Quantcast
Channel: finalandia nato – Pagina 40 – eurasia-rivista.org
Viewing all 106 articles
Browse latest View live

IL KAZAKISTAN E L’INTEGRAZIONE EURASIATICA

$
0
0

Il Kazakistan è senza dubbio uno dei protagonisti indiscussi dell’integrazione eurasiatica. Già nel 1994 Nursultan Nazarbaev, allora come oggi Presidente della Repubblica kazaca, aveva proposto la creazione di un’Unione degli Stati eurasiatici con una moneta unica, un mercato unificato, il russo come lingua di lavoro, procedure semplificate per il cambio di cittadinanza, un Parlamento sovranazionale e una Presidenza a rotazione (1). Nazarbaev era pienamente consapevole che, dal punto di vista economico, lo scioglimento dell’URSS era stato un assoluto nonsenso, ma in quell’epoca a prevalere erano le spinte centrifughe e la proposta rimase sulla carta. L’unico passo in avanti fu la creazione di un’area di libero scambio tra Russia, Kazakistan e Bielorussia nel 1995. L’accordo avrebbe dovuto fungere da punto di partenza per l’avvio di un percorso di integrazione economica tra i Paesi ex-sovietici, ma fu solo nel 2007 che questi sottoscrissero un accordo per passare allo stadio successivo dell’integrazione economica, ossia l’unione doganale, che comportava, una volta aboliti i dazi tra i Paesi membri, l’introduzione di una tariffa doganale unificata nei confronti dei Paesi terzi. Da allora, però, l’integrazione eurasiatica ha vissuto un’accelerazione: l’Unione Doganale Eurasiatica è entrata in vigore nel 2010, e il 1°gennaio 2012 è nato lo Spazio Economico Unico (SEU), che prevedeva la libera circolazione di beni, servizi, capitali e manodopera tra gli Stati membri. Il prossimo passo sarà l’unificazione dei trattati sull’Unione Doganale e sul SEU mediante la creazione dell’Unione Economica Eurasiatica, che si prevede vedrà la luce nel 2015.

La presenza di benefici complessivi derivanti dall’integrazione economica è uno dei non molti punti su cui concordano praticamente tutti gli economisti a partire da David Ricardo (2). I vantaggi, però, non sono simultanei. Nell’immediato, infatti, i Paesi coinvolti tendono a registrare delle perdite a causa dell’aumentata concorrenza della produzione estera, specie nei settori meno competitivi, e solo in una seconda fase le perdite nei settori più soggetti alla concorrenza vengono pienamente compensate dalla crescita dei settori maggiormente concorrenziali, dal miglioramento qualitativo dei prodotti e da un generale aumento della competitività dell’area, con guadagni complessivi per tutti i Paesi.

Il Kazakistan, però, sembra ancora nel pieno di questa prima fase. Nel 2012, infatti, le esportazioni di prodotti kazachi verso Russia e Bielorussia hanno subito un calo del 3,7%, mentre le importazioni sono aumentate (3). E il made in Kazakhstan fatica a sfondare sui mercati russi e bielorussi. Una delle maggiori cause di questa diminuzione è senza dubbio la scarsa competitività della produzione kazaca, tradizionalmente orientata al consumo di un mercato troppo piccolo per poter sfruttare adeguatamente i rendimenti di scala crescenti presenti in molte filiere produttive. Cosa che, invece, avviene in Russia e in Bielorussia: se la prima ha oltre 140 milioni di abitanti, la seconda, oltre ad avere un’economia fortemente integrata con quella russa (4), si caratterizza per una solida industria meccanica, specializzata in produzioni quali trattori e veicoli da lavoro e che in epoca sovietica fece guadagnare al Paese il soprannome di “catena di montaggio dell’Unione Sovietica”. Tutto ciò rende piuttosto debole la posizione del Kazakistan rispetto agli altri due Stati del trio eurasiatico. La debolezza del Kazakistan, però, è dovuta anche alla scarsa diversificazione della sua economia, ancora oggi troppo legata alle esportazioni di materie prime (soprattutto uranio, di cui il Paese è il primo produttore mondiale (5), e idrocarburi).

Tuttavia già oggi si possono vedere dei segnali di inizio della seconda fase. Gli stessi dati sull’export kazaco, all’apparenza negativi, rivelano all’osservatore attento delle tendenze positive di cui è difficile non tener conto. Il calo delle esportazioni, infatti, è dovuto principalmente alla diminuzione dei prezzi delle materie prime, mentre si registra un aumento pari al 17% delle esportazioni di prodotti finiti, che oggi compongono il 59% delle esportazioni kazache verso Russia e Bielorussia (6). Nei primi otto mesi del 2013, inoltre, gli scambi commerciali tra Russia e Kazakistan hanno registrato un aumento del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, superando quota 18 miliardi di dollari (7). In crescita anche l’industria leggera: nel 2012, ad esempio, quella meccanica ha registrato una crescita del 16,2%, quella della lavorazione di materiali non metallici del 10,6%, l’industria chimica del 5,9% e quella farmaceutica del 5,6% (8). Si tratta di chiari segnali di quella diversificazione economica tanto agognata dai fautori della partecipazione del Kazakistan all’Unione Doganale.

Questa diversificazione verrà sicuramente favorita dalla forte crescita degli investimenti stranieri, in particolare di quelli russi, che negli ultimi anni sono aumentati in maniera esponenziale. Tra il 2010, anno dell’entrata in vigore dell’Unione Doganale, e il 2012 il numero delle imprese a capitale russo operanti in Kazakistan è aumentato del 30% (9), mentre dal 2012 al 2013 questa crescita è stata addirittura dell’80% (10). Nei primi dieci mesi del 2013 i russi hanno investito in Kazakistan 16 miliardi di dollari, di cui 1,2 in investimenti diretti (11), 10,5 mila delle circa 30.000 società straniere attualmente operative in Kazakistan sono a capitale russo e, nel novero delle società russe operanti nel Paese delle steppe, si trovano colossi come Sberbank, Gazprom, Lukoil e AvtoVAZ (12). Numerosi, poi, sono i progetti congiunti russo-kazachi, tra cui quello della russa AvtoVAZ e della kazaca Azija Avto per la costruzione presso Ust’-Kamenogorsk, nel Kazakistan nordorientale, di un impianto che, secondo i piani, avrà una capacità produttiva di 120.000 auto annue e impiegherà complessivamente ottomila unità lavorative. Lo stabilimento sarà operativo a partire dal 2016 (13).

Difficile dire se l’economia kazaca riuscirà a liberarsi, almeno in parte, dal fardello della dipendenza dalle esportazioni di materie prime, ma le premesse ci sono. Il Kazakistan, dopo tutto, non è certo privo di punti di forza. Uno di questi è la facilità nel fare impresa: nell’ultimo rating Doing Business pubblicato annualmente dalla Banca Mondiale il Kazakistan si classifica cinquantesimo, superando una Bielorussia ferma al sessantaduesimo posto e una Russia che, sebbene abbia recuperato quasi venti posizioni rispetto al 2012, rimane parecchio indietro agli altri due Paesi del trio eurasiatico: nella classifica, infatti, la Russia si piazza novantaduesima (14). Anche nel settore dello sviluppo tecnologico il Kazakistan se la cava bene: nell’ultima graduatoria dello sviluppo delle tecnologie informatiche, infatti, il Paese occupa il primo posto tra i membri della CSI, e tra gli eredi dell’Unione Sovietica viene superato soltanto dalle tecnologicamente avanzate Repubbliche Baltiche (15). La maggiore ricchezza del Kazakistan, però, è la sua posizione geografica: situato tra Russia (e quindi Europa), Cina e Paesi islamici, il Paese è un punto di partenza ideale per la conquista di questi mercati, oltre che per fungere da ponte tra questi quattro mondi. Più apparenti che reali sono invece i vantaggi sul fronte fiscale. In Kazakistan la tassazione media è del 17%, contro il 34% del vicino russo e il 52% della Bielorussia, ma se in quest’ultima il regime fiscale è privo di sorprese, nel Paese delle steppe esistono una serie di spese accessorie non indicate il cui importo può essere altamente variabile (16). Gli alti livelli di corruzione e di evasione fiscale sono in questo tutt’altro che di aiuto.

In ogni caso, malgrado le difficoltà, sono in molti, tra gli investitori russi, a fare un quadro positivo del Kazakistan. La burocrazia, dopo tutto, è relativamente snella, le affinità culturali con la vicina Russia sono forti, l’atteggiamento del potere abbastanza leale e il tenore di vita in costante aumento (17). Il Kazakistan è attualmente una locomotiva in piena corsa: tra gennaio e ottobre 2013 il suo PIL reale è cresciuto del 5,8% (18) e, a dispetto di quanto si possa ritenere, investe più denaro in Russia di quanto la Russia non ne investa nel Paese delle steppe: nel 2012, infatti, quest’ultimo ha investito 1 miliardo e 700 milioni di dollari in Russia, contro il miliardo investito dai Russi in Kazakistan (19). La Russia, a sua volta, risente della crisi europea, ma l’idea secondo cui sia entrata in una fase di stagnazione è quanto mai affrettata: l’aumento del PIL previsto per il 2013, pari al 2,2%, pur non esaltante, è un grande balzo in avanti rispetto ai tassi stagnanti o negativi del Vecchio Continente. Da notare che, secondo la Banca Mondiale, la Russia ha recentemente superato la Germania come quinta economia mondiale a parità di potere d’acquisto (20).

Tutto ciò, assieme al progressivo rafforzamento geopolitico di una Russia che oggi è tornata ad avere un ruolo forte in politica estera, sta contribuendo ad accrescere l’interesse mondiale per l’Eurasia. L’Unione Doganale e il SEU sono oggi tutt’altro che privi di limiti: il loro mercato, pari a 170 milioni di persone (che diventeranno 180 a seguito della futura adesione di Kirghizistan e Armenia e, in parte, della crescita demografica, positiva in tutti gli Stati eurasiatici ad eccezione della Bielorussia), è oggi troppo piccolo per essere pienamente autosufficiente (la soglia per l’autosufficienza, secondo alcuni studi, è pari a 200-250 milioni di persone (21)), e in diversi settori il mercato unico esiste solo sulla carta. Per l’elettricità bisognerà attendere il 2015 (22), per i servizi assicurativi il 2019 (23), e il mercato finanziario unico eurasiatico non vedrà la luce prima del 2020 (24). Ma gli Stati eurasiatici sembrano voler fare le cose sul serio: l’Unione Doganale è un organismo che agisce pienamente secondo le norme del WTO, e già nel 2012 le 400 deroghe previste dal trattato originario sull’Unione Doganale erano state ridotte a 70 (25).

Tuttavia, malgrado gli indicatori economici non lascino adito a dubbi, e sebbene la grande maggioranza della popolazione kazaca sia favorevole all’integrazione eurasiatica (un recente rapporto della Banca Eurasiatica per lo Sviluppo mostra che il 73% dei Kazachi è favorevole all’Unione Doganale (26)), non mancano le polemiche. I critici dell’integrazione eurasiatica, seppur non molti, non hanno mancato di far sentire la propria voce, e nel marzo del 2013 hanno iniziato una raccolta firme per un referendum nazionale sulla partecipazione del Kazakistan all’Unione Doganale. L’iniziativa ha avuto scarso successo (27), ma i motivi di critica restano. Molti lamentano gli aumenti dei prezzi e della concorrenza estera, mentre altri criticano il governo per lo scarso coinvolgimento di un’opinione pubblica che, comunque, in Kazakistan è tendenzialmente volubile e non sempre portata alla democrazia e al dibattito. Ma le critiche maggiori, riassumibili in due domande retoriche, provengono dai nazionalisti. E’opportuno, per un Paese ad etnia turca e a maggioranza musulmana, prendere parte a un progetto di integrazione economica con un Paese che l’ha dominato per secoli e che è responsabile della sua russificazione linguistica, oltre che di vari misfatti? Non sarebbe più opportuno guardare verso la Turchia o verso gli altri “stan” del Centrasia?

Queste domande sono tutt’altro che prive di fondamento. Il Kazakistan è ancora oggi un Paese multietnico, ma negli ultimi decenni l’aumento della quota percentuale dei Kazachi etnici e dei membri delle altre etnie asiatiche, come gli Uzbechi, è andato di pari passo con la diminuzione delle sue componenti russe ed europee. Allo stesso modo è palese il processo di islamizzazione che sta vivendo il Paese, sebbene il ruolo della religione rimanga comunque limitato. L’Unione Eurasiatica, invece, sta assumendo le forme di un circolo di Paesi filorussi e ortodossi. Praticamente tutti i Paesi che hanno chiesto l’adesione all’Unione appartengono almeno a una di queste due categorie, e anche l’imminente adesione alla stessa del Kirghizistan, fortemente affine al Kazakistan dal punto di vista etnico e culturale, avrà una portata molto limitata. Il Kirghizistan, dopotutto, è un Paese povero e fortemente dipendente dai suoi vicini settentrionali, Russia in primis, per quanto riguarda sia l’economia sia la sicurezza. Inoltre, sebbene gli organi decisionali dell’Unione Doganale e del SEU abbiano degli strumenti che di fatto impediscono alla Russia di decidere a colpi di maggioranza, ad esempio assegnando un singolo voto a ciascun membro, è ingenuo pensare che il potere reale detenuto dalla Russia non sia nettamente maggiore rispetto a quello di Bielorussia e Kazakistan (dopo tutto anche un organo più democratico come l’Unione Europea si fonda nella prassi sulla preminenza di Francia e Germania). Soltanto l’eventuale ingresso dell’Ucraina potrà modificare parzialmente questi equilibri.

Ma, se è vero che il Kazakistan non è la Russia, da cui pure è stata fortemente influenzata, è altrettanto vero che, sia pure con qualche differenza tra le varie regioni, i suoi costumi sono nettamente più secolarizzati rispetto a quelli di una Turchia o anche di un Uzbekistan. La Russia, inoltre, non è un Paese monoetnico: le sue minoranze, perlopiù turche, slave e caucasiche, ammontano a circa il 20% della popolazione, e questa percentuale, tradotta in termini numerici, significa che un numero di cittadini russi pari a poco meno della metà della popolazione italiana non è etnicamente russo. Discorso simile vale per le minoranze musulmane, buddiste e comunque non ortodosse. Il Kazakistan, dal canto suo, ama definirsi un Paese eurasiatico, terra d’incontro tra la Russia e il Turkestan e, finché il Paese delle steppe si identificherà come “eurasiatico”, non ci sarà di fatto alcuna contraddizione tra la sua identità nazionale e la sua fedeltà alla Russia.

 

1. M. Laruelle, Russian Eurasianism: an Ideology of Empire, Woodrow Wilson Center Press, Washington DC 2008, p. 177.

2. David Ricardo (1772-1823) è un economista britannico. Il suo nome è legato soprattutto alla teoria dei vantaggi comparati (nota anche come modello ricardiano), secondo cui un Paese tende a specializzarsi nei beni che riesce a produrre in maniera più conveniente rispetto ad altri, e che quindi dimostra la presenza di guadagni complessivi per tutti derivanti dal commercio internazionale.

3. http://www.bnews.kz/ru/news/post/134482/

4. Nel 1996, a poco meno di cinque anni dal crollo dell’Unione Sovietica, entrò in vigore l’Unione Russo-Bielorussa, che tra l’altro portò all’istituzione di un’unione economica (copresenza di un’unione doganale e di un mercato unico di merci, servizi, capitali e manodopera).

5. http://www.world-nuclear.org/info/Nuclear-Fuel-Cycle/Mining-of-Uranium/World-Uranium-Mining-Production/

6. http://www.bnews.kz/ru/news/post/134482/.

7. http://www.russianskz.info/economy/5016-potencial-dlya-vzaimovygodnogo-razvitiya-nashih-ekonomik-dostatochno-velik-za-8-mesyacev-2013-goda-tovarooborot-mezhdu-rossiey-i-kazahstanom-uvelichilsya-na-16-procentov.html

8. http://tengrinews.kz/markets/v-kazahstane-rastet-obrabatyivayuschaya-promyishlennost–227668/

9. http://tengrinews.kz/money/v-kazahstane-iz-za-ts-na-tret-vyiroslo-chislo-rossiyskih-kompaniy-209394/

10. http://tengrinews.kz/money/rossiyskih-biznesmenov-privlekayut-v-kazahstane-nizkie-nalogi-i-loyalnyie-vlasti-230025/

11. Gli investimenti diretti sono le aperture di nuovi stabilimenti all’estero e le acquisizioni e le fusioni di aziende preesistenti.

12. http://tengrinews.kz/money/investitsii-v-kazahstan-ot-rossiyskih-kompaniy-sostavyat-16-milliardov-dollarov-244485/

13. http://tengrinews.kz/kazakhstan_news/120-tyisyach-kazahstanskih-avto-v-god-budut-proizvodit-v-ust-kamenogorske-245229/

14. http://tengrinews.kz/markets/reyting-Doing-Business-kazahstan-podnyalsya-na-50-e-mesto-244468/

15. http://bnews.kz/ru/news/post/134684/

16. http://www.megapolis.kz/art/Boris_ChESNOKOV_prezident

17. http://tengrinews.kz/kazakhstan_news/120-tyisyach-kazahstanskih-avto-v-god-budut-proizvodit-v-ust-kamenogorske-245229/

18. http://tengrinews.kz/private_finance/vvp-kazahstana-s-nachala-goda-vyiros-na-58-protsenta-245496/

19. http://tengrinews.kz/sng/putin-konstatiroval-rost-kazahstanskih-investitsiy-v-rossiyskuyu-ekonomiku-245263/

20. http://rt.com/business/russia-gdp-5th-largest-158/

21. http://www.eastjournal.net/economia-lunione-euroasiatica-pensa-alleuro-perserverare-diabolicum-est-kiev-indugia/23815

22. http://tengrinews.kz/markets/programma-sozdaniya-obschego-ryinka-elektroenergii-eep-byit-podgotovlena-ranshe-230841/

23. http://rusedin.ru/2013/04/12/u-stran-tamozhennogo-soyuza-poyavitsya-edinyj-straxovoj-rynok/

24. http://kapital.kz/gosudarstvo/12620/k-2020-godu-strany-eep-planiruyut-sozdat-edinyj-finrynok.html

25. R. Dragneva e K. Wolczuk, Russia, the Eurasian Customs Union and the EU: Cooperation, Stagnation or Rivalry?, Chatham House, Londra, 2012, pp. 2-7.

