least, to prevent its further destabilization). The Americans’ departure from Manas and their future retire from Afghanistan will make Central Asia completely free from the US military presence. Russia and China will remain the main pretenders for the geopolitical control of Central Asia, with the former being relatively advantaged over the latter. But, on the other hand, the risks connected to the growth of Islamic fundamentalism will inevitably increase, and the most vulnerable states are undoubtedly Kyrgyzstan and Tajikistan. The causes for this are manifold. Apart from the traditional religious conservatism of certain regions, such as the Fergana Valley[24], much is due to the widespread poverty and unemployment. Unfortunately, this is not something new. In the Batken province of south-western Kyrgyzstan, for instance, the Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) paid each guerrilla monthly salaries between $100 and $500; and, if we consider that, in the late 90’s, unemployment rates swung around 60–80 percent, it should not be surprising if many found these salaries particularly attractive[25]. The question of Islamic fundamentalism in Kyrgyzstan is of interest for all the Former Soviet Union countries, and Yeltsin’s claim that “the border between Afghanistan and Tajikistan is actually a Russian border” is all but outdated[26].

There is no doubt that economic and social development will contrive to limit, or even reverse, the spread of fundamentalism, and many agree that Kyrgyzstan would greatly benefit from the Union. One of them is Atambayev, who stated that the Kyrgyzstani textile industry has the potential to become leader in the CIS once the country will have joined the ECU[27]. Such claims are supported also by the Kazakhstani economist Sergey Akimov, who forecasts an overall steady growth of the Kyrgyzstani manufacture[28], but someone else, like the Kazakhstani political analyst Sanat Kushkumbayev, stated that the role of underground economy in the country puts into question the presence of overall benefits for Kyrgyzstan from the ECU membership[29]. And a number of experts and entrepreneurs, especially in nearby Kazakhstan, is worried by the repercussions on security after Kyrgyzstan’s adhesion to the Union on both security and increased concurrence. According to Zhomart Aldangarov, leader of the Eurasian Entrepreneurs’ Association, it will be difficult for the Kazakhstani small and medium enterprises (SME) to compete to the Kyrgyzstani one, whose production costs are far lower[30].

It is noteworthy that many Kazakhstani opponents to Kyrgyzstan’s adhesion to the ECU seem to agree on the fact that the latter would not only stimulate the economic development of the country, but also enhance its internal security. This, in turn, leads to question the overall foundations of the Customs Union. Could the ECU be an effective instrument to ensure Eurasia peace, economic development and stability in the long term, or is it simply a tool for realizing short-term benefits, lacking any vision? The principle of mutual solidarity among the member states should be one of the bases of the Customs Union, as well as of any economic union aiming to fulfil long-term ends. But, if supporting Kyrgyzstan is a both material and moral need for all the ECU member states – Russia, for example, is now financing the building of a hydroelectric power plant –, there is a clear risk that the country would become excessively reliant on foreign aid, or even that the aids would rather contrive to strengthen power and corruption nets. And this, according to an important Kazakhstani entrepreneur, is already happening in Kyrgyzstan because of the ongoing instability and the recurring revolutions[31].




[24] The Fergana Valley is a Central Asian region located between Kyrgyzstan, Tajikistan and Uzbekistan.

[25] D. Hiro, Inside Central Asia, Overlook Duckworth, New York/London 2011, p. 298.

[26] S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milan 2000, p. 403.

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UNIONE BANCARIA, UN PASSO VERSO LA CATASTROFE (VISTI I PRECEDENTI…)

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Risale al marzo 2013 la crisi cipriota, la cui deflagrazione, unitamente alle misure adottate dalla “troijka” allo scopo di mitigarne gli effetti, rappresentò di fatto un segnale premonitore circa cosa sarebbe accaduto in seno all’Eurozona, con particolare riferimento alla cosiddetta “unione bancaria”.