26. http://tengrinews.kz/markets/tamojennyiy-soyuz-podderjivayut-bolee-70-protsentov-oproshennyih-kazahstantsev-242267/

27. http://www.russianskz.info/politics/4432-teper-uzhe-oficialno-kazahstanskaya-oppoziciya-ne-sumela-iniciirovat-referendum-o-vyhode-iz-tamozhennogo-soyuza.html

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

PUTIN IN ITALIA: VERTICE ITALO-RUSSO E VISITA UFFICIALE AL PAPA

$
0
0

Il 25 novembre Papa Francesco I riceverà in visita ufficiale il presidente russo Vladimir Putin; una notizia sino ad ora appena accennata ma che riveste un’importanza considerevole.

Alla base del viaggio di Putin nella nostra penisola vi sono ovviamente solidi motivi economici da tutelare al meglio – vale a dire il vertice italo-russo in programma il 26 novembre a Trieste che verterà sui rapporti esistenti fra il nostro Paese ed il gigante eurasiatico – ma non solo. Se è vero che i rapporti di natura affaristica sono quanto mai floridi ed in continua crescita sotto tutti i punti di vista (il volume di interscambio ha raggiunto nel 2011 la cifra di 45,9 miliardi[i] di dollari ponendo l’Italia come quinto partner commerciale al mondo della Federazione Russa), vi sono motivi di più ampio respiro che spingono a puntare i riflettori sulla visita dello statista moscovita e che spiegano anche la decisione intrapresa dal Cremlino e dalla Santa Sede di organizzare un incontro fra i rispettivi capi di stato.

I rapporti fra la Città del Vaticano e la Russia – spesso burrascosi nei secoli per via della rivalità fra cattolicesimo ed ortodossia, poi acuitisi durante l’epoca sovietica e particolarmente con il pontificato del polacco Wojtyla – sono stati ripristinati del tutto solo nel 2009, a seguito di un incontro intercorso fra l’allora presidente Medvedev e Papa Benedetto XVI. Oggi, con la salita al soglio pontificio di Francesco I, pare vi sia l’intenzione da parte dell’attuale Papa di voler andare oltre i meri rapporti di cortesia, tendendo una mano alla Terza Roma ed ai cugini ortodossi. Anch’essi rivelatisi, con la contestuale elezione di Kirill I a Patriarca di tutte le Russie, più aperti verso il papato e meno sospettosi riguardo ai tentativi di proselitismo di cui la Chiesa cattolica è stata spesso accusata da Mosca.

Ciò che però merita di essere evidenziato è l’attuale sintonia che pare essersi delineata nei mesi passati tra Papa Francesco e Vladimir Putin. Una sintonia che ha avuto il suo punto più alto all’indomani dello scongiuramento dell’attacco sulla Siria da parte delle forze francesi ed americane di cui Putin è stato l’artefice, esaudendo così la preghiera contenuta nella lettera[ii] inviatagli da Papa Bergoglio alla vigilia del G20 di San Pietroburgo.

Ma non è stata solo la vicenda siriana ad avvicinare i due capi di Stato; entrambi hanno infatti espresso più volte una certa comunanza di idee in materie sociali ed economiche. Criticando l’affrettato abbandono di valori storici e tradizionali delle nostre società a favore di presunte battaglie di civiltà, ma criticando anche quel liberismo alla base della crisi economica odierna, spesso espressione di un capitalismo selvaggio che travalica leggi e confini al solo scopo di aumentare i profitti di pochi a scapito di molti. Un argomento che sta molto a cuore a Francesco I e che ha subito cercato di affrontare anche all’interno dello Stato Vaticano.

Un ultimo aspetto su cui poi il Papa e Putin hanno fatto convergere opinioni comuni è stato quello riguardante la tutela delle antiche comunità cristiane del Vicino Oriente: oggi esposte più che mai al rischio di attacchi da parte di gruppi fondamentalisti islamici usciti rafforzati dal crollo e dall’indebolimento di alcuni regimi frutto della cosiddetta primavera araba. Il tema è delicato anche per la Russia che da secoli è sensibile alla tutela di queste comunità, essendosi già in passato fatta garante della loro sicurezza. Il suo ruolo attivo e fondamentale nello scongiurare l’aggravarsi e l’estendersi della crisi siriana, ha avuto un impatto decisivo placando allo stesso tempo i timori di Francesco I sulla sorte dei fedeli residenti in quelle terre, i quali rivestono una forte importanza simbolica per l’intero mondo cristiano. Nel fare questo, però, sia Putin che Francesco I sono stati attenti a non offrire il fianco a possibili strumentalizzazioni a movimenti o partiti che desiderassero calcare la mano sulla questione dello scontro di civiltà o l’avversione per l’Islam in quanto tale. Gettando acqua sul fuoco sulle presunte responsabilità della dottrina religiosa musulmana dietro a questi attacchi e cercando invece di attuare quante più misure concrete possibili per intervenire in modo efficace sul problema.

Analizzando gli aspetti elencati e consci che sarebbe inopportuno parlare già di un nuovo asse tra Mosca ed il Vaticano, è certo che questa prima sintonia di intenti può dar vita ad un’importante influenza a livello mondiale da parte di due guide carismatiche e rispettate – seppur agli antipodi per passato e formazione – desiderose di riportare valori fondamentali per l’umanità in cima all’agenda dei governi. Se poi le indiscrezioni circolate – secondo cui sarebbe stato il Cremlino a spingere in maniera particolare per realizzare quest’incontro – fossero vere, testimonierebbero ancora una volta la saggezza e l’intelligenza politica che contraddistinguono Putin, la cui visita nel nostro Paese può solo essere salutata con ammirazione e speranza per il futuro.



[i] Fonte: http://www.ambrussia.com/ambassy_r.aspx?p=2&div=9&lang=2

[ii] http://en.radiovaticana.va/news/2013/09/05/pope_francis_writes_letter_to_president_putin_of_russia_ahead_of_g20/en1-725816

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

IL CAUCASO DOPO LE ELEZIONI GEORGIANE E LA SVOLTA EURASISTA ARMENA

$
0
0

Le elezioni presidenziali georgiane del 27 ottobre 2013 si sono concluse con una larga vittoria di Giorgi Margvelašvili, che con quasi il 63% dei voti ha sconfitto David Bakradze, vicino all’ex Presidente Mikheil Saakašvili, fermo al 22%[1]. Si tratta di un fatto storico, per quanto preannunciato, in quanto chiude definitivamente l’epoca della cosiddetta “Rivoluzione delle Rose”, che nel 2003 depose Eduard Ševardnadze, già Ministro degli Esteri di Gorbačëv, portando alla presidenza il filoccidentale Saakašvili. Quella georgiana appena conclusasi è l’ultima di una serie di tornate elettorali che hanno coinvolto le tre Repubbliche caucasiche ma che, a differenza che in Georgia, hanno visto la riconferma dei vecchi leader. In Armenia, il 18 febbraio 2013, è stato rieletto il presidente uscente Serž Sargsyan e, pochi mesi dopo, la rielezione di Ilham Aliev alla presidenza dell’Azerbaigian è avvenuta senza troppe sorprese. Almeno all’apparenza, quindi, nulla di nuovo sotto il sole, tranne che in Georgia.

Parafrasando Il Gattopardo, però, si può dire che “non cambia niente perché cambi tutto”. Dietro una parvenza di immobilità, infatti, negli ultimi mesi la Transcaucasia ha vissuto eventi che, nei prossimi anni, potrebbero mutarne il profilo geopolitico in modo radicale. Uno è il cambio della guardia in Georgia; l’altro è la recente decisione del presidente armeno Sargsyan di aderire all’Unione Doganale Eurasiatica, rinunciando quindi alla prospettiva di sottoscrivere quell’Accordo di Associazione con l’Unione Europea per cui sembrava ormai essere pronta. La svolta, annunciata il 3 settembre 2013, ha sorpreso non poco gli osservatori europei[2], ma è stata accolta con favore dagli Stati del trio eurasiatico (Russia, Kazakistan e Bielorussia), e l’accordo di adesione verrà stipulato probabilmente già nel maggio dell’anno venturo[3].

La futura adesione di Erevan all’Unione Doganale non è importante tanto dal punto di vista economico (le ricchezze dell’Armenia sono modeste, la sua popolazione esigua e i vantaggi per Bielorussia e Kazakistan del tutto risibili), quanto sotto quello geostrategico. La Russia mantiene buoni rapporti sia con l’Armenia sia con l’Azerbaigian, ma i suoi legami con la prima, grazie anche ai vincoli religioso e civilizzazionale[4], sono di gran lunga più solidi di quelli con il secondo. L’Armenia di fatto considera il Cremlino come una sorta di “grande fratello”, mentre l’Azerbaigian, pur non essendo russofobo, tende a voler mantenere una certa distanza con il vicino russo (notevole è in questo il rifiuto di Baku di entrare nella CISFTA, l’area di libero scambio dei Paesi della CSI[5]). Sulla questione del Nagorno-Karabach[6], poi, la Russia, all’apparenza neutrale, di fatto sostiene Erevan, come dimostrato dalla vendita di massicce quantità di armamenti all’Armenia nel 2008[7] (cosa che, ovviamente, non ha mancato di suscitare qualche mugugno a Baku). Mosca e Erevan, dopotutto, oltre ad una certa affinità culturale, hanno anche interessi strategici convergenti, mentre nei confronti di Baku non si può dire lo stesso: basti pensare alla costruzione degli oleodotti Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) e Baku-Supsa, entrambi finalizzati al trasporto del petrolio azero verso i mercati europei bypassando la Russia (oltre naturalmente all’Armenia).

In Occidente alcuni, come l’eurodeputato britannico Charles Tannock, hanno affermato che la svolta filorussa dell’Armenia è la conseguenza delle “tattiche di bullismo” adottate dalla Russia nei confronti dei suoi vicini[8]. Ma si tratta di una spiegazione parziale, oltre che partigiana. L’Europa, per quanto allettante, è comunque lontana, anche perché, vista l’assenza di confini diretti con l’UE, l’Armenia dovrebbe attendere l’ingresso della vicina Georgia. La quale, a sua volta, prima di poter proseguire con l’integrazione nell’UE e nella NATO dovrebbe risolvere le dispute in Ossezia del Sud e Abchazia. L’Unione Europea, inoltre, ha assunto una posizione ambigua sulla questione del Nagorno-Karabach: da un lato sostiene il diritto all’autodeterminazione degli Armeni della regione, dall’altro riafferma quello all’integrità territoriale dell’Azerbaigian. Un’ambiguità, questa, dettata dal conflitto tra le ragioni ideali dell’autodeterminazione dei popoli di stampo wilsoniano e quelle economico-strategiche che invece suggeriscono di non compromettere i buoni rapporti con l’Azerbaigian per una questione che per Baku ha un forte risvolto emotivo. Ben diverso è invece il discorso per la Russia, che anche grazie alla base militare di Gyumri è oggi il maggior garante della sicurezza dell’Armenia[9]. Ciò ha indubbiamente contribuito in modo significativo a favorirne la svolta eurasiatica, e se è vero che il Cremlino è molto attento nel mantenere buone relazioni con l’Azerbaigian, è anche vero che la maggiore inclinazione di Mosca verso Erevan è dovuta anche a ragioni culturali e religiose. Certamente i rapporti russo-armeni non sono stati privi di divergenze, ma è alquanto difficile che Mosca abbandoni Erevan per schierarsi apertamente dalla parte di Baku: la Russia, dopotutto, non potrà mai sostituirsi alla Turchia nella relazione speciale che quest’ultima ha con l’Azerbaigian.

Tuttavia, per quanto l’interesse di Erevan nei confronti dell’Unione Doganale rappresenti un importante successo geostrategico per quest’ultima (anche dal punto di vista simbolico, visto che si tratta pur sempre di un Paese che volta le spalle all’Europa preferendole l’Eurasia), va anche detto che ciò renderà ancora più lontana la soluzione del conflitto del Nagorno-Karabach. La possibilità che la tregua sancita dall’accordo di Biškek del 1994 si trasformi in una pace duratura è sempre stata remota. I due Paesi, ufficialmente ancora in guerra, rimangono sostanzialmente ancorati alle loro posizioni (l’Azerbaigian giudica inalienabile il diritto alla propria integrità territoriale, mentre per l’Armenia vale lo stesso discorso nei riguardi dei diritti degli Armeni della regione), e il Gruppo di Minsk, un comitato nato in seno all’OSCE per la risoluzione del conflitto, non solo non ha ottenuto alcun successo significativo, ma è stato anche accusato dall’Azerbaigian di essere eccessivamente filoarmeno[10].  L’unico Paese che aveva una qualche possibilità di promuovere una soluzione condivisa, in virtù dei buoni rapporti e della vicinanza ad entrambi, era la Russia. Tuttavia, se l’ingresso dell’Armenia nell’Unione Doganale è una cattiva notizia sul fronte della soluzione del conflitto nel Nagorno-Karabach (e probabilmente causerà un peggioramento dei rapporti del Cremlino con Baku e con Ankara), non lo stesso si può dire sul fronte della soluzione dell’altra grande disputa caucasica, quella russo-georgiana su Ossezia del Sud e Abchazia. La via più breve tra l’Armenia e l’Unione Doganale, infatti, passa attraverso la Georgia, ma i confini russo-georgiani sono attualmente chiusi a causa della guerra. Negli ultimi mesi, tuttavia, sono state diverse le schiarite sul fronte dei rapporti russo-georgiani, e le prospettive di una normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi non sono più così remote. Si tratta di segnali che l’Armenia non può non aver colto, e che sicuramente hanno avuto un ruolo importante nel favorire la svolta eurasiatica di Sargsyan.

I rapporti tra Russia e Georgia rimangono tesi, come dimostrato dal mancato invito della Russia alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Margvelašvili[11], ma i motivi per essere ottimisti non mancano. Se la guerra del 2008 ha segnato il punto più basso delle relazioni russo-georgiane, l’elezione del filorusso Ivanišvili alla Presidenza del Consiglio, avvenuta nel 2012, è stata seguita da alcuni importanti segnali di distensione. Il 4 agosto 2013, a pochi giorni dal quinto anniversario dell’attacco delle forze georgiane all’Ossezia del Sud che funse da casus belli per l’intervento militare russo a sostegno dei separatisti, il portavoce del governo di Tbilisi per la normalizzazione dei rapporti con la Russia Zurab Abašidze, pur ribadendo che la Georgia è stata vittima di un’aggressione, ha riconosciuto che “anche dalla nostra parte sono stati commessi dei passi falsi”[12]. Poche settimane dopo, in un’intervista, il premier Ivanišvili ha persino aperto alla possibilità di un’adesione del suo Paese all’Unione Doganale “se questa si dovesse rivelare un’opzione conveniente”[13]. Ivanišvili ha poi criticato la politica di Saakašvili, rimarcando che “la Georgia è un Paese piccolo e quindi non può avere ambizioni da potenza regionale”, e sottolineato i recenti sviluppi positivi nelle relazioni con il Cremlino, come il ritorno del vino e dell’acqua minerale georgiani (tra cui la popolare Borjomi) sui mercati russi, auspicando infine una soluzione della crisi in Ossezia del Sud e Abchazia[14]. E la normalizzazione dei rapporti con la Russia, pur senza rinunciare alla prospettiva europea, è una delle maggiori priorità di Margvelašvili, che in una recente intervista all’emittente televisiva russa Pervyj Kanal ha annunciato una sua possibile visita in Russia in occasione delle ormai imminenti Olimpiadi Invernali di Soči[15]. Si tratta di segnali che, ovviamente, hanno incontrato il plauso della Russia.

E’però possibile un ritorno della Georgia nell’orbita russo-eurasiatica? Se è vero che le relazioni russo-georgiane hanno toccato il loro punto più basso durante l’epoca Saakašvili, va anche detto che tra la Russia e la Georgia non sono mai mancati i motivi di tensione. A livello culturale i due Paesi sono tutt’altro che privi di punti in comune e di motivi di convergenza. Entrambi, infatti, sono Paesi ortodossi, la convivenza tra Russi e Georgiani è sempre stata molto buona, e nella maggior parte dei matrimoni misti tra Georgiani e non-Georgiani, senza particolari differenze tra maschi e femmine, uno dei due sposi è russo[16]. La dominazione russa in Georgia non è iniziata tramite conquista, ma con la richiesta ai Russi di protezione contro l’Impero Ottomano da parte di re Giorgio XII nel 1801[17], e durante l’epoca sovietica non mancarono i Georgiani che fecero carriera negli organi centrali del Partito Comunista, talora scrivendo alcuni capitoli importanti della sua storia (basti pensare al precedentemente menzionato Eduard Ševardnadze, uno dei massimi protagonisti della fine della Guerra Fredda, oltre ovviamente a Stalin). Le premesse per instaurare buoni rapporti, quindi, ci sono tutte.

A favorire l’insorgere di tensioni, però, è stata la geopolitica. La Georgia è un Paese piuttosto povero, privo di grandi risorse naturali se si esclude l’agricoltura, ma il suo petrolio è la sua posizione geografica tra l’Azerbaigian, e quindi i giacimenti di idrocarburi del Mar Caspio (e da lì, in prospettiva, l’Asia Centrale e persino la Cina) e la Turchia e quindi l’Europa. Viste l’assenza di confini diretti tra Azerbaigian e Turchia e le tensioni di ambo i Paesi con l’Armenia, tutto il traffico tra questi due Paesi deve essere obbligatoriamente dirottato attraverso Tbilisi se si vuole bypassare l’Iran. Oltre ai già menzionati oleodotti BTC e Baku-Supsa, dal Paese transita anche il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum, prima sezione di quello che avrebbe dovuto essere il Nabucco (in seguito disdetto e sostituito dal più modesto TAP), mentre è in progetto l’interconnettore Azerbaigian-Georgia-Romania (AGRI), per mezzo del quale il metano viene trasportato allo stato gassoso fino in Georgia, dove viene liquefatto e trasportato su gassiere fino a Costanza, in Romania, per poi essere nuovamente rigassificato[18]. Si tratta di importanti fonti di introiti per la Georgia: basti pensare che i diritti di transito per il solo BTC ammontano a più di 60 milioni di dollari annui[19]. Attraverso il Paese caucasico passano anche le direttrici di trasporto stradale e ferroviario previste dal programma TRACECA, che consentiranno di collegare l’Europa con la Cina e il Centrasia evitando Russia e Iran, mentre meno interessante, almeno al momento, è la prospettiva di diventare un ponte tra la Russia e la Turchia o (attraverso l’Armenia o l’Azerbaigian) tra la Russia e l’Iran e l’Asia Meridionale. Gli interessi strategici russi e georgiani sono quindi divergenti, e l’affermazione di un diplomatico georgiano secondo cui “una politica indipendente, per noi, è inevitabilmente una politica antirussa”[20] è tutt’altro che priva di fondamenti.

Tutto ciò spiega, tra l’altro, il sostegno russo agli indipendentisti osseti e abcasi, tradottosi nel 2008 nell’intervento militare al loro fianco e nel riconoscimento dell’indipendenza dei due Paesi. La Georgia, d’altro canto, ha goduto sin da subito del sostegno dell’Occidente, che ha condannato in maniera praticamente unanime l’intervento russo. Per aiutare la Georgia, poi, nel 2012 gli Stati Uniti sono giunti a proporre la stipula di un accordo di libero scambio col Paese caucasico[21]. Non si tratta, chiaramente, di un sostegno disinteressato: se gli Stati Uniti puntano a tenere fuori la Russia dalla Transcaucasia e a separarla da Teheran, sostenendo la Georgia nelle sue iniziative e promettendole l’adesione alla NATO, la Russia, che vede questa prospettiva con il fumo negli occhi, foraggia Ossezia del Sud e Abchazia, consapevole che finché la situazione in queste regioni non sarà risolta la Georgia rimarrà fuori dall’Alleanza Atlantica. Lanciare accuse di ipocrisia è fin troppo facile, ma questo è il Caucaso, e, se si escludono quelle tra Russia e Armenia e tra Turchia e Azerbaigian, quasi tutte le principali alleanze nella regione sono di fatto matrimoni d’interesse.

Ma è proprio il fatto che al Cremlino non interessano tanto l’Ossezia o l’Abchazia in quanto tali, bensì avere alleati nella regione e tenere lontano l’Occidente, che rende possibile, anche se difficile, un compromesso. E, vista la variabilità delle alleanze nel Caucaso, non è impossibile che, per una Georgia filorussa e magari membro dell’Unione Doganale, la Russia sia disposta anche a sacrificare l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abchazia accettandone il ritorno nello Stato georgiano come Repubbliche Autonome. Già nei primi anni Novanta, dopotutto, la Russia è passata da una politica antigeorgiana all’intervento militare a sostegno dell’allora presidente Ševardnadze in cambio della concessione di alcune basi militari e dell’adesione della Georgia alla CSI[22]. D’altro canto anche Margvelašvili si è dichiarato disponibile a un compromesso con la Russia sulla questione, pur mantenendosi fedele alla linea del non riconoscimento dell’indipendenza di Ossezia del Sud e Abchazia[23]. La Georgia, dopotutto, per quanto possa essere sostenuta dall’Occidente, difficilmente può rinunciare all’alleanza con Mosca. Inoltre, per quanto si è spesso detto (e non sempre a torto) che la Russia mirava – e mira – a mantenere debole Tbilisi, va anche detto che, per la Russia, una Georgia debole è persino più pericolosa di una Georgia forte e indipendente. Il Caucaso è pur sempre una regione tradizionalmente turbolenta, e subito a nord della Georgia vivono una serie di popolazioni spesso sul piede di guerra contro Mosca o contro i loro vicini. Nei primi anni Duemila la Valle del Pankisi, praticamente off-limits per l’esercito georgiano, offriva riparo a numerosi guerriglieri ceceni in ricognizione[24]. Ora sia in Cecenia sia nel Pankisi è stato riportato l’ordine, almeno all’apparenza, ma in altre Repubbliche, come il Cabardino-Balcaria, la situazione è peggiorata. Per quanto in Georgia la presenza islamica sia limitata, i rischi non mancano, e questi provengono soprattutto dalle infiltrazioni dei fondamentalisti e dei nazionalisti della parte nord del Caucaso: basti pensare che, nei primi anni Novanta, diversi guerriglieri ceceni, tra cui il defunto leader islamista Šamil Basaev, combattevano a fianco degli Abcazi[25]. Difficile dire se il nuovo presidente riuscirà a ricreare buoni rapporti con la Russia, ma di sicuro sul tema della sicurezza potrà trovare un terreno d’incontro con il Cremlino.




[4] La stragrande maggioranza della popolazione armena appartiene alla Chiesa Apostolica Armena, una delle quattro Chiese Ortodosse Orientali (le altre sono quelle siriaca, etiopica e copta). Pur essendoci notevoli differenze tra la Chiesa armena e la Chiesa Ortodossa propriamente detta, essendo la prima nata da uno scisma consumatosi definitivamente nel VI secolo d.C., la Russia ha svolto nei confronti del popolo armeno, a lungo suddito dell’Impero Ottomano, una funzione di protettore simile a quella esercitata nei confronti dei popoli slavi e ortodossi balcanici. Il celebre politologo statunitense Samuel Huntington, nella sua mappa delle civiltà, include l’Armenia nel novero dei Paesi ortodossi (cfr. S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 2000, pp. 22-23).

[6] Il Nagorno-Karabach è una regione popolata prevalentemente da Armeni, ma assegnata da Stalin all’Azerbaigian per ragioni di diplomazia internazionale. Teatro di forti tensioni irredentiste nella fase finale dell’Unione Sovietica, che scatenarono forti pogrom antiarmeni a Baku e nelle altre città azere che ospitavano comunità armene, a seguito del crollo della stessa queste tensioni sfociarono in una guerra tra Azerbaigian e Armenia per il controllo della regione. La guerra è terminata nel 1994 con la vittoria di quest’ultima, che ha instaurato nel territorio la Repubblica del Nagorno-Karabach; la sua indipendenza, però, non è riconosciuta a livello internazionale e il territorio del Paese è tuttora rivendicato dall’Azerbaigian.

[17] S.P. Huntington, Op. cit., p. 209.

[20] L. Kleveman, The New Great Game, Atlantic Monthly Press, New York 2003, p. 32.

[22] S.P. Huntington, Op. cit., p. 238.

[24] L. Kleveman, Op. cit., pp. 34-35.

[25] Ivi, p. 34.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

IL RISVEGLIO DELLA MITTELEUROPA: IL CASO MAGIARO ED IL GRUPPO DI VISEGRÁD

$
0
0

In Europa si continua a parlare di spending review, spread ed elezioni primaverili, eppure c’è, fra i ventotto membri dell’Unione, un paese che potrebbe sorprenderci tutti.
La rinascita economica ungherese nell’ottica del rafforzamento dell’alleanza centro – orientale. 
   
 
 

È fatto ormai assodato che la vita economico – finanziaria europea volga sempre più spesso il suo sguardo verso il quadrante orientale del proprio continente, instaurando relazioni indubbiamente fruttuose con quegli stati, come Polonia e Croazia, che, da quasi un decennio, scalpitano furiosamente per entrare nel novero delle grandi economie dell’Unione.
A sorprendere osservatori ed analisti, però, con i suoi grandi progressi e la capacità d’attrarre ingenti capitali stranieri, non è stato un paese “amico” come uno fra quelli appena citati, ma la “nemica” Ungheria, spesso al centro di polemiche e battaglie in seno all’Assemblea di Bruxelles in merito ad accuse su metodi sbrigativi ed autoritari del suo governo, solido nelle mani di Viktor Orbán, personaggio che più volte ha fatto scalmanare politici ed opinione pubblica occidentali per alcuni progetti di legge (poi approvati all’Országház) ritenuti anti–liberali e anti–democratici, oltre che per le sue prese di posizione spesso bollate dalla stampa come “nazionaliste” e “euroscettiche”.
Al centro della rinascita economica ungherese giace la cosiddetta “new innovation strategy” teorizzata da Zoltàn Csefalvay, attuale Ministro dell’Economia, la cui ricetta, sostanzialmente, punta ad attirare le eccellenze dell’industria europea (da quella automobilistica a quella elettronica, passando per importanti settori come quelli legati al mondo della ricerca e dello sviluppo scientifico), al fine di creare quella tanto agognata classe media magiara (borghese e nazionale) in grado di trasformare un paese, di fatto in via di sviluppo, in una autentica potenza regionale.
 
 

Alcuni dati 
 
La recente apertura, ad esempio, del Centro CERN a Budapest (il cui data center, capace di trasferire dati alla sorprendente velocità di 100 gigabit al secondo, ha battuto la concorrenza di ben 16 candidati in altri 9 paesi membri) non costituisce che l’ultima vittoria della volontà, più volte espressa dallo stesso Orban, d’implementare vasti settori dell’elettronica nazionale e del settore Research and Development; una vittoria ancor più brillante, questa, se si pensa che, proprio in quei giorni, la Commissione Europea ha ritirato la procedura d’infrazione contro Budapest per disavanzo e debito sovrano, sceso nel 2013 al 2.7% e stimato, nel 2014, al 2.2%, ben al di sotto, per dirne uno, del disavanzo pubblico francese, in rialzo al 4.8%.
Che qualcosa si stia ridestando, nelle verdi pianure danubiane, è un dato certo; non deve sorprendere, pertanto, se Audi, colosso dell’industria automobilistica mondiale di stanza ad Ingolstadt, abbia deciso di investire oltre 900 milioni di euro nel suo nuovissimo stabilimento a Gyoer, a metà strada fra la capitale ungherese e Vienna, dove si conta di produrre oltre 125mila nuovissime A3 entro la fine dell’anno.
Stesso discorso, poi, può esser fatto per la Mercedes – Benz, che ha da poco aperto un suo nuovo impianto industriale a Kecskémet, ad appena novanta chilometri a sud di Budapest, destinandolo alla produzione della sua Classe A (cosa che, di conseguenza, ha portato alla creazione, su suolo ungherese, di parallele piccole industrie in grado di produrre materiali d’alta tecnologia e d’elettronica avanzata).
Gli esempi potrebbero andare avanti ancora a lungo, spaziando dagli investimenti qualificati di Nokia ed IBM a quelli effettuati da Sanofi e Tata, ma non è certo questa la sede per una simile, vasta, disamina; preme, però, evidenziare, ai fini dell’analisi, quali siano quei fattori che, per disponibilità e costi, si presentano come carte vincenti della rinascita, non solo economica, ma nazionale, ungherese.
Impossibile, in questo caso, non sottolineare l’importanza della posizione geografica dell’Ungheria rispetto al quadrante europeo: arroccata nel cuore di una regione capace di fungere da ponte ideale fra le emergenti nazioni dell’ex blocco orientale e i moderni paesi del settore occidentale, l’Ungheria, difatti, può vantare una posizione di certo invidiabile, ma che appare ancor più vantaggiosa se messa in relazione alla moderna rete infrastrutturale di cui è dotata, capace di collegarla, in breve tempo, alla colonna portante dell’economia europea: la Germania.
Si aggiungano, a questi due fattori, quello della manodopera a prezzi stracciati (il salario medio ungherese è, secondo dati ormai noti, pari ad un terzo di quello polacco) e quello dell’elevata preparazione accademica, in grado di produrre quadri direttivi competitivi e acculturati, ed ecco svelato il mistero.
Conseguenza di una simile combinazione è l’aumento, solo nel primo trimestre del 2013, dello 0.7% del PIL nazionale.
Un risultato di certo incoraggiante, per le autorità centrali.
 
 
Prospettive
 
A questo punto, sembra piuttosto evidente quanto, nei prossimi tempi, possano diventare sottili gli equilibri di forza all’interno dello scenario europeo.
Due, al riguardo, sono gli spunti d’analisi forniti da un simile contesto: il primo è squisitamente geoeconomico, mentre il secondo è di tipo geopolitico.
Per quanto riguarda la prima questione, parlare di “resurrezione” non solo dell’Ungheria, ma dell’intera Europa danubiana, quella definita nel 2010, dalle Nazioni Unite, come «un Occidente abbandonato, o un luogo in cui Est ed Ovest collidono» non sembra più essere inappropriato.
Gli stessi, recenti, successi economici slovacchi, cechi e polacchi, oltre che ungheresi, smentiscono ampiamente le tesi dei molti che, nonostante tutto, rimangono ancorati ad una rigida ripartizione fra Ovest – sviluppato / Est – retrogrado.
Il risveglio della Mitteleuropa è ormai sotto gli occhi di tutti e le conseguenze di questa “improvvisa” presa di coscienza graveranno proprio sui paesi dell’area meridionale del continente europeo, come Italia e Spagna, in primis, definitivamente tagliati fuori dai giochi decisionali dell’asse franco–tedesco–danubiano.
Se, un tempo, poteva parlarsi di Europa a due motori, dunque, è forse giunto il momento di aggiornare questo concetto ormai superato e parlare di “Europa a tre motori”: quello meridionale, in affanno e bloccato, nel suo stesso potenziale, da un’evidente incapacità sistemica; quello occidentale, ancora dominante, ma sempre più bisognoso, in ogni sua forma, del suo vicino orientale e, per l’appunto, il motore danubiano, impaziente di portare a termine quel risveglio strategico in atto ormai da un decennio.
Proprio il collegamento con Berlino, pertanto, che vede nell’area centro–orientale europea la sua naturale zona d’influenza, appare fondamentale, ma altrettanto fondamentale sarà il ruolo giocato dal Gruppo di Visegrád, l’alleanza informale fra Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria in grado di riunire gli stati ex – sovietici economicamente più prosperi, formatasi negli anni ’90 e rafforzatasi, nel 1999, con l’istituzione del  Fondo d’Investimento Internazionale di Visegrád, cuore pulsante dell’integrazione e della cooperazione mitteleuropea.
A questo fattore, si collega il secondo punto dell’analisi, quello riguardante la dimensione geopolitica dell’intera questione.
Ad inizio 2013, infatti, il portavoce del Ministero della Difesa polacco, Jacek Sonta, ha avanzato, al tavolo del summit convocato formalmente in vista del Consiglio Europeo che si terrà – con molta probabilità – a dicembre e dedicato al tema della difesa e sviluppo delle capacità militari europee, la proposta che il Gruppo di Visegrád si doti, entro il 2016, di una vera e propria unità da combattimento, già nominata V4 EU BG (European Union Battlegroup) da inserire nel quadro della difesa comune dell’Unione stessa (un’unità, questa, che potrà essere utilizzata anche al di fuori dei confini europei, per missioni di vario tipo, dal peacekeeping alla gestione di crisi umanitarie).
Alla testa di questa coalizione, proprio la Polonia, autentico leader militare regionale (dotatasi, nel frattempo, di un’aviazione d’ultima generazione), e l’Ungheria, la cui moderna ed agile Magyar Honvedség ha già avuto modo di mostrare all’estero le sue molte qualità.
Stratfor, centro studi strategico situato ad Austin, Texas, e guidato da George Friedman, celebre politologo statunitense d’origine ungherese, ha già avuto modo di sostenere che questa decisione sia stata determinata «dalla mutazione dell’assetto geopolitico dell’Europa centro-orientale risalente all’inizio degli anni Novanta, ma soprattutto dal rinato attivismo internazionale della Russia nelle sua vecchia area di influenza, culminato con la guerra in Georgia del 2008 (1) », un conflitto spesso dimenticato dall’opinione pubblica occidentale, ma che è stato capace di mettere in crisi l’intero assetto NATO e la sua relativa partnership con diversi paesi dell’ex blocco sovietico.
 
 
Conclusioni    
 
La Mitteleuropa, insomma, ha ormai preso consapevolezza delle proprie capacità; molte decisioni di politica estera dei suoi esponenti più noti, non ultima la già citata militarizzazione del Gruppo di Visegrád, appaiono non più come azioni avventate, ma come il frutto di una profonda riflessione, maturata proprio in questi ultimi anni di dissesto economico – finanziario, e la cui conclusione è che il destino, non solo economico, ma politico, dell’Europa centro – orientale non sia più legato a doppio filo alle sorti dell’Unione Europea.
Una conclusione, questa, che non può che spaventare la Francia, la cui leadership è in lento declino, e la Germania, la quale tenta, in ogni occasione, di ricompattare il blocco di Visegrád proprio attorno alla centralità della Bundesrepublik all’interno dell’arena decisionale di Bruxelles.
“L’Europa slitta ad est”, verrebbe quasi voglia di affermare, e non è detto che questo lento scivolamento verso oriente non modifichi le capacità contrattuali in seno all’assemblea legislativa dell’Unione Europea, dove molti suoi stati membri appaiono sempre più stanchi e incapaci di portare avanti qualsivoglia questione, poiché sempre più frammentate da pesanti crisi interne, politiche sì, ma soprattutto istituzionali.

 
 

* Stefano Ricci è Dottore in Scienza della Politica presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”; collabora con diverse testate giornalistiche.    