 

Come è noto, dopo una lunga fase di incertezza, la Banca Centrale cipriota, incalzata da Commissione Europea, Banca Centrale Europea (BCE) e Fondo Monetario Internazionale (FMI), ruppe gli indugi rivelando l’intenzione di convertire in titoli della Bank of Cyprus il 40% circa dei depositi non garantiti superiori ai 100.000 euro – per quelli inferiori ai 100.000 euro garantì l’Unione Europea –, e di inserire un ulteriore 22-23% degli stessi in un fondo speciale sgravato da interessi. In totale, il prelievo forzoso sui depositi più cospicui ammontò quindi al 60% circa. Le autorità europee, dal canto loro, spinsero inoltre Nicosia a mettere in vendita 10 delle circa 14 tonnellate di riserve auree (per un valore di 400 milioni di euro) detenute dallo Stato allo scopo di rastrellare i fondi necessari a sbloccare il piano di salvataggio concordato con la “troijka”, comprensivo anche di un cospicuo “taglio” (haircut) nei confronti dei creditori alla luce del continuo incremento del “costo stimato” del bail-out. Fin dall’inizio, le stime più accreditate hanno rivelato che il prezzo da pagare per  Cipro sarebbe stato salatissimo, poiché il Paese sarebbe stato chiamato a sopportare una grave depressione economica in grado di contrarre il Prodotto Interno Lordo dell’8,7% nel 2013 e del 3,9% nel 2014. Un portavoce del governo di Nicosia rivelò peraltro che nel 2013 la perdita avrebbe determinato una compressione del 13% del PIL cipriota, compromettendo inevitabilmente i programmi escogitati dalla “troijka”, i cui rappresentanti avevano sostenuto che le restrizioni sui movimenti finanziari volte ad impedire fuoriuscite di capitale sarebbero state eliminate al più presto nonostante fosse chiaro che sarebbero rimaste in vigore finché i prelievi sui depositi dei correntisti non si fossero rivelati sufficienti a rimborsare il debito contratto con BCE e FMI.

Il “Financial Times” ha sostenuto che l’idea relativa prelievo forzoso fosse il risultato di fortissime pressioni esercitate dai tedeschi, i quali avrebbero imposto le proprie pretese ai commissari europei. Il ministro delle Finanze di Berlino Wolfgang Schäuble deterrebbe la paternità del “piano di salvataggio”, e sarebbe frutto dei suoi sforzi l’intesa raggiunta tra il FMI e la BCE in relazione all’affaire cipriota. La “tassa” sui depositi, imposta senza che fosse stata nemmeno ventilata l’ipotesi di adottarne una complementare sulle transazioni finanziarie, era evidentemente finalizzata a scaricare sui correntisti ciprioti e i contribuenti europei i costi di rifinanziamento del settore bancario dell’isola, senza ristrutturare, differentemente rispetto a quanto è stato fatto nei confronti della Grecia, il debito accumulato dal Paese.

La tesi relativa alla “strada tedesca” indicata dal “Financial Times” è sostenuta dalla proposta avanzata da Jörg Krämer, capo economista dalla banca tedesca Commerzbank (controllata dallo Stato in seguito alla nazionalizzazione), il quale ha suggerito di effettuare un prelievo del 15% sui conti correnti italiani allo scopo di garantire il valore dei titoli di debito emessi dallo Stato; un salasso che porterebbe il debito pubblico al di sotto del 100% del Prodotto Interno Lordo e consoliderebbe la prassi operativa inaugurata con l’esperimento cipriota. Secondo Krämer, dal momento che secondo le statistiche pubblicate dalla Bundesbank la ricchezza privata degli italiani ammonterebbe a 164.000 euro pro capite, a fronte dei 76.000 di media dei tedeschi, i cittadini italiani potrebbero agevolmente sopportare una simile imposta. Ciò che sia Commerzbank sia Bundesbank hanno omesso di chiarire è tuttavia il fatto che tali cifre comprendono sia il patrimonio finanziario che quello immobiliare, e che il 70% degli italiani possiede una casa, contro, grosso modo, il 40% dei tedeschi. Per quanto riguarda il reddito, si può invece constatare come i 19.655 euro di reddito medio annuo pro capite degli italiani spariscano a confronto degli oltre 30.000 guadagnati dai tedeschi. La soluzione implicita promossa dalla Commerzbank prevedrebbe quindi che gli italiani vendessero le proprie abitazioni per accumulare e depositare quella rilevante ricchezza privata su cui lo Stato sarebbe chiamato ad effettuare il prelievo.