1)http://www.contropiano.org/news-politica/item/15019

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’ETERNITÀ DI ROMA NELLA VICENDA STORICA RUSSA

$
0
0

L’ascesa al potere di Vladimir Putin, nel 1999, ha segnato la fine di un’epoca nella millenaria storia della Russia. Dopo un decennio di caos, che era arrivato a minacciare l’esistenza stessa del paese più grande del mondo, Mosca intraprendeva un percorso volto a riaffermare la propria potenza in Eurasia, sotto la guida di un governo forte ed autorevole, che riaccendeva la fiamma dell’orgoglio russo integrando il patriottismo sovietico con gli elementi imperiali propri dell’epoca zarista. Tra i miti destinati a riemergere dal torpore del periodo eltsiniano il più importante era quello di Mosca Terza Roma, che vedeva nella Moscovia, ed in seguito nella Russia, l’erede di Bisanzio, a sua volta sostituitasi a Roma nel momento in cui, nel 476, l’Impero Romano d’Occidente era caduto in mano ai barbari. Ma quale verità si cela dietro il mito delle tre Rome? Su quali fondamenti legali poggia la plurisecolare idea, che accompagnò i monarchi russi a partire da Ivan III, secondo cui la Russia è la legittima erede dell’Impero Romano? E fino a che punto tale idea, che fa del Cristianesimo l’elemento cardine della translatio imperii, è riuscita a sopravvivere indenne all’ateismo di stato sovietico? Per rispondere a tali interrogativi sarà necessario fare un breve excursus della storia romana, per poi affrontare la questione della romanità della Russia.

Secondo la tradizione, Roma venne fondata nel 753 a.C. da Romolo, a cui Virgilio, nell’Eneide, avrebbe in seguito attribuito un’origine troiana facendolo discendere da Enea. Dopo l’età regia, che caratterizzò la prima fase della storia di Roma, nel 509 a.C. nacque la Repubblica, che sarebbe durata fino al 27 a.C, quando il conferimento del titolo di Augustus ad Ottaviano da parte del Senato avrebbe segnato l’inizio formale dell’età imperiale avviata dalle conquiste di Cesare. Nel 116, con la conquista di Susa da parte di Traiano, l’Impero Romano raggiunse la sua massima estensione, esercitando la sua sovranità su una superficie di sei milioni e mezzo di chilometri quadrati compresa tra l’oceano Atlantico ad ovest ed il mar Caspio, l’oceano Indiano ed il Mar Rosso ad est. A quel tempo Roma era ancora politeista e, in quanto tale, anticristiana e lo sarebbe rimasta per altri due secoli, fino a quando l’Editto di Serdica del 311 ed il più celebre Editto di Costantino del 313 non avrebbero segnato la fine delle persecuzioni contro i cristiani, riconoscendo al Cristianesimo la parità con gli altri culti dell’impero. Era il riconoscimento di un processo di cristianizzazione già in atto, destinato a fondere l’idea dell’eternità di Roma con l’universalità del messaggio cristiano, un processo che in seguito, in epoca bizantina, avrebbe portato all’identificazione dei romani con l’ecumene cristiana. Tale equazione, romano per  cristiano, sarebbe stata così naturale da essere recepita anche da forze esterne e talvolta ostili all’impero, qual è il caso dei persiani e dei turchi, selgiuchidi prima e ottomani poi, che avrebbero continuato a designare con il nome di Rum, cioè di romani, tutte le popolazioni cristiane dell’Anatolia e dei Balcani da essi soggiogate a partire dalla metà dell’XI secolo.

Culto predominante dell’impero, il Cristianesimo ne divenne la religione ufficiale nel 380 con Teodosio, alla cui morte gli immensi territori su cui egli aveva governato vennero divisi tra i suoi due figli, Arcadio e Onorio. Al primo, il maggiore, venne assegnato il governo della parte orientale dell’impero, indubbiamente la più importante, mentre a Onorio spettò la parte occidentale. Sebbene la divisione dovesse rivestire un carattere squisitamente amministrativo, volto a rendere più efficace la difesa dell’impero dalle sempre più frequenti incursioni barbare, le due entità andarono presto a configurarsi come organismi statali autonomi. Tuttavia, quando nel 476 il re degli Eruli Odoacre depose l’ultimo imperatore d’occidente, Romolo Augusto, ne rimise le insegne all’imperatore d’oriente Zenone, segno del fatto che l’unità dell’impero non era venuta meno: quello che in seguito sarebbe stato denominato come Impero Bizantino non era altro che l’Impero Romano, privato dei suoi territori occidentali. Non a caso, alcuni anni più tardi, l’imperatore d’oriente Giustiniano I sarebbe stato il promotore della restauratio imperii, un progetto volto a ricostituire l’unità dell’Impero Romano mediante la riconquista dei territori persi ad occidente. Nonostante l’ambizione di un tale disegno, che non a caso si sarebbe rivelato irrealizzabile, Giustiniano riuscì ad ottenere una serie di vittorie che portarono alla temporanea riconquista dell’Italia e di importanti regioni nei Balcani, nella penisola iberica e in Nord Africa, facendo guadagnare al sovrano l’appellativo di “Grande”. Senza dubbio il più importante imperatore bizantino, Giustiniano fu anche l’ultimo monarca d’oriente educato nel seno di una famiglia di lingua e cultura latine, rientrando a pieno titolo nel novero dei più grandi imperatori romani di tutti i tempi.

D’altra parte, la stessa designazione dell’Impero Romano d’Oriente come bizantino è un’idea retrospettiva, formulata nel 1557 dallo storico tedesco Hieronymus Wolf nel suo Corpus Historiæ Byzantinæ e diffusasi in Europa nel XIX secolo, con l’indipendenza della Grecia. La scelta di conferire all’Impero Romano d’Oriente un’alterità rispetto all’Impero Romano (che ne rimase la denominazione ufficiale anche dopo il 476) ha in realtà profonde ragioni di carattere storico-politico, rintracciabili nel processo di germanizzazione dei territori appartenuti all’Impero Romano d’Occidente. Decise a rafforzare l’indipendenza dei regni sorti nella parte occidentale dell’impero, le popolazioni barbariche assimilatesi ai romani cercarono di enfatizzarne le differenze rispetto ai loro ex-concittadini orientali: era l’inizio di quella rivalità tra l’Occidente romano-germanico e l’Oriente greco-romano che, in seguito al Grande Scisma del 1054 e alla distruzione di Costantinopoli nel corso della IV Crociata, avrebbe fatto del Cattolicesimo e dell’Ortodossia gli strumenti ideologici di uno scontro geopolitico tutt’oggi in atto, anche se con modalità e attori diversi. Senza voler entrare in questa sede nel merito della discussione teologica relativa al Filioque, un’aggiunta al testo del Credo costantino-niceno che costituirà la ragione formale dello scisma, va tuttavia segnalato che, dopo una strenua resistenza da parte della Chiesa romana, questa innovazione verrà introdotta soltanto nel 1014 da un papa, Benedetto VIII, che doveva la sua restaurazione al soglio pontificio ad Enrico IV di Baviera. Quest’ultimo, incoronato dallo stesso Benedetto VIII imperatore del Sacro Romano Impero con il nome di Enrico II, ne avrebbe portato avanti la politica germanocentrica che, sin dalla sua fondazione, nell’800, per opera del Re dei Franchi Carlo Magno, ne aveva caratterizzato l’azione; un germanocentrismo destinato ad esprimersi, politicamente, in una politica antibizantina e, dunque, antiromana, che avrebbe caratterizzato la storia dell’Europa occidentale nei secoli a venire.

Constatata la sostanziale identità tra l’Impero Romano e quello bizantino, passiamo ora ad analizzare l’unica, vera translatio imperii della storia romana: il passaggio dalla Seconda alla Terza Roma, da Costantinopoli a Mosca. Il 29 maggio 1453, al termine di un assedio durato tre mesi, le truppe del sultano turco ottomano Maometto II conquistano Costantinopoli, ponendo fine alla parabola millenaria dell’Impero Romano d’Oriente. Demetrio e Tommaso Paleologo, figli del defunto imperatore Costantino XI, riparano nel despotato di Morea. Quando, nel 1460, anche quest’ultimo baluardo di civiltà romana si appresta a cadere sotto i colpi delle vittoriose armate ottomane, Demetrio fugge cercando riparo presso il sultano, mentre Tommaso e i suoi figli, tra i quali Zoe, andranno alla volta di Roma, passando per Modone e Corfù. E sarà proprio Zoe Paleologa, in qualità di figlia del legittimo pretendente al trono di Bisanzio, a mantenere in vita la dinastia dei Cesari allorquando, nel 1472, andrà in sposa al principe di Mosca Ivan III. Da quel momento, la Moscovia sarà la Terza Roma e i suoi sovrani potranno legittimamente fregiarsi del titolo di zar, abbreviazione del latino caesar. «Due Rome sono cadute, la terza resta e una quarta non ci sarà». Con queste parole, nel XVI secolo, lo starec Filofej di Pskov esprimerà l’idea dell’eternità di Roma, già preannunciata da Giove e Venere nell’Eneide: «A Roma non pongo io termine o fine: / Ché fia del mondo imperatrice eterna». Nei secoli successivi, lo spirito di conquista proprio dell’Impero Romano avrà modo di esplicarsi nelle decine di campagne militari che i sovrani russi, liberatisi dal giogo tartaro anche in virtù dell’eredità romana di cui si sentivano depositari, avrebbero portato a termine, creando un impero di ventidue milioni di chilometri quadrati esteso dalla Polonia all’Alaska. Per quasi mezzo millennio l’autocrazia zarista, con le sue conquiste, le sue meraviglie architettoniche e gli sfarzi della sua corte, avrebbe fatto rivivere i fasti dell’Antica Roma nel cuore dell’Eurasia, diffondendo la cultura greco-romana tra le popolazioni della steppa.

Le due rivoluzioni del 1917, che porteranno all’abrogazione della monarchia e all’avvento di un regime marxista-leninista, sembreranno infliggere un colpo mortale allo spirito imperiale russo, sostituito dall’internazionalismo comunista. Tuttavia, l’ascesa al potere di Stalin imporrà ben presto una svolta patriottica al neonato stato sovietico, destinata a consolidarsi nel corso della seconda guerra mondiale. Nell’autunno del 1941, alla vigilia della Battaglia di Mosca, il dittatore georgiano ordina che l’Icona della Madre di Dio di Vladimir venga caricata su di un aereo e fatta sorvolare per tre volte sulla città affinché la salvi dall’attacco tedesco: è il segnale, a cui farà seguito la riabilitazione ufficiale della Chiesa Ortodossa, che la Terza Roma è risorta.

Oggi l’Unione Sovietica non esiste più, ma la Federazione Russa, che ne ha ereditato il ruolo internazionale, si sta prepotentemente affermando come potenza antagonista all’Occidente, di cui contesta non soltanto le ambizioni geopolitiche ma anche molti dei valori fondanti, ritenuti in contrasto con la sua specificità storica. Da centro mondiale del comunismo, Mosca è tornata ad essere il centro mondiale dell’Ortodossia, protetta dal potere politico come in epoca zarista e ancor prima bizantina, quando il basileus era il protettore dei romani, ovvero dei cristiani di tutto il mondo. Un ritorno alla tradizione romana, quello della Russia, espresso simbolicamente dall’aquila bicipite che dal centro del tricolore russo sventola sul Cremlino. E chissà che il suo attuale inquilino, da molti salutato come un nuovo zar, non sia veramente un uomo della provvidenza venuto a realizzare la profezia di Giove, Venere e Filofej.

 

* Giovanni Valvo è un analista geopolitico indipendente specializzato in questioni eurasiatiche.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

INTERVISTA SULLA SITUAZIONE IN KOSOVO E METOHIJA A SLOBODAN ERITZ

$
0
0

A cura di Andrea Turi

 

Prima di tutto Le chiedo un parere personale: le elezioni locali del 3 novembre scorso sono andate come previsto alla vigilia? Sono da considerarsi come un successo o una sconfitta?

Dal punto di vista della sovranità serba, le elezioni che si sono svolte nella provincia meridionale serba del Kosovo e Metohija, 3 novembre, sono state perse.

La sconfitta non risulta dal risultato delle elezioni, ma dalla decisione del Governo della Serbia di invitare i serbi del Kosovo a partecipare alle elezioni organizzate dal Governo separatista di Pristina.

I serbi del nord del Kosovo, nonostante le forti pressioni ricevute da Belgrado, hanno boicottato le elezioni: al primo turno ha votato circa il 5%, e al secondo, dopo una feroce pressione politica e mediatica, meno del 20%. I serbi del nord del Kosovo considerano queste “chiamate”, questi inviti delle autorità di Serbia, in realtà, come costrizioni a vivere in una auto-proclamata “Repubblica del Kosovo”, che non riconoscono.

Il punto è che dopo i bombardamenti NATO sulla Serbia nel 1999 e la presenza militare nordatlantica in Kosovo, c’è una sorta di doppia regola.  I Serbi in Kosovo non hanno riconosciuto l’autorità del Primo Ministro albanese Hashim Thaci, sono andati alle scuole serbe, sono stati curati in ospedali serbi, hanno utilizzato la moneta serba, le istituzioni avevano bandiere serbe, rispettavano le leggi della Serbia. Dopo la proclamazione dell’indipendenza, nel 2007, il Governo di Pristina, nonostante il massiccio sostegno dell’UE e della NATO, non è riuscito a entrare in Kosovo settentrionale e a stabilire il controllo su tutto il territorio. Sul ponte di Kosovska Mitrovica che divide la Serbia e la parte albanese della città hanno attaccato uno striscione “No Passaran“. Dal momento che la sovranità di Pristina è solo sulla carta, l’America e l’Unione europea hanno messo sotto intensa pressione Belgrado per aiutarla a rompere la resistenza dei serbi nel Kosovo settentrionale che si oppongono all’integrazione sotto l’autorità di Pristina.

A questo punto, a Bruxelles pochi mesi fa, con il supporto di Catherine Ashton, è stato firmato l’accordo tra Belgrado e Pristina dove la Serbia effettivamente ha convenuto che i serbi abbiano un qualche tipo di autonomia  locale e territoriale all’interno del Kosovo. La firma dell’accordo a Bruxelles ha scatenato una feroce resistenza dell’opinione pubblica in Serbia, in quanto questo costituisce una grave violazione della Costituzione della Serbia.

Le forze occidentali sanno molto bene che a causa dell’atteggiamento emotivo dei serbi, i politici di Belgrado non devono mai riconoscere pubblicamente il Kosovo come uno Stato indipendente, e quindi tendono a esercitare pressioni sul governo serbo per la firma di vari accordi con gli albanesi, in modo che Belgrado riconosca Pristina indirettamente come partner.

 

 

Le elezioni sono state importanti sia per la scena politica interna del Kosovo che per lo sviluppo delle relazioni tra Belgrado e Pristina.

Cominciamo parlando della scena politica locale. Le elezioni sono state un test importante per la valutazione dei rapporti di forza tra le parti. Chi è il vincitore? Chi è il perdente? I risultati delle elezioni avranno un impatto sul Governo di Pristina?

Ho già detto che i serbi del Kosovo settentrionale hanno boicottato le elezioni. Essi, così come la maggior parte dell’opinione pubblica in Serbia, che considera il Kosovo come territorio occupato, in sostanza, non sono interessati alle relazioni all’interno del blocco politico albanese e il processo elettorale organizzato da Pristina con l’aiuto dell’Occidente.

Tra i serbi che vivono nelle località a sud del fiume Ibar in enclaves sparse sul territorio del Kosovo (Gracanica, Shtrpce, Kosovsko Pomoravlje, Velika Hoca, Orahovac, Goraždevac), che sono circondati da albanesi e che sono in una situazione geopolitica ed economica molto più difficile dei serbi che vivono nel nord Kosovo e che territorialmente si basano sullo Stato della Serbia, l’affluenza ha registrato un numero molto maggiore in queste elezioni così come annunciato dal Governo di Pristina.

Nelle enclaves serbe ha vinto la lista “Sprska”, sostenuta ufficialmente da Belgrado.

Per quanto riguarda il blocco politico albanese, invece, il maggior numero di voti è stato registrato  dal Partito Democratico del Kosovo (PDK) del premier Hashim Thaci. Rispetto alle precedenti elezioni, il partito di Thaci, però, ha visto un calo notevole. Al secondo posto, con una piccola differenza,  l’Alleanza democratica del Kosovo (LDK) di Isa Mustafa, mentre la terza forza è l’Alleanza per il Futuro del Kosovo (AAK) guidato da Ramush Haradinaj. È interessante notare che il ministro Hashim Thaci e Ramush Haradinaj sono stati i leader dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (KLA). Un report speciale del Consiglio d’Europa ha accusato Hashim Thaci di essere stato uno degli organizzatori del traffico di organi umani.

Ramush Haradinaj è stato incriminato dal Tribunale dell’Aja per crimini di guerra. Mentre si preparava il processo, nove testimoni chiamati a testimoniare contro Haradinaj sono stati uccisi. Alla fine, Haradinaj è stato assolto perché non c’era alcuna prova né più testimoni viventi. Sì, quelli sono i leader albanesi del Kosovo e i partners politici degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

Gli albanesi sono i vincitori perché sono state organizzate le prime elezioni in tutto il territorio della provincia, anche se poi effettivamente boicottate dal nord. Il perdente è la Serbia, per meglio dire l’attuale Governo di Belgrado, che per favorire l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea fa concessioni che non hanno mai fine e che sono dannose per gli interessi nazionali.

 

 

Parliamo del Kosovo settentrionale.

L’accordo firmato a Bruxelles prevedeva che le elezioni locali del 3 novembre rappresentassero un importante passo verso la normalizzazione. Tuttavia, le recenti notizie hanno detto che il problema è ancora vivo nella parte settentrionale della regione.

Per prima cosa Le chiedo: è stato giusto ripetere le elezioni a Mitrovica?

Nel nord, i risultati hanno detto che i vincitori sono stati i candidati della lista “Srpska”. In base a questo, quali prospettive apre il voto per i Serbi all’interno della cornice legale del Kosovo? Ci sarà ancora un forte controllo di Belgrado sulla regione?

Le elezioni nel nord del Kosovo sono state boicottate e hanno subito un fiasco completo. Pertanto sono stati inscenati presunti incidenti, al fine di trovare una ragione formale per la loro ripetitività, e poi, attraverso la maggiore pressione politica e mediatica alzare l’affluenza dei serbi alle urne.

Sul carattere democratico delle elezioni è sufficiente dire che dopo il secondo turno delle elezioni,  i funzionari dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione) – nonostante l’opposizione da parte dei membri della commissione elettorale i quali hanno chiesto che dopo le elezioni, come è prassi comune, le schede venissero contate sul posto – hanno, invece, preso le urne con le schede elettorali e le hanno portate in un determinato luogo vicino Pristina.

C’era un conteggio organizzato, ma l’essenza è che i controllori delle elezioni hanno preso i voti e sono stati fuori per 4 ore prima del conteggio. Questo fatto ha portato a diversi dubbi e commenti. Il maggior numero di voti del piccolo numero di elettori serbi che avevano votato era per un candidato serbo di una lista sostenuta da Belgrado.

La vita a nord era normale l’anno scorso; se non del tutto, la vita in Kosovo può essere chiamata normale. Nonostante i frequenti incidenti, la gente va a lavorare, l’Università è attiva. Ci sono un sacco di studenti serbi provenienti da altre parti della Serbia che studiano nella parte settentrionale di Kosovska Mitrovica. È vero che l’Unione Europea ha offerto ai serbi, dopo le elezioni, la possibilità di creare una Unione di comuni serbi con elementi di autogoverno. Ma con una differenza: i comuni non sarebbero più finanziati dalla Serbia, ma dalle autorità di Pristina. I serbi ritengono che molti probabilmente perderanno il lavoro e che il finanziamento Pristina potrebbe essere utilizzato come mezzo di ricatto politico ed economico.

Questa è solo una tappa in un conflitto del Kosovo complesso che non vede una fine nel prossimo futuro.

 

 

In Italia abbiamo letto che il vero perdente è Vucic. Pensa che questo sia vero?

Vucic è un politico serbo relativamente giovane che, dopo l’avvento al potere, ha ottenuto grande popolarità con una strenua lotta contro la corruzione e la criminalità. E questo è giustificato perché la criminalità e la corruzione hanno avuto grande spolvero in Serbia.

Ma, mentre prima era un patriota con una forte identità nazionale, Vucic ha cambiato radicalmente la sua politica e ora è diventato il preferito dei politici delle capitali occidentali. Ha sostenuto l’accordo di Bruxelles e ha invitato i serbi nel nord del Kosovo al voto. I serbi non hanno, ovviamente, obbedito, e dopo una serie di sue vittorie politiche trionfalistiche questa è davvero la sua prima sconfitta seria.

 

 

Nel gioco complicato di proclami e interessi reciproci, chi è il vero vincitore nel nord del Kosovo?

Come ho detto in precedenza, l’Occidente ha sempre messo pressione su Belgrado per arrivare all’abolizione delle “istituzioni parallele” nel nord del Kosovo . Queste strutture “parallele” sono in realtà legittime istituzioni statali serbe che sono rimaste a funzionare dopo i bombardamenti della NATO nel 1999 – l’istruzione , la giustizia , la salute e le comunicazioni postali – è per questo che parlavo della doppia alimentazione.

Angela Merkel e altri politici occidentali hanno chiesto a Belgrado di smettere di finanziare tali istituzioni, così quelle istituzioni, che erano necessarie per la normale vita dei serbi, potrebbero essere riprese e passare sotto il potere di Pristina . La vera risposta alla tua domanda è che dopo queste elezioni i serbi nel nord del Kosovo non saranno più controllati da Belgrado o da Pristina.

Certamente, ci saranno sempre alcuni collaboratori per funzioni politiche, ma saranno in minoranza, e non avranno la base tra i serbi a nord del Kosovo.

 

 

Ammesso ma non concesso che ci sia una soluzione, qual è la via d’uscita per il Nord del Kosovo? L’opzione di scambio di territori è una possibile via d’uscita o è solo una suggestione?

Vorrei che ci potesse essere una soluzione definitiva, ma penso che non sia né realistico né possibile affermarlo. Ci sono solo alcune soluzioni temporanee che non possono che congelare il conflitto. C’era l’idea di scambiare la terra, o la divisione del Kosovo e Metohija, che è stata rappresentata da uno dei più grandi scrittori serbi Dobrica Cosic. Ma la maggior parte dei serbi è contro questa idea, considerandola inaccettabile da un punto di vista etico. Anche gli albanesi sono contro pur essendo supportati da tutto l’occidente.

Perché l’Occidente sostenga gli albanesi è una delle questioni chiave.

Perché qualcuno dovrebbe sostenere uno Stato utilizzato quasi unicamente per la distribuzione di farmaci e stupefacenti provenienti dall’Afghanistan e diretti verso l’Europa e Stati Uniti.

Perché il sostegno a coloro che asportavano organi umani dai soldati catturati per poi trasportarli e venderli in tutto il mondo?

Ovviamente, neppure i serbi sono completamente innocenti, dal momento che hanno commesso un sacco di errori dopo la disintegrazione della Jugoslavia. È difficile raggiungere un accordo con gli albanesi semplicemente perché non sono coloro che detengono il potere reale; questo in realtà, è degli Stati Uniti d’America, e gli albanesi sono solo il loro rappresentante nei Balcani.

Mi dispiace per il popolo albanese, per le persone normali perché sono povere …

In uno dei miei articoli su “Geopolitika” ho invitato gli albanesi ad un accordo con la Serbia e scrissi che essi, prima o poi, si sarebbero dolorosamente convinti quanto vere siano le parole di Henry Kissinger: “può essere pericoloso essere nemico degli Stati Uniti, ma essere amico dell’America è fatale”.

I Serbi non possono rinunciare al Kosovo e Metohija perché il Kosovo e Metohija è il centro storico della statualità e della spiritualità serbe. Il punto cardine dei serbi è la promessa solenne del Kosovo o il mito del Kosovo come strumenti del ricordo della famosa battaglia dei serbi contro i turchi in Kosovo del 1389. Il mito del Kosovo è il mito cristiano, perché l’esercito serbo è andato alla battaglia dopo la comunione nella Chiesa Ortodossa Serba, essi hanno consapevolmente sacrificato se stessi e optato per una Serbia celeste. Il Principe Serbo Lazar, il comandante militare, ha detto prima della battaglia “Zemaljsko je zamalena carstvo a nebesko uvek i doveka“, che significa che il Regno di questo mondo dura molto poco, ma il Regno del cielo dura per sempre. Il popolo serbo ricorda il sacrificio dei loro militari e dell’élite politica, e questo sacrificio è passato attraverso le generazioni. Le campane della cattedrale di Notre Dame di Parigi hanno suonato dopo l’informazione, che poi si è rivelata non essere precisa, che i serbi avessero vinto in Kosovo. Quello che voglio dire è che allora c’era una sorta di coscienza che i serbi difendevano l’Europa cristiana. La situazione è cambiata da adesso fino ad allora? Sì e no.

Sì – L’Europa non è o è, almeno, sempre meno cristiana.

No – Il primo ministro turco Erdogan ha detto di recente durante la sua visita in Kosovo che “il Kosovo è la Turchia”. “Noi vogliamo guardare in maniera imperialista” ha detto in una recente intervista alla rivista Die Presse Iugut Bulit, consigliere del Primo Ministro della Turchia.

Stiamo assistendo ad una situazione in cui i servizi di intelligence USA utilizzano Al Qaeda e le organizzazioni Suni Othe per la pulizia etnica contro i cristiani in Siria e in Medio Oriente, così come di tutti gli altri avversari. Possiamo garantire che in futuro nessuno chiamerà di nuovo per un’altra “ricerca” religiosa nel vecchio continente o per una jihad all’interno dell’Europa?  Infine, la questione è: la lotta che conducono i serbi in Kosovo è una lotta solamente serba? A giudicare dal modo solitario in cui conducono questa lotta sì, ma non lo è.

 

 

Nota: Il nome costituzionale e giuridico per la provincia meridionale serba è Kosovo e Metohija . Gli albanesi evitano di utilizzare un’altra parte del nome, perché la parola deriva dalla parola metoh che significa proprietà della Chiesa, che testimonia le origini cristiane del Kosovo.

 

 

* Slobodan Eritz,  Direttore della rivista “Geopolitika” (Serbia), fa parte del Comitato scientifico di “Eurasia”.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

LA MOSCHEA MOLINARI A LAGHOUAT

$
0
0

Nella conquista francese dell’Algeria, la città di Laghouat (al-Aghwât) rappresentava un punto strategico, poiché, in quanto “porta del Sahara”, doveva servire come base per un’ulteriore espansione verso sud. Laghouat venne espugnata nel 1852, dopo aspri combattimenti. Il generale Du Barail, comandante della piazza, ripulì subito la città dalle macerie e, senza nemmeno attendere le disposizioni del governatore generale dell’Algeria, ordinò che si fabbricassero mattoni e pietre per costruire le installazioni necessarie all’esercito e all’amministrazione.

Nella ricostruzione della città si inquadra anche l’edificazione della grande moschea di el-Saffeh, che ebbe inizio nel 1853; in quell’anno arrivarono dal Lombardo-Veneto a Laghouat sette muratori italiani, uno dei quali avrebbe legato il proprio nome al luogo di culto, che oggi viene chiamato anche masgid Muninar, “la moschea di Mouninar”.

“Mouninar” era Giacomo Molinari. Quando arrivò a Laghouat aveva trentanove anni, poiché era nato il 28 agosto 1814 a Cavagnano (oggi provincia di Varese) da Giovanni Molinari e Maria Giuseppa Bianchi, i quali lo avevano fatto battezzare col nome di Giacomo Antonio nella chiesa parrocchiale di Sant’Ambrogio di Cuasso al Monte (1).

Terminata la costruzione della moschea, il gruppo dei muratori italiani ripartì da Laghouat. Giacomo Molinari invece rimase nella città algerina ed abbracciò l’Islam, se non vi era già entrato nel periodo in cui lavorava coi suoi compagni all’edificazione della moschea. Non ci è dato di conoscere le circostanze precise in cui ebbe luogo la conversione di Giacomo Molinari, che assunse il nome islamico di Ahmed. Forse una qualche luce sulla vicenda potrebbe provenire da una documentazione che si dice esista alla sottoprefettura di Laghouat, dove sembra sia custodita anche una fotografia in cui Molinari (evidentemente non ancora diventato Ahmed) è ritratto con un vistoso crocifisso sul petto.

Fatto sta che Ahmed Molinari si integrò perfettamente nell’ambiente musulmano: sposò una donna della tribù di Sidi Bouzid, nei dintorni di Aflou, e ne ebbe quattro figli: un maschio di nome Mohammed e tre femmine. Di Mohammed Mouninar si dice che fosse un mutaçawwif d’un certo rango; da lui nacque Bašîr, padre a sua volta di ‘Abd el-Qâder e nonno di ‘Izz ed-dîn.

L’ultima traccia lasciata da Ahmed Molinari consiste nel suo testamento, che egli dettò il 28 luglio 1908 al cancelliere notarile francese Paul Curel nella propria abitazione, “nel cortile di una casa sita all’angolo della rue Millot e della rue de Blidah” (2), essendo probabilmente impossibilitato a muoversi per via della veneranda età (novantaquattro anni) e delle condizioni di salute (“malade de corps, mais sain d’esprit”, ce lo descrive monsieur Curel).

L’atto notarile venne dunque redatto, in francese e in arabo, alla presenza di un interprete giudiziario e di quattro testimoni, “tous les quatre citoyens français”, residenti in città e in grado di comprendere la lingua araba. Ciò era reso necessario dal fatto che il testatore conosceva male la lingua dei colonizzatori francesi, ma in compenso si esprimeva alla perfezione in arabo, “à la mode indigène”, ormai del tutto dimentico della propria lingua materna (3).

Ascoltiamo le dichiarazioni del novantaquattrenne Molinari: “Non posseggo nulla. Avevo un orto, che ho venduto oggi stesso, ricavandone la somma di milleduecento franchi, la quale mi è servita per pagare una somma di eguale entità di cui ero debitore al signor Isaac ben Lalou” (4). Il creditore di Ahmed Molinari, un ebreo del luogo che in virtù del Decreto Crémieux del 1870 era diventato cittadino francese, figura d’altronde fra i quattro testimoni ed è indicato nel documento notarile come “propriétaire et négociant”. Il testatore, infine, conclude così: “Desidero essere inumato, dopo la mia morte, nel cimitero musulmano di Sidi-Yanès” (5).

L’ultima volontà di Ahmed Molinari venne regolarmente eseguita. Chi visiti oggi il cimitero di Sidi-Yanès vi può trovare la tomba del muratore italiano che lavorò alla costruzione della grande moschea di Laghouat.

 

  1. Atto sottoscritto dal curato C. Menefoglio, nell’archivio parrocchiale di Cuasso al Monte (Varese). Nell’archivio  non esiste nessun altro documento (né di matrimonio né tanto meno di morte) riguardante Giacomo Molinari.
  2. « … dans la cour d’une maison sise à l’angle des rues Millot et de Blidah ». Testament de Jacques Molinari (quattro cartelle con testo francese dattiloscritto dal notaio Adnot Henri e testo arabo redatto a mano da M. Ernest Abribat, “Interprète Judiciaire pour la langue arabe, Près la Justice de Paix de Laghouat”), Laghouat, 28 Juillet 1908.
  3. « … habitant Laghouat, depuis de longues années, y vivant à la mode indigène, ayant complètement oublié sa langue maternelle, ne connaissant qu’imparfaitement la langue française, mais s’exprimant au contraire parfaitement et habituellement en langue arabe… ».
  4. « Je ne possède rien. J’avais un jardin que j’ai vendu aujourd’hui même, moyennant le prix de douze cents francs, somme qui m’a servi à payer une dette de pareille somme, que je devais à M. Isaac ben Lalou ».
  5. « Je désire être inhumé, après ma mort, dans le cimetière musulman de Sidi-Yanès ».

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

UCRAINA, IL TRIONFO DI PUTIN

$
0
0

L’abbattimento e la successiva decapitazione della statua di Lenin che troneggiava in viale Shevchenko, a Kiev, simboleggiano il culmine del conflitto civile a bassa intensità che da diverse settimane scuote l’Ucraina, Paese che fino a pochi decenni fa costituiva il granaio, nonché una regione strategicamente cruciale dell’Unione Sovietica.

 

Lenin rappresenta, nell’immaginario collettivo di almeno una parte dei manifestanti, la storica egemonia russa sull’Europa orientale, che nel 1917 determinò la capitolazione della resistenza menscevica impedendo l’indipendenza ucraina dalla nascente Unione Sovietica.

Si tratta indubbiamente del punto di vista condiviso delle frange cattoliche residenti nelle zone occidentali del Paese, che subiscono l’influenza culturale polacca e si pongono in netto antagonismo rispetto alla Russia, qualificata come storica potenza imperialistica responsabile di decenni di oppressione.

Tale orientamento politico trova l’opposizione frontale esercitata dalle corpose e preponderanti componenti russofone e ortodosse residenti nelle regioni più orientali, secondo le quali la naturale collocazione strategica dell’Ucraina, specialmente alla luce delle evidentissime affinità etno-culturali,  sia a fianco di Mosca. Esse considerano l’indipendenza nazionale alla stregua di una secessione forzata, che priverebbe lo spazio spirituale e geopolitico russo di una fondamentale ed imprescindibile componente.

L’evidente, inconciliabile discordanza tra le parti in conflitto rispecchia quindi la differente opinione che gli ucraini hanno riguardo al genere di rapporto che Kiev dovrebbe stringere con Mosca. Il che significa che la stessa definizione di identità nazionale elaborata tanto dai russofobi quanto dai russofili scaturisce da una diversa visione della Russia, e nasce proprio in contrapposizione ad essa. Il presunto anelito “europeista” che la maggior parte degli osservatori internazionali ritiene sia alla base delle sommosse non è altro che un semplice riflesso di questa profonda spaccatura, e il rinvio a tempo indeterminato della firma relativa all’associazione dell’Ucraina all’Unione Europea l’evento catalizzatore.

Non deve pertanto stupire che i responsabili materiali della decapitazione della statua di Lenin militino tra le fila della fazione ultra-reazionaria Svoboda, la quale, con i suoi armati e agguerriti esponenti, funge da punta di lancia e braccio violento del variegato e disomogeneo raggruppamento che si oppone al processo di avvicinamento alla Russia in atto da anni con il patrocinio del presidente Viktor Yanukovich.

Fin dai tempi in cui ricopriva la carica di primo ministro, Yanukovich, proveniente dai ranghi della vecchia industria pesante che sorgeva nelle zone orientali dell’Ucraina (fortemente dipendenti dagli approvvigionamenti energetici russi), aveva assecondato il disegno eurasiatico elaborato dal presidente russo Vladimir Putin avviando una politica di apertura nei confronti di Mosca che aveva permesso a Kiev di capitalizzare significativi successi in ambito economico (a partire dal primo aumento salariale e pensionistico dai tempi del collasso dell’Unione Sovietica). Ma le oscillazioni filo-russe, aggravate dal rifiuto opposto dal binomio Kuchma (allora presidente ucraino ed ex membro dell’esercito sovietico)-Yanukovich alla richiesta inoltrata da diverse compagnie petrolifere occidentali (Chevron in primis), nell’ambito di un progetto relativo alla realizzazione di un condotto che avrebbe dovuto attraversare per oltre 1.000 km il fondale del Mar Nero (collegando il porto georgiano di Supsa allo snodo ucraino di Odessa, proseguendo fino ai terminali polacchi di Gdansk, sul Mar Baltico), spinsero gli Stati Uniti e i loro alleati a finanziare la cosiddetta “rivoluzione arancione”, che determinò l’ascesa dei candidati filo-occidentali Viktor Yushenko alla presidenza e Yulia Tymoshenko ai vertici del governo, i quali accolsero immediatamente le richieste delle compagnie petrolifere occidentali e inaugurarono una politica decisamente ostile nei confronti alla Russia, il cui culmine è rappresentato dall’avviamento dell’iter burocratico propedeutico all’entrata dell’Ucraina nella NATO.

Molti dei manifestanti che attualmente guidano le proteste contro il governo di Kiev provengono da quella classe sociale giovane, nazionalista ed animata da marcati sentimenti anti-russi i cui orientamenti politici erano stati indirizzati verso tendenze anti-russe dalla miriade di Organizzazioni Non Governative (Open Society, Albert Einstein Institute, National Endownment for Democracy, Konrad Adeanuer Fondation, Friedrich Ebert Foundation ecc.) che nel 2004, alla vigilia della “rivoluzione arancione”, aveva fatto irruzione nello scenario ucraino acquistando giornali e canali televisivi in conformità alle direttive contenute all’interno del celeberrimo “manuale Sharp”.