Non appena cominciarono a circolare voci accreditate relative al “prelievo forzoso” dai conti correnti ciprioti, il presidente russo Valdimir Putin lanciò un serio ammonimento parlando di “tassa” «Ingiusta, poco professionale e pericolosa» (1), allo scopo di scongiurare la diffusione del panico e l’automatica corsa agli sportelli da parte di tutti i clienti di banche in crisi di solvibilità che sarebbe verosimilmente potuta essere innescata dalla decisione targata “troijka”. I destinatari di tale monito erano chiaramente i promotori tedeschi, i quali erano seriamente sospettati di star sotterraneamente gettando le basi per l’imposizione di una tassa patrimoniale europea a danno dei cittadini-correntisti appartenenti agli Stati debitori (il fatto che non fosse stata immediatamente introdotta una garanzia sui depositi a livello europeo conferiva notevole credibilità a questa ipotesi). Ma tassare pesantemente i depositanti, come sosteneva Putin, avrebbe pericolosamente spalancato le porte a una prospettiva micidiale, poiché si sarebbe corso, per l’appunto, il concreto rischio di insinuare il panico bancario ed innescare fughe di capitali dai Paesi in difficoltà (come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia) verso quelli più  solidi, i quali avrebbero tutto l’interesse a richiamare i patrimoni stranieri abbandonando le nazioni più deboli a se stesse, come è puntualmente accaduto specialmente in seguito ai segnali d’allarme lanciati da JP Morgan Chase.

Il colosso di Wall Street diramò infatti un rapporto in cui si evidenzia che i depositi sprovvisti di coperture assicurative ammontano a quasi la metà dei depositi totali di tutta l’Unione Europea, e ciò fu sufficiente, nonostante le reiterate rassicurazioni fornite da Bruxelles e dai vari governi nazionali, per fare in modo che i depositi cominciassero a spostarsi dai Paesi periferici (Cipto, Italia, Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna) verso mete più sicure (Germania in primis), mettendo a repentaglio la solidità dell’intero sistema bancario. Riflettendo sul caso cipriota, Jim Reid di Deutsche Bank ha invece avuto l’ardire di sostenere che: «Forse la lezione che dobbiamo trarre da tutto questo è che se si è abbastanza fortunati da avere molto denaro, sarebbe meglio cominciare a spenderlo» (2).