A differenza da allora, tuttavia, altri elementi assai concreti hanno concorso ad alimentare la protesta. La gravità della crisi economica, il dissesto dei conti pubblici e l’avidità crescente di una classe dirigente composta da elementi che non hanno indugiato a sfruttare la politica per il conseguimento dei propri interessi personali – economici nel caso di Yulia Tymoshenko, di immagine nel caso di Vitaly Klitschko – sono elementi nient’affatto trascurabili, che potrebbero dimostrare un certo livello di spontaneità nell’economia del conflitto attualmente in atto, ma il nodo gordiano riguarda comunque la posizione da tenere nei confronti di Mosca.

Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno espresso piena “solidarietà” ai manifestanti mentre Putin ha paragonato le dimostrazioni ai pogrom. I Paesi del “vecchio continente” e la stessa Unione Europea hanno finora evitato di cavalcare la russofobia ben radicata in Europa orientale anteponendo le proprie necessità energetiche. E’ probabile che l’Europa abbia compreso l’entità della posta in gioco, perché quando in gioco ci sono gli equilibri dell’Europa orientale viene automaticamente tirata in ballo la questione energetica.

Nel 2008, il binomio Yushenko-Tymoshenko si rese protagonista di una serie di scontri diplomatici piuttosto duri con la Russia, opponendo un cospicuo aumento delle tasse derivanti dal transito del gas russo (royalty) attraverso il corridoio energetico ucraino alla pretesa della Gazprom – avanzata nel periodo in cui voci insistenti accreditavano l’ipotesi dell’entrata dell’Ucraina nella NATO – di portare il prezzo del gas destinato all’Ucraina ai normali livelli di mercato. La diatriba tra i due Paesi si protrasse per diversi anni e culminò nel gennaio 2009, in perfetta corrispondenza temporale con la scadenza stabilita nel contratto che regolava i termini del transito, quando Gazprom decise di interrompere il flusso di gas destinato all’Europa. Questa mossa strategica sorti il duplice effetto di aiutare gli europei a comprendere appieno l’urgenza di individuare vie di approvvigionamento energetico stabili ed indipendenti dalle turbolenze interne ai singoli Paesi (a ciò è dovuta la costruzione dei due gasdotti Nord Stream e South Stream) e di provocare una pesante crisi economica in Ucraina, che favorì il crollo politico di Yushenko e il fallimento della “rivoluzione arancione”. Una volta tornato al potere, Yanukovich avviò una politica di conciliazione nei confronti del Cremlino che permise all’Ucraina di usufruire del 30% di sconto sulle forniture di gas russo (in cambio di una serie di concessioni economiche e militari a Mosca) e all’Europa di ricevere in maniera stabile le necessarie forniture energetiche. Ciò spiega il malcelato sollievo con cui i leader di alcuni Paesi europei fortemente dipendenti dalle importazioni russe hanno accolto il “rifiuto” di Yanukovich: lo scoppio di una nuova crisi tra Russia e Ucraina analoga a quella del 2009 comporterebbe una destabilizzazione generalizzata che si ripercuoterebbe pesantemente anche in Europa. Tali leader sono consapevoli che l’Unione Europea, colpita massicciamente dalla crisi economica, non dispone di alcuna ancora di salvezza da offrire all’Ucraina, mentre la Russia può agevolmente attingere ai propri fondi sovrani per proporre un prestito speciale o un ulteriore sconto sul prezzo del gas naturale per sventare il pericolo della bancarotta nazionale. In cambio, il Cremlino potrebbe verosimilmente richiedere l’adesione dell’Ucraina all’Unione Doganale (che attualmente comprende Bielorussia e Kazakistan).

La principale leva attraverso cui Putin sta riuscendo a ridisegnare gli equilibri geopolitici regionali è quindi quella energetica, e non potrebbe essere altrettanto, vista e considerata la ricchezza di idrocarburi di cui gode la Russia. Per cui, per quanto soverchiante sia il peso che i fattori storici e culturali esercitano sui precari equilibri che sorreggono l’Europa orientale, l’unico elemento capace di produrre un’autentica svolta è rappresentato dall’energia. Con questa dura realtà geopolitica dovranno ben presto fare i conti anche la Polonia, la Moldova e i Paesi Baltici, i quali hanno reagito con sdegno al “dietrofront” di Kiev poiché da anni premono per allargare il fronte occidentale attraverso l’ampliamento verso Est dell’Unione Europea e della NATO, in conformità alla loro marcata ostilità nei confronti della Russia. In passato, questa ostilità aveva portato alla sottoscrizione, verso l’inizio della primavera del 1999 (in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione della NATO presso l’Andrew Mellon Auditorium di Washington), dell’accordo di mutua assistenza militare GUUAM da parte dei  capi di Stato di Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaijan e Moldova, in base al quale «Moldova e Ucraina mettono a disposizione il proprio territorio per la costruzione di condutture energetiche» (1). In quell’occasione, Georgia, Uzbekistan ed Azerbaijan annunciarono l’abbandono del Commonwealth of Indipendent States (il patto militare atto a regolare la cooperazione militare tra le ex repubbliche sovietiche sotto l’ombrello di Mosca), mentre l’Uzbekistan concesse agli Stati Uniti il diritto di installare una enorme base militare nel proprio territorio.

Mentre questi ex satelliti del Cremlino cercano o hanno cercato di recidere il legame con la Russia attraverso il trasferimento nel campo occidentale, Mosca continua a prodigarsi per ripristinare e consolidare le proprie storiche aree di influenza, conseguendo successi di rilievo. L’Ucraina, Paese che il grande scrittore russo Nikolaj Vasilevich Gogol amava definire “piccola Russia” (Malorossiya), sembra essere uno di questi.

 

 

NOTE

 

1) “Financial Times”, 6 maggio 1999.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

ROMANIA: PROTESTE POPOLARI CONTRO I GAS DELLA CHEVRON

$
0
0

È forse dai tempi delle proteste di Piazza dell’Università (primavera 1990) che i romeni non protestavano in maniera così convinta e motivata come stanno facendo a Pungesti. Ma se in Piazza dell’Università a malmenare la popolazione arrivarono i minatori chiamati da Ion Iliescu, oggi sono gli uomini in divisa della gendarmeria, rappresentanti ufficiali dell’ordine costituito e del governo di Victor Ponta, a intervenire in maniera dura e cattiva. E questo da lunghe settimane.

La popolazione sta facendo resistenza passiva contro l’estrazione da parte della multinazionale petrolifera Chevron del famigerato gaz de sist, una materia prima di fondamentale importanza per l’industria, di cui la zona attorno a Pungesti, nella zona di Vaslui, est della Romania, è ricchissima.

Alla consueta violenta arroganza delle multinazionali e delle imprese private che seguitano a voler sfruttare e a sfruttare la Romania prosciugandola dei suoi preziosi beni in cambio d’un tozzo di pane raffermo, si aggiunge l’elevatissimo pericolo cui incorrerebbe la popolazione se seguitassero i lavori di estrazione. Nicolae Ceausescu, a conoscenza della presenza di questo pur prezioso gas e intenzionato ad estrarlo, non diede ordine di procedere in tal senso, perché avvertito dell’estrema pericolosità di una simile impresa. Una su tutte: violenti terremoti. E per giunta la Romania è una zona ad alta pericolosità sismica.

Oggi, nonostante tutti siano a conoscenza del grande pericolo, il governo muove le sue milizie contro la popolazione, la quale – sarà bene tenerlo a mente – sta manifestando disarmata, in maniera pacifica e in massa, compresi vecchi, donne e bambini. In quarantacinque anni di comunismo, è il caso di dire, le forze dell’ordine non avevano mai agito in maniera così violenta come stanno facendo oggi a Pungesti. Segnale evidentissimo di enormi interessi economici, cui i padroni delle ferriere non vogliono rinunciare. Un ruolo primario lo svolge il governo di Ponta, il figlioccio politico di Ion Iliescu, che l’anno scorso fu implicitamente nominato presidente del Consiglio in pectore nei salotti buoni di Washington, alla solenne presenza di Hillary Clinton.

La situazione è talmente grave che la gendarmeria ha dichiarato la regione interessata «zona di speciale di pubblica sicurezza», uno status che lascia senza parole se si guarda ciò che prevede la legge per l’istituzione di un simile allerta. Leggiamo: «Per disposizione del capo della polizia municipale e/o cittadina, in zona urbana o rurale è possibile costituire zone speciali di pubblica sicurezza, in cui si allestiscono dispositivi supplementari di ordine e di sicurezza pubblica, adoperando altresì ulteriori formazioni di polizia: investigazioni criminali, reparti di intervento celere, ecc.». E al comma 2: «La costituzione della zona speciale di pubblica sicurezza avviene allorché su di uno spazio ristretto si concentra un fenomeno di infrazione: violenze, traffico e consumo di droghe, prostituzione, ecc.». Avete letto bene. Le pacifiche e giuste proteste della popolazione inerme sono de facto e de iure equiparate a «violenze, traffico e consumo di droghe, prostituzione».

Nei giorni scorsi le proteste sono servite, si fa per dire, a far interrompere i lavori alla Chevron, ma solo per 12 ore. La decisione della multinazionale è avvenuta dopo che dieci manifestanti sono entrati nel terreno della compagnia e hanno divelto gran parte della recinzione. A seguito di quello che la stampa romena ha chiamato «incidente», la Chevron ha sporto denuncia alla polizia, chiedendo l’apertura di un’inchiesta e il processo per i colpevoli. Ma vediamo nel dettaglio come si sono svolti i fatti in uno dei momenti di massima tensione tra polizia e popolazione, qualche settimana fa.

Circa 400 persone hanno lanciato sabato scorso una protesta, radunandosi su di un terreno privato, verosimilmente di un manifestante, collocato proprio davanti all’area data in concessione alla Chevron. I manifestanti provenivano anche da altre città della Romania per solidarietà nei confronti degli abitanti della zona.

La manifestazione si è svolta per lungo tempo in maniera pacifica, con la gente che scandiva slogan contro la gendarmeria e contro il governo. D’un tratto alcuni manifestanti sono entrati nell’area interessata, scagliando pietre contro i camion della Chevron e hanno iniziato a scardinare la recinzione. Una sassaiola invero ridicola e l’unica azione di forza della popolazione, che per altro è stata indirizzata contro degli automezzi e non contro le persone.

Ma ad esser eloquenti oltre ogni parola sono i filmati amatoriali che inchiodano alle proprie responsabilità gendarmeria e governo. Si guardino queste immagini (https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=9dwOIQzEbn4) oppure si digitino su YouTube le parole chiave Pungesti e Chevron. Non sarà necessario conoscere la lingua romena per rendersi conto dell’estrema gravità della situazione.

 

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

LA GRANDE CONTESA TRA RUSSIA ED EUROPA PER I PAESI DEL PARTENARIATO ORIENTALE

$
0
0

Il 28 e il 29 novembre, nella capitale lituana Vilnius, si è svolto il terzo vertice del Partenariato Orientale, un programma dell’Unione Europea istituito nel 2009 e finalizzato a rafforzare le relazioni tra l’Europa e alcuni Paesi dell’Europa Orientale (Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Georgia, Armenia e Azerbaigian)[1]. Il vertice di Vilnius avrebbe potuto avere un’importanza cruciale nello sviluppo delle relazioni tra l’UE e le Repubbliche ex-sovietiche dell’Europa Orientale e del Caucaso, e la stipula degli Accordi di Associazione[2] con alcune delle stesse poteva essere il primo passo verso una nuova avanzata dell’Unione nello spazio ex-sovietico. L’intento di strappare l’Ucraina alla sfera di influenza russa è però di fatto fallito, e solo la Georgia e la Moldavia hanno registrato dei progressi significativi nei rapporti con l’Unione. Troppo poco, specie se si considera che Mosca si è ripresa (definitivamente?) Kiev e Erevan. Il vertice, comunque, ha avuto e avrà un ruolo tutt’altro che insignificante nell’evoluzione della situazione in Europa Orientale e nel Caucaso.

Nell’occhio del ciclone si trova oggi l’Ucraina, sia perché è qui che si gioca la più importante tra le sfide tra Russia e Unione Europea nello spazio ex-sovietico, sia per le forti proteste che stanno investendo il Paese in queste settimane. Kiev, come ricorderemo, il 21 novembre ha interrotto (ma non definitivamente, almeno stando alle dichiarazioni del governo) il cammino verso l’Europa per rilanciare i legami con la Russia e i Paesi della CSI. La svolta, però, è stata seguita da una scia di polemiche, e Majdan Nezaležnosti, la piazza centrale di Kiev già teatro della Rivoluzione Arancione del 2004, si è trasformata nell’epicentro di una serie di proteste divenute note come EuroMaidan. Inizialmente circoscritte, le proteste si sono progressivamente rafforzate e trasformate in un contenitore di rivendicazioni tra le più disparate, i cui minimi comuni denominatori sono la destituzione del Presidente Janukovič e del Primo Ministro Azarov, la richiesta di nuove elezioni e la ripresa delle trattative con l’Unione Europea. Non meno variegata è la piattaforma dei dimostranti, che va dai militanti del partito UDAR dell’ex pugile Vitalij Kličko, da molti considerato l’astro nascente dell’opposizione, ai fedelissimi della Tymošenko fino agli ultranazionalisti di Svoboda. Le bandiere dell’Unione Europea si mescolano con quelle rosse e nere di quell’Esercito Patriottico Ucraino che durante la Seconda Guerra Mondiale cercò di creare uno Stato nazionale ucraino combattendo contro tutti (URSS, Polonia, Germania nazista) ma che accolse come liberatori i soldati della Wehrmacht e fu responsabile di vari atti di pulizia etnica ai danni degli Ebrei e dei Polacchi, all’epoca numerosi nell’Ucraina occidentale. Le manifestazioni, perlopiù pacifiche, hanno tuttavia vissuto momenti di tensione: nella notte di sabato 30 novembre i Berkut, le forze speciali ucraine, hanno sgomberato con la forza la Majdan dai manifestanti che vi alloggiavano[3], mentre nel pomeriggio della domenica successiva alcuni dimostranti, dopo aver occupato il municipio della città e la sede dei sindacati, hanno attaccato con un bulldozer il palazzo dell’amministrazione presidenziale, venendo però respinti dalla polizia[4].

Le proteste hanno avuto una larga risonanza in Europa e in Occidente, dove l’appoggio nei loro confronti è stato pressoché unanime e molti hanno parlato di una seconda Rivoluzione Arancione. Il paragone è naturale, e le similitudini non mancano. Ma, oggi come allora, si tende troppo spesso a definire come “lotta del popolo ucraino” dei moti di protesta che in realtà riguardano soprattutto le regioni centro-occidentali. Come la Rivoluzione del 2004, infatti, anche l’EuroMaidan è di fatto lo specchio delle profonde divisioni del Paese. A Kiev la domenica sono in centinaia di migliaia a scendere in piazza, sebbene le stime precise siano fortemente discordanti (i partecipanti alla “marcia del milione” dell’8 dicembre, ad esempio, sono stati quasi mezzo milione secondo gli organizzatori, ma solo 100.000 secondo le più attendibili stime della polizia[5]), e nelle regioni occidentali, storicamente e culturalmente più legate all’Europa che non alla Russia e il cui epicentro è l’asburgica Leopoli, per protesta sono state sospese le lezioni in alcune università[6]. Dalla parte opposta del Paese, dove pure non è mancata qualche sparuta protesta, gli eventi dell’EuroMaidan vengono invece guardati con un certo fastidio[7]. Inoltre, a differenza che nel 2004, le proteste non hanno, al momento, ottenuto alcun successo concreto, e la mozione di sfiducia contro il governo Azarov presentata il 3 dicembre dalla Verchovna Rada, il Parlamento ucraino, è stata respinta[8]. Né probabilmente riusciranno a ottenere uno dei loro obiettivi principali, ossia la stipula dell’Accordo di Associazione con l’UE. Malgrado la retorica, infatti, l’Europa non è realmente intenzionata a prendere l’Ucraina sotto l’ala, e mentre i vari Barroso, Westerwelle e Ashton invitano Janukovič ed Azarov ad “ascoltare la voce del popolo” le autorità di Bruxelles si dicono indisponibili alla riapertura delle trattative sui termini dell’Accordo di Associazione[9]. E, come ricordiamo, sono state anche le condizioni alle quali viene offerto l’accordo a spingere il governo ucraino alla sua svolta ormai ben nota.

Mentre a Kiev fervevano le proteste, Janukovič è volato in Cina per firmare una serie di accordi economici e commerciali[10]. Il presidente ucraino, per quanto possa sembrare debole e non in grado di gestire le tensioni in corso, sta comunque dimostrando una certa scaltrezza: recandosi in Cina, infatti, Janukovič può ora alzare la posta sia con l’Europa sia con la Russia, di cui ha bisogno ma le cui condizioni è restio ad accettare. Sulla via del ritorno, comunque, il Capo di Stato ucraino ha trovato il tempo di fare una visita a Putin e di firmare con lui un accordo i cui dettagli non sono stati ancora resi noti ma che, secondo il Ministro degli Esteri ucraino Leonid Kožara, consentirà la riapertura delle trattative sul gas e un pieno ristabilimento degli scambi commerciali tra i due Paesi[11]. Un redattore dell’Economist ha affermato che l’Ucraina avrebbe acconsentito all’ingresso nell’Unione Doganale in cambio di 15 miliardi di dollari di aiuti e della riduzione del prezzo del gas fino a 200 dollari ogni mille metri cubi (attualmente è di 400)[12]; la notizia, tuttavia, è stata successivamente smentita da Dmitrij Peskov, portavoce del Presidente russo[13]. Difficile dire quanto ciò sia vero, ma è probabile che ciò rientra in una strategia a lungo termine: Putin può infatti avere acconsentito ad elargire un modesto aiuto al Paese sufficiente a dare fiato all’economia ucraina e a permettere a Janukovič di vincere le prossime elezioni con una buona maggioranza, rinviando di fatto la tanto attesa domanda di adesione al dopo-elezioni.

Con la Georgia, invece, l’Unione Europea ha redatto la versione definitiva dell’Accordo di Associazione, la cui ratifica, sia per la Georgia sia per l’altro Stato con cui l’UE ha preparato la versione definitiva dell’accordo, ossia la Moldavia, è prevista per il settembre 2014[14]. La Georgia è da sempre il più filoccidentale dei Paesi caucasici, soprattutto per ragioni strategiche, mentre con la Russia, malgrado i forti legami storici e religiosi (tanto la Georgia quanto la Russia sono Paesi ortodossi), i rapporti sono stati spesso difficili. La detronizzazione di Eduard Ševardnadze nel 2003 e la sua sostituzione col filoccidentale Mikheil Saakašvili ha implicato un netto avvicinamento di Tbilisi alla NATO e all’Unione Europea, come dimostrato dall’istituzione di un Ministero per l’Integrazione Euroatlantica nel 2004, ma al prezzo di un deciso peggioramento dei suoi rapporti con Mosca, che durante la guerra del 2008 hanno toccato il loro punto più critico. L’ascesa del miliardario Bidzina Ivanišvili alla Presidenza del Consiglio nel 2012 e quella di Giorgi Margvelašvili alla Presidenza della Repubblica l’anno dopo sono state seguite da forti schiarite nelle relazioni russo-georgiane, ma il vettore più importante della politica estera del Paese resta quello euroatlantico, sebbene Margvelašvili cerchi di addolcire la pillola al Cremlino affermando che “la sottoscrizione dell’Accordo di Associazione con l’Europa da parte della Georgia renderà il Paese più attraente per gli investitori russi”[15]. Resta inoltre la questione di Ossezia del Sud e Abchazia, che Mosca riconosce come Stati indipendenti ma che Tbilisi continua a rivendicare come parti del proprio territorio. Verosimilmente, quindi, la Georgia rimarrà filoccidentale anche nel medio termine.

La formalizzazione dell’Accordo di Associazione con Bruxelles è stata accolta con favore da Washington, il cui rappresentante Victoria Nuland, in visita a Tbilisi il 5 dicembre, ha affermato che gli Stati Uniti faranno il possibile per anticipare la sottoscrizione definitiva dell’accordo con l’UE[16]. Ma non manca un certo scetticismo nei confronti dello stesso. Tra i perplessi spicca il nome del magnate e uomo politico Gogi Topadze, che sottolinea il notevole divario tecnologico tra la Georgia e i Paesi europei, ritenendo invece maggiormente proficuo puntare ai mercati dell’Unione Doganale Eurasiatica. C’è poi chi teme che Tbilisi cederà alle forti pressioni che la Russia presumibilmente eserciterà sul Paese caucasico per convincerlo a non firmare[17]. Il rischio che ciò accada, però, è limitato. La Georgia, infatti, non fa parte di alcuna organizzazione finalizzata alla ricomposizione dello spazio ex-sovietico, ivi compresa la CSI, e la Russia non rientra attualmente nel novero dei maggiori partner commerciali della Georgia, tanto più che molti dei maggiori prodotti di esportazione georgiani, come il vino e la celebre acqua Borjomi, solo di recente hanno fatto ritorno in un mercato russo nel quale sono stati a lungo banditi. Difficilmente, quindi, la Georgia cederà a delle pressioni che, al contrario, potrebbero rivelarsi un boomerang per la stessa Russia.

Ben diverso è invece il discorso per la Moldavia. Così come per la Georgia, anche nei rapporti tra la Moldavia e la Russia non mancano i pomi della discordia, in primis la questione della Transnistria[18], ma in generale i rapporti tra Chişinau e Mosca sono più produttivi e solidi di quelli tra quest’ultima e Tbilisi. Il Paese, infatti, è osservatore nella Comunità Economica Eurasiatica (EurAsEC), uno dei fondamenti dell’integrazione eurasiatica, e fa parte della CISFTA, l’area di libero scambio tra i Paesi della CSI[19]. Ma un’area di libero scambio non implica una piena liberalizzazione dei commerci tra i Paesi membri, bensì soltanto l’abolizione dei dazi sulle merci prodotte all’interno degli stessi, e per evitare il rischio che prodotti realizzati in un Paese terzo circolino nell’area senza pagare dazi sfruttando la politica commerciale più aperta di uno degli Stati membri, gli accordi di libero scambio includono sempre delle regole d’origine, spesso molto complesse, sui prodotti esentati dai dazi[20]. Il rischio che la Russia utilizzi quest’arma per esercitare pressioni in piena regola sulla Moldavia non è assente, così come ha fatto in passato con i regolamenti sanitari (basti pensare al recente blocco delle importazioni di vino moldavo, una dei principali prodotti di esportazione del Paese[21]). Tuttavia, su quest’ultimo fronte, il rischio che il Cremlino ricorra in maniera arbitraria a questo strumento è oggi limitato: la Russia, infatti, è un membro del WTO, e in quanto tale dovrà dimostrare in sede internazionale la reale pericolosità di un prodotto[22].

Per la Moldavia il trattato è anche un mezzo per avvicinarsi a un obiettivo a cui il Paese, o almeno una parte dello stesso, aspira da tempo: il ricongiungimento con la Romania, con la quale condivide la lingua[23] e la cultura e dalla quale è stata separata dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale Bucarest era alleata con Hitler. Quello tra Romania e Moldavia è di fatto un confine artificiale, ma il tema della riunificazione e dell’identità nazionale è foriero di forti divisioni. A seguito dell’indipendenza della Moldavia, la prospettiva della nascita di una Grande Romania suscitò forti preoccupazioni tra le minoranze etniche del Paese (Russi, Ucraini e Gagauzi), con le prime due che diedero vita a uno Stato indipendente de facto nella regione della Transnistria, ma le difficoltà economiche in cui allora versavano sia la Moldavia sia la Romania contribuirono a stemperare le tensioni irredentiste e a riavvicinare Chişinau a Mosca[24]. A Bucarest si continua a sperare nella riunificazione, e l’attuale Presidente romeno Traian Băsescu ha recentemente affermato che “l’unificazione con la Moldavia è il terzo grande obiettivo della politica estera romena, dopo l’adesione alla NATO e all’UE”[25], ma a Chişinau la questione resta fortemente divisiva: una parte del Paese, infatti, tende a considerarsi “romeno” e guarda verso Bucarest e Bruxelles, mentre altri propendono per una distinta identità moldava e guardano verso Mosca. Ma anche tra i primi non mancano le riserve: la decisione della Corte Costituzionale moldava di chiamare “romeno” anziché “moldavo” la lingua nazionale del Paese, ratificata il 7 dicembre 2013, ha infatti creato una spaccatura nella coalizione governativa[26].

Anche l’Armenia, al pari dell’Ucraina, ha scelto di voltare le spalle all’Europa per tendere la mano alla Russia e all’Eurasia ma, a differenza dell’Ucraina, l’Armenia ha ufficialmente dichiarato la propria volontà di entrare nell’Unione Doganale. La mossa non ha mancato di suscitare polemiche in patria, ma di fatto è un atto di Realpolitik, considerate sia le difficoltà economiche del Paese sia soprattutto la necessità di un alleato forte nell’annoso conflitto con l’Azerbaigian. La vicinanza della Russia all’Armenia è stata ribadita durante l’ultima visita di Putin agli inizi di dicembre, durante la quale il presidente russo ha discusso con la sua controparte armena di cooperazione militare ed economica, e ad ottobre il colonnello Andrej Ruzinskij, comandante della base russa di Gyumri, ha persino dichiarato che “in caso di un attacco azero finalizzato a ristabilire la propria sovranità nel Nagorno-Karabach[27] è possibile un intervento armato della base russa nel conflitto in virtù degli impegni presi dalla Federazione Russa nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva”. Poiché ufficialmente il Nagorno-Karabach non è territorio armeno, tale dichiarazione è decisamente sopra le righe e, chiaramente, non ha mancato di suscitare malumori in Azerbaigian, ma a Mosca non è stata né commentata né smentita[28].

La volontà di Erevan di aggregarsi al trio eurasiatico è stata accolta favorevolmente sia dalla Bielorussia sia dal Kazakistan, ma in quest’ultimo non mancano i timori che ciò possa compromettere le sue buone relazioni con Turchia e Azerbaigian e rafforzare ulteriormente la posizione della Russia nell’Unione Doganale. La proposta di Nursultan Nazarbaev, Presidente kazaco nonché uno dei padri dell’integrazione eurasiatica, di invitare ufficialmente la Turchia nell’Unione (secondo Nazarbaev il Presidente turco Abdullah Gül gli ha espresso un sincero interesse in proposito durante un loro colloquio privato) va almeno in parte interpretata in questo senso[29]. I rapporti tra Turchia ed Armenia sono tuttora molto tesi, malgrado le schiarite degli ultimi anni, e Ankara è di fatto una concorrente di Mosca per il controllo geopolitico di Balcani, Caucaso e Centrasia: l’idea che la Turchia possa entrare in un’Unione Doganale guidata dalla Russia e che annovera l’Armenia tra i suoi membri sembra perlomeno utopistica. In ogni caso, se è vero che sulle rive del Bosforo l’interesse verso l’Unione Eurasiatica non manca, l’ingresso del Paese della Mezzaluna nella stessa non è all’ordine del giorno. Intervistato in proposito durante il suo ultimo incontro con Putin il 22 novembre 2013, infatti, il premier turco Erdoğan ha affermato di essere interessato semplicemente alla creazione di un’area di libero scambio con l’Eurasia[30]. Un accordo di libero scambio è qualcosa di ben diverso da un’unione doganale, in quanto non implica una politica commerciale e doganale comune, ma semplicemente l’abolizione dei dazi sui prodotti nazionali. Ciò consentirebbe alla Turchia di trarre benefici dalla liberalizzazione degli scambi commerciali con l’Eurasia, e magari di aumentare la propria influenza sui popoli turchi di religione musulmana della regione, senza diventare un vassallo del Cremlino con il quale le affinità sono ben poche e che anzi è stato per molti secoli un suo nemico.

Ai margini dell’appuntamento di Vilnius troviamo la Bielorussia, i cui membri di governo sono tuttora vittime di sanzioni da parte dell’Unione Europea per la loro condotta antidemocratica[31], mentre l’Azerbaigian, senza dubbio il meno “europeo” tra i Paesi del Partenariato Orientale, costituisce un caso a sé. L’osservanza non proprio scrupolosa dei principi dei diritti umani e della democrazia da parte delle autorità di Baku non sembra turbare più di tanto le coscienze delle autorità di Bruxelles, che considerano l’Azerbaigian un tassello importante per la riduzione della dipendenza dal gas russo di buona parte degli Stati europei, e nel 2009 le autorità comunitarie hanno iniziato i colloqui con il governo azero per l’Accordo di Associazione. La ritrosia di Baku ad accettare gli standard europei in termini di economia, democrazia e diritti umani è comunque alla base degli scarsi progressi registrati sulle trattative tra i due Paesi[32]. La Terra dei Fuochi, nome che gli antichi affibbiarono all’Azerbaigian, è oltretutto bene attenta a mantenere buone relazioni col Cremlino. I rapporti tra i due Paesi hanno vissuto recentemente un certo rafforzamento, e durante l’ultima visita di Putin in Azerbaigian i capi di Stato dei due Paesi hanno firmato una serie di contratti finalizzati alla creazione di una joint venture tra la compagnia petrolifera di Stato russa Rosneft e la sua controparte azera SOCAR, le cui funzioni non sono tuttavia ben chiare, e alla vendita all’esercito azero, già fortemente dipendente dalla Russia per le forniture, di una partita di armi dal valore di un miliardo di dollari[33]. Suona quasi un paradosso l’idea che la Russia possa vendere armi sia all’Armenia sia all’Azerbaigian, ma ciò rientra nel divide et impera che da sempre caratterizza la politica delle grandi potenze nella regione e, secondo l’analista armeno Vigen Akopyan, il contratto sulla vendita di armi a Baku è stato il reale movente della svolta eurasista di Erevan[34]. Va detto, comunque, che se il Nagorno-Karabach è oggi di fatto territorio armeno, il merito va soprattutto alla Russia, e di questo ne sono consapevoli tanto l’Armenia quanto l’Azerbaigian.

Il Vertice di Vilnius è stato un fallimento per l’Europa? In parte sì: l’Unione Europea si trova di fatto costretta a riconoscere la primazia della Russia nello spazio ex-sovietico, e la “conquista”, peraltro non definitiva, di Moldavia e Georgia è troppo poco per parlare di un successo. La Russia, d’altro canto, si è ormai ripresa l’Armenia e probabilmente ha fatto lo stesso anche con l’Ucraina. La riconquista di Kiev, per Mosca, ha una forte valenza simbolica oltre che materiale: la Rus’di Kiev è di fatto l’antenato della moderna Russia, e a Mosca l’idea secondo cui i Russi, gli Ucraini e i Bielorussi sono un unico popolo è dura a morire[35]. Tuttavia non mancano i risvolti positivi per la stessa Europa, che non deve sobbarcarsi il peso della modernizzazione di un Paese grande come l’Ucraina in un periodo di difficoltà come quello attuale, mentre ben diverso è il discorso per Moldavia e Georgia, che pur essendo Paesi poveri sono comunque di dimensioni ridotte e quindi meno dispendiosi da sostenere. Resta comunque da capire cosa succederà nei prossimi mesi in Moldavia, Georgia e Ucraina, mentre è molto difficile che Bielorussia, Armenia e Azerbaigian abbandonino il corso intrapreso. Nelle condizioni attuali, infatti, è più facile che un Paese sposti lo sguardo dall’Europa alla Russia che non viceversa.

 




[2] L’Accordo di Associazione è un accordo con cui l’Unione Europea e un Paese non membro stabiliscono rapporti di stretta cooperazione in cambio del rispetto di una serie di principi riguardanti la democrazia, le libertà personali e l’economia da parte dello Stato firmatario. In molti casi l’Accordo include anche la liberalizzazione degli scambi commerciali reciproci su vari prodotti, ad eccezione di quelli agricoli. La sottoscrizione dell’Accordo di Associazione è spesso un passo importante verso l’adesione all’Unione Europea.

[18] La Transnistria è una striscia di territorio moldavo compresa tra il fiume Dnestr e il confine con l’Ucraina nel quale, nel 1990, la locale popolazione di etnia russa e ucraina ha instaurato una Repubblica indipendente de facto con l’ausilio della 14°Armata Sovietica e il tacito supporto russo.

[19] In realtà solo nove degli undici Paesi attualmente membri della CSI (ossia tutte le Repubbliche ex-sovietiche meno la Georgia, uscita nel 2008, e le Repubbliche Baltiche) fanno parte della CISFTA, mentre l’Azerbaigian e il Turkmenistan hanno rifiutato di prendervi parte.

[20] R. C. Feenstra e A. M. Taylor, Economia Internazionale: Teoria e Politica degli Scambi Internazionali, Hoepli, Milano 2009, pp. 436-437.

[22] R. C. Feenstra e A. M. Taylor, Op. cit., p. 451.

[23] Il moldavo e il romeno sono praticamente la stessa lingua, con qualche minima differenza lessicale. L’uso del termine “moldavo” o “romeno” per la lingua nazionale moldava rimane però oggetto di controversie.

[24] S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 238.

[27] Il Nagorno-Karabach è una regione popolata prevalentemente da Armeni, ma assegnata da Stalin all’Azerbaigian per ragioni di diplomazia internazionale. Teatro di forti tensioni irredentiste nella fase finale dell’Unione Sovietica, che scatenarono forti pogrom antiarmeni a Baku e nelle altre città azere che ospitavano comunità armene, a seguito del crollo della stessa queste tensioni sfociarono in una guerra tra Azerbaigian e Armenia per il controllo della regione. La guerra è terminata nel 1994 con la vittoria di quest’ultima, che ha instaurato nel territorio la Repubblica del Nagorno-Karabach; la sua indipendenza, però, non è riconosciuta a livello internazionale e il territorio del Paese è tuttora rivendicato dall’Azerbaigian.

[35] Fino agli inizi del Novecento i Russi venivano ufficialmente chiamati “Grandi Russi”, gli Ucraini “Piccoli Russi” e i Bielorussi “Russi Bianchi”. Oggi una certa tendenza ad autodefinirsi “Piccoli Russi” permane nell’Ucraina Orientale, mentre il termine “bielorusso” è di fatto un’italianizzazione del russo belorusskij, ma il termine “russi” viene ormai riservato quasi sempre ai Russi propriamente detti, mentre per indicare Russi, Bielorussi, Ucraini e Ruteni (un popolo che vive a cavallo delle odierne Polonia, Slovacchia e Ucraina occidentale) viene usata l’espressione “Slavi Orientali”.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

SCARONI E IL CANE A SEI ZAMPE: L’ITALIA CHE VINCE

$
0
0

“O abbracciamo lo shale gas o abbracciamo la Russia”. Queste parole, recentemente pronunciate da Paolo Scaroni, ben descrivono la realtà odierna riguardante l’approvvigionamento di gas per l’Italia e per l’Europa. Per capire quale sia il significato del termine shale gas ed il motivo per cui oggi sia diventato così frequente sentirlo nominare, il perché l’ad di una delle maggiori compagnie petrolifere al mondo si esprima in questi termini e quali meccanismi ed implicazioni geopolitiche vi siano dietro a questa affermazione, faremo un passo indietro e capiremo come ENI operi oggi nel contesto dell’approvvigionamento energetico.

L’ente pubblico fondato da Enrico Mattei nel 1953 è presente oggi in 90 stati con quasi 80000 dipendenti, dal 1992 è una società per azioni per quanto de facto controllato dallo Stato tramite una consociata del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Cassa Depositi e Prestiti S.p.A.) con circa il 30% delle azioni ordinarie, quota destinata a salire sopra il 33% nei prossimi mesi; da settembre 2004 è guidato da Paolo Scaroni, uno dei più brillanti manager del nostro paese che in otto anni di gestione è stato capace di portare il fatturato dai 74,5 miliardi di euro del 2005[1] sino ai 127 del 2012[2], trasformando l’ENI in una vera e propria compagnia internazionale.