Letta sotto quest’ottica sembrerebbe che l’intera vicenda fosse rivolta a spingere, attraverso una particolare forma di “terrorismo economico”, tutti i risparmiatori europei a smettere di risparmiare per far girare soldi, cosa che avrebbe ipoteticamente potuto contribuire ad uscire dalla “trappola della liquidità” responsabile dello stallo del sistema nonostante i fiumi di denaro iniettati nelle banche. Anche se finora non si è giunti a un prelievo indiscriminato da tutti i depositi come era presumibilmente nelle idee originarie della “troijka” e di alcuni alti esponenti di Berlino, lo stesso presidente dell’Eurogruppo Jerön Dijsselblöm non ci pensò due volte a dichiarare pubblicamente che il modello-Cipro, attuato con la partecipazione coatta di investitori e titolari di depositi nella ristrutturazione delle banche, costituisce un paradigma di riferimento per gestire i problemi che il settore bancario europeo si troverà ad affrontare in futuro – in primo luogo, quello relativo alle critiche condizioni in cui versa l’economia slovena. L’esperimento cipriota potrebbe quindi essere considerato alla stregua di una prova tecnica volta a testare la reazione delle forze popolari ed individuare il punto di rottura oltre il quale scatterebbe la rivolta sociale. Per sventare questo genere di prospettiva, i Paesi dell’Europa mediterranea guidati dalla Francia hanno esercitato forti pressioni fino ad ottenere il riconoscimento generale del principio di “unione bancaria”, volta a porre l’intero comparto creditizio europeo sotto un unico sistema normativo e a stabilire un preciso modello di riferimento per la gestione delle crisi bancarie. I passi compiuti verso questa direzione hanno suscitato l’entusiasmo di governi, parlamenti e dell’intero circuito informativo, nonostante il meccanismo di supervisione della BCE previsto dagli accordi preliminari relativi alla “unione” riguardi meno di 150 banche sulle 6.000 operanti all’interno dell’Eurozona (tra quelle che sfuggono al sistema di controllo figurano naturalmente le casse di risparmio regionali tedesche, che finanziano l’industria nazionale e in cui si intrecciano i riservati legami tra politica e imprese) e malgrado il “fondo di risoluzione delle crisi” cui tutti i Paesi saranno chiamati a contribuire – Germania in primis, vista e considerata la sua potenza economica – ammonti a 55 miseri miliardi di euro (che impallidiscono di fronte ai 241 miliardi concessi senza alcun risultato alla Grecia). In altre parole, la decantata “unione bancaria” non riguarda gli istituti di credito tedeschi e vincola la Germania a mettere a disposizione una quota finanziaria assai ridotta per il “fondo di risoluzione delle crisi”. Questo sembra essere l’esito dello scontro tra i “capitali forti” del centro e i “capitali deboli” situati nelle zone periferiche dell’Unione Europea. L’aggravarsi della crisi ha comportato un incremento dei fallimenti imprenditoriali, che a sua volta si è ripercosso sul settore bancario aumentando esponenzialmente in numero di “sofferenze”, le quali a loro volta hanno creato le condizioni favorevoli per l’innesco di un processo di ristrutturazione bancaria di tipo darwiniano, in cui le economie più forti saranno presumibilmente destinate a fagocitare quelle deboli originando una drastica concentrazione di potere e una sovversione dell’ordinamento democratico che rischia di privare i Paesi periferici del controllo sugli assetti proprietari del capitale bancario nazionale.

Di fatto, la Germania e gli Stati gravitanti attorno alla sua orbita hanno fatto valere la loro supremazia rivoltando il progetto di “unione bancaria” proposto dalla Francia e dai Paesi mediterranei, in modo che prevedesse la messa al bando di ogni possibilità relativa al ricorso al denaro pubblico per far fronte alle crisi bancarie, rinnegando implicitamente gli impegni assunti solennemente con il Meccanismo Europeo di Stabilità, che permetteva di destinare i fondi a beneficio di tutte le banche, a prescindere dal loro Paese di appartenenza.

Il che conferisce ulteriore credibilità alla tesi secondo cui toccherà ai depositanti delle banche in crisi il gravoso compito di sborsare denaro per risolvere la situazione, come sperimentato nei confronti di Cipro. Come ha evidenziato qualche osservatore (3), si tratta di un risultato impareggiabile, specialmente dopo che per anni è stato ripetuto allo sfinimento che l’euro, nonostante i suoi difetti, rappresentava una protezione formidabile del risparmio dalla svalutazione. Di fatto soltanto all’interno dell’ Eurozona si è deciso di violare il risparmio, minando la fiducia dei depositanti.

 

 

 

1) “Ansa”, 18 marzo 2013.

2) Cit. in Is this the diabolical “master plan” behind crushing Europe’s depositors, “Zero Hedge”, 26 marzo 2013.

3) Maurizio Blondet, Renzi sveglia: Merkel si tiene l’euro ma ha buttato la UE, “Rischio Calcolato”, 7 gennaio 2013.

 

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