Dai tempi di Mattei e delle sette sorelle, molte cose sono cambiate nel modo di ricercare, estrarre e commercializzare gli idrocarburi: nuovi ed importanti attori si sono aggiunti al gioco alterando l’equilibrio che vedeva l’America spadroneggiare incontrastata in tutto il mondo, i paesi produttori hanno preso più coscienza della loro forza traendo vantaggio da modalità di concessione e sfruttamento assai più remunerative del fifty-fifty di un tempo e la tecnologia nel settore ha fatto passi da gigante dando la possibilità di arrivare a giacimenti una volta irraggiungibili. Tuttavia, il modo in cui una compagnia indipendente come l’ENI deve porsi a livello mondiale affinché eviti di impersonare il vaso di coccio circondato da quelli di ferro, non si è modificato di molto, anzi. I grandi attori atlantici hanno in qualche caso cambiato nome per via di fusioni e accorpamenti ma non il modus operandi; i nuovi colossi energetici dei BRICS (Gazprom e Petrochina su tutti) e di altre economie emergenti, hanno sconvolto i precedenti equilibri sui prezzi grazie al loro potere contrattuale, accaparrandosi giacimenti in tutto il mondo; la nostra compagnia di stato deve così affidarsi alle sue eccellenze per fare ancora la sua parte e garantire ad imprese e famiglie un approvvigionamento affidabile ed al miglior prezzo possibile.

 

 

SCARONI IL “NUOVO MATTEI”

Il crollo del Muro di Berlino ed il dissolvimento del blocco comunista hanno avuto, tra gli effetti principali, quello di far venir meno la tensione fra Est e Ovest, sino ad allora palpabile in ogni settore della vita sociale ed economica in tutto il mondo, Italia compresa. Non diremo cose nuove ricordando come ogni conflitto ed ogni avvenimento suscettibile di interesse che venivano alla ribalta in qualsiasi parte del mondo, assumessero rilevanza globale per via dellattenzione rivolta da parte dei due blocchi perennemente in competizione fra loro. Nel caso specifico dell’ENI, si è quindi visto come i tentativi di Mattei di emanciparsi dalla logica bipolare e di rilanciare l’Italia in quanto tale, abbiano portato alla sua eliminazione poiché scomodo nella logica di mantenimento dell’Italia sotto l’ombrello atlantico. Cessato il bipolarismo e con esso la minaccia comunista – e quindi proprio, paradossalmente, con l’affermarsi del sistema unipolare americano su scala mondiale – il nostro ente di stato ha potuto ampliare i suoi orizzonti e ricominciare ad operare con una maggiore autonomia proprio in virtù della cessazione di veri e propri diktat provenienti da paesi vicini ed organizzazioni sovranazionali. La nuova missione dell’ENI è stata quindi quella di andare a cercare nuove opportunità, ovvero cercare le materie prime in quei paesi dove non fossero già insediati i principali concorrenti occidentali, privilegiando invece quegli stati dove, spesso per motivi prevalentemente politici, le altre compagnie euro-atlantiche non operavano, lasciando quindi una possibilità d’azione che – particolarmente negli ultimi anni – è via, via aumentata.

E’ qui che risiede l’attuale forza del Cane a sei zampe ed è qui che Scaroni si merita l’appellativo di “nuovo Mattei”, in quanto artefice del ritrovato vigore espresso dall’ENI in paesi di importanza fondamentale dal punto di vista energetico come ad esempio Venezuela, Iran, Iraq, Libia, Angola, Nigeria e soprattutto Russia: paesi in alcuni casi complicati per la stabilità interna o le questioni legate ai diritti umani e non di rado bersaglio di critiche strumentali da parte della grande stampa italiana e occidentale. Non che in questo vi sia molto di cui stupirsi; ma per quanto oramai si sia più che abituati a leggere sonore distorsioni della realtà, per ragioni politiche, di settori critici come quello energetico, le affrettate accuse mosse talvolta nei confronti dell’attuale ad dell’ENI per via dei suoi rapporti con leader e rappresentanti di stati non troppo graditi (come Putin o Nazarbayev), ricordano molto quelle di cui fu spesso vittima, a suo tempo, proprio Mattei: oggetto di violenti e ripetuti attacchi da parte di autorevoli organi d’informazione a causa delle sue coraggiose politiche nate e sviluppatesi proprio grazie ai rapporti da lui instaurati con capi di stato allora invisi all’occidente come, ad esempio, Nasser e Mossadeq. Si tratta di un’analogia che altro non può che inorgoglire Scaroni, per quanto le stringenti misure di sicurezza a cui è costretto ad adeguarsi su indicazioni, non solo del servizio di sicurezza interno dell’ENI ma anche sui rapporti periodicamente trasmessi dal SIS, costituiscano senza dubbio un rovescio della medaglia non di poco conto; del resto, come precedentemente accennato, cambiano i tempi ma non la sostanza degli avvenimenti. In altri termini, sono le politiche energetiche a muovere il mondo e a costituire ancora e sempre una delle basi, se non la base, delle relazioni internazionali. Gli interessi in gioco sono più che rilevanti e con l’energia si fa politica: tanto ai tempi di Mattei, quanto al giorno d’oggi. E appare quindi evidente come determinate (e anche in questo caso coraggiose) scelte di campo operate da Paolo Scaroni nella più pura tradizione dell’azienda da lui guidata, destino fastidi e preoccupazioni fuori dai nostri confini. L’Italia riesce infatti ad essere un attore di rilievo e con un soddisfacente grado d’indipendenza, mantenendo alta quella fama che ci vede primeggiare in rapporti internazionali talvolta difficili e non raggiungibili agevolmente da chicchessia, andando controcorrente rispetto alla stragrande maggioranza dei paesi occidentali e con risultati straordinari: le notizie più recenti dimostrano infatti come l’ENI sia la compagnia con maggior successo al mondo negli ultimi cinque anni per le nuove scoperte effettuate e possa vantarsi d’essere oggi il primo produttore nell’intero continente africano (una tendenza destinata a crescere in virtù degli straordinari giacimenti scoperti di recente nel Mozambico), con in vista nuovi promettenti scenari che si prospettano particolarmente nei paesi rivieraschi asiatici quali Pakistan, Myanmar, Vietnam e Cina.

 

 

IL NODO DEL GAS

E’ noto come al giorno d’oggi siano il petrolio ed il gas a ricoprire l’importanza principale fra tutti gli idrocarburi. Tuttavia, da ormai molti anni ed in tutto il mondo, è stata operata una scelta che ha di fatto assegnato al gas un ruolo preminente per ciò che riguarda la produzione di energia elettrica, relegando il petrolio ad essere sempre più funzionale ai trasporti. Nel caso dell’Italia e dell’Europa tutta (fatta eccezione per pochi paesi come Olanda e Norvegia), questo ha significato affidarsi ai gasdotti che dal Nord Africa e soprattutto dalla Russia portano questo prezioso elemento fino all’interno dei nostri confini. Una scelta che per l’Italia è consistita – pur nell’ambito di una saggia ed ampia diversificazione – nell’abbracciare principalmente la Russia per ciò che concerne l’approvvigionamento di gas (per avere un’idea della situazione attuale, nel 2012 in Italia sono stati immessi nella nostra rete 75,78 miliardi di mc di gas, di cui circa 67 provenienti dall’estero – il 30% dei quali dalla Russia – e solo poco più di 8 dalla produzione nazionale[3]). I motivi dietro alla scelta di privilegiare Mosca rispetto ad altri esportatori sono ovviamente di natura economica – visto che il gas russo è quello più a buon mercato – ma anche di natura politica, poiché Mosca si è rivelata essere un partner affidabile e dalla ritrovata autorevolezza in campo internazionale, oltre ad essere imprescindibile per l’economia italiana in virtù del volume d’affari esistente fra i due paesi in molti settori. I legami energetici che uniscono Mosca a Roma risalgono ancora agli anni ’50 del secolo scorso, ma è stato negli ultimi anni che le relazioni si sono fatte ancor più solide: Berlusconi e Prodi hanno gettato le basi per un ulteriore passo in avanti verso i russi e, con l’appoggio determinante di Scaroni e dell’ENI, hanno fatto sì che per il futuro l’Italia privilegiasse il gas russo del progetto South Stream invece che quello del Nabucco (rivelatosi pressoché inesistente poiché il Turkmenistan, paese centroasiatico dal quale sarebbe dovuto partire alla volta dell’Europa, ha preferito cederlo alla Russia), caldeggiato dall’Unione Europea e soprattutto dagli Stati Uniti, al fine di ridurre la dipendenza energetica da Mosca e allentare quindi i sempre maggiori rapporti politico-economici.

Il nodo dietro alla costruzione dei due nuovi, enormi gasdotti, risiede nella necessità di garantire l’approvvigionamento senza alcun intoppo: e alla luce di quanto sta ancora oggi accadendo in Ucraina, si può ben capire cosa all’epoca avesse portato Gazprom ed i suoi partner (fra i quali l’ENI, per South Stream, è il principale) a voler diversificare le rotte del gas – allora transitanti per gran parte proprio attraverso l’Ucraina – aggirando Kiev per evitare che i suoi rapporti altalenanti con Mosca andassero ad influire ancora negativamente sul trasporto del gas verso il cuore dell’Europa. Furono ideati così due percorsi alternativi: quello a Sud, che dalla Russia tramite il Mar Nero si sarebbe poi biforcato in Bulgaria per giungere in Austria, Croazia e Slovenia da un lato, e dall’altro verso la Basilicata (per la quale esiste un avanzato progetto affinché diventi un vero e proprio hub del gas per l’intera Europa centro-meridionale); e quello a Nord, il North Stream, un collegamento che attraverso il Mar Baltico servirà invece a convogliare le forniture alla Germania, primo partner commerciale russo all’interno della UE.

Quando però parliamo di gas a livello non solo italiano bensì europeo, dobbiamo giocoforza paragonarci al nostro principale concorrente per ampiezza e caratteristiche del mercato – ovvero gli Stati Uniti, che oggi pagano il gas tre volte in meno rispetto all’Europa e spendono la metà per l’elettricità. Sono differenze abissali che ragionate in termini di competitività industriale creano un notevole svantaggio per le imprese europee, costrette ad avere dei costi energetici assai superiori a cui s’aggiungono le problematiche derivanti dalla debolezza del dollaro (e quindi dalla maggior competitività dell’industria americana sui mercati esteri), dall’ambiente più “business friendly” (volendo usare le testuali parole di Scaroni) rispetto agli impacci della burocrazia ed al giogo dell’alta tassazione tipicamente europei, e dagli investimenti stranieri che già cominciano a venir dirottati dall’UE verso gli Stati Uniti, specialmente per ciò che concerne le produzioni ad alto consumo energetico in settori come la chimica e la siderurgia (è notizia recente la decisione del colosso euro-indiano ArcelorMittal di seguire questa rotta per trasferire parte della sua produzione). Se questa è l’attuale differenza fra le bollette europee e quelle statunitensi con – si è visto – tutte le ricadute del caso, lo si deve di certo a dei fattori di una certa rilevanza come gli alti costi per l’adeguamento alle fonti d’energia rinnovabili (che gli europei hanno intrapreso da anni e che vanno ad incidere, nel caso italiano, per il 20% dell’ammontare delle bollette) ed i costi di costruzione delle infrastrutture atte al trasporto energetico fra le quali spiccano i nuovi, enormi gasdotti attualmente in costruzione; ma ad influire più di tutto è l’effetto rivoluzionario che lo shale gas sta avendo nel settore energetico statunitense e con cui ci ricolleghiamo all’affermazione di Scaroni precedentemente citata.

Se sino ad ora, infatti, il gas in questione era quello più noto come convenzionale – ossia il gas sedimentato in giacimenti dai quali, una volta individuato, è tutto sommato agevole estrarlo –  con shale gas s’intende il gas intrappolato in blocchi d’argilla solida dai quali dev’essere estratto mediante un complicato metodo denominato fratturazione idraulica (più noto come fracking). Si tratta di un metodo costoso, rumoroso e con degli svantaggi dal punto di vista ambientale abbastanza oggettivi: è invasivo sotto il profilo paesaggistico, comporta l’utilizzo di un’enorme quantità d’acqua necessaria a rompere i blocchi, è inquinante per via degli additivi chimici che vanno utilizzati (per quanto la profondità a cui avverrebbe tale processo è molto superiore a quella in cui sono generalmente presenti le falde acquifere) ed infine non si può escludere che possa costituire una causa di fenomeni sismici. La scoperta di questi giacimenti negli Stati Uniti è stata una vera e propria rivoluzione che avrà (e pare stia già avendo) anche significativi risvolti geopolitici: d’un tratto, infatti, oltre ad aver scoperto la presenza di giacimenti petroliferi che le garantiranno di diventare nel 2015 il primo esportatore di idrocarburi al mondo (superando per la prima volta la Russia), l’America ha scoperto di essere già indipendente per ciò che concerne il gas: basti pensare che considerando soltanto i giacimenti di rocce scoperti sino ad ora, si stima che questi basterebbero per garantirle l’autosufficienza per i prossimi 200 anni.

Ma se gli Stati Uniti non sono gli unici a possedere questo patrimonio nella profondità del loro territorio, ciò che cambia è la possibilità pratica di poterlo estrarre, cosa che accade facilmente negli USA (dove opera anche ENI) per ragioni molto semplici: i mezzi tecnologici di cui già dispongono in loco, l’abbondante presenza di spazi enormi e disabitati ed una legislazione che concede al proprietario della porzione di terreno da fratturare di ottenere ingenti ricavi in quanto direttamente proprietario del giacimento. Differenze profonde rispetto all’Europa dove gli Stati posseggono ogni diritto sul sottosuolo (con cui eliminerebbero gran parte di quella convenienza per i privati allo sfruttamento) e dove l’alta densità di popolazione impedisce questo processo senza scatenare veementi – e spesso giustificate – proteste. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, anche nel vecchio continente vi sono paesi che accettano di superare questi ostacoli, quali la Polonia e l’Ucraina (dove ENI è già presente), e altri che avrebbero le potenzialità di farlo per quanto ancora dubbiosi sulla bontà della scelta, Regno Unito in primis; pur considerando le spinte in senso opposto che vengono dal primo fornitore di gas per l’intera Europa – la Russia, col 25% del totale – che vedrebbe in questo metodo innovativo una diminuzione della domanda da parte di alcuni tra i suoi migliori clienti.

La stessa Russia che potrebbe costituire la più valida alternativa alla rivoluzione dello shale gas ed essere l’artefice del riallineamento dei prezzi rispetto agli Stati Uniti: una prospettiva che potrebbe facilmente avverarsi e che secondo Scaroni è quella al momento più logica, data l’ingente disponibilità di gas convenzionale ed i bassi costi di estrazione, oltre ai floridi rapporti già esistenti. Una scelta che dovrà però comportare come condicio sine qua non l’abbassamento dei prezzi sulle forniture, abbandonando la scellerata idea dell’aumentare i prezzi con cui Gazprom ha tentato di bilanciare il calo della domanda derivante dalla crisi degli ultimi anni, una situazione che ha persino visto all’interno dell’UE ritornare in auge il tanto vituperato carbone (da sempre l’idrocarburo più economico nella produzione di energia elettrica) con conseguenti danni ambientali e l’annullamento di parte dei benefici derivanti dall’aver intrapreso l’utilizzo delle energie rinnovabili. Un esempio lampante, quello dell’aumento dei prezzi, di strada da non percorrere assolutamente; poiché è interesse reciproco continuare nei proficui e pluriennali rapporti commerciali, specialmente per la Russia che fonda gran parte del suo ritrovato vigore proprio sulle massicce esportazioni di energia, dalle quali al momento non può prescindere.

 

 

SCENARI ATTUALI E FUTURI

Riassumendo il quadro energetico attuale e delineando uno scenario sul prossimo futuro, la priorità per i paesi europei è invertire l’attuale tendenza che ci vede in una posizione d’inferiorità rispetto all’America per il costo dell’energia. Aumentare l’importazione di gas da Mosca con un contestuale abbassamento dei prezzi sembra essere la via più semplice ed auspicabile, giacché si è visto come beneficiare dello shale gas in Europa non sia al momento una via percorribile per ottenere quei volumi sufficienti a garantire un approvvigionamento completo; d’altro canto, sfruttare le recenti scoperte americane importandole nel nostro continente, sarebbe – oltre che di dubbio senso logico per il fatto di andare a versare ulteriori denari nelle casse statunitensi – anche inutile, in quanto gli alti costi di trasporto e raffinazione andrebbero ad annullare i benefici derivanti dal basso costo all’origine

Le fonti rinnovabili non possono ancora garantire una fornitura affidabile, hanno seri problemi di stoccaggio e funzionano ad intermittenza; impensabile pensare, prima di qualche decennio, che esse possano sostituire in maniera affidabile gli idrocarburi sostenendo i consumi attuali. Il nucleare rimarrebbe una strada sicura e affidabile, ma desta preoccupazioni e l’Italia si è nuovamente espressa a riguardo riaffermando il “no” al suo utilizzo (per quanto l’acquistiamo poi dall’estero). Allo stesso tempo, è d’obbligo ridurre il carbone che come già accennato ha conosciuto una ripresa negli ultimi anni, in cui le sfavorevoli condizioni economiche ne hanno rilanciato l’utilizzo per via dei suoi bassi costi, avendo quindi a monte l’energia sempre più cara e come risultato un aumento dell’inquinamento quale risultato per bilanciare il divario, andando contro ogni tendenza sbandierata (e auspicata) di recente.

Infine, un argomento da sempre a cuore al numero uno dell’ENI, che ricalca semplicemente ciò che proporrebbe il buon senso e che sarebbe di primaria importanza, è un uso efficiente dell’energia. La pessima abitudine dello spreco costituisce una delle prime cause degli alti prezzi delle nostre bollette, un’eredità figlia di un consumismo oggi più che mai senza senso e che bisogna lasciarsi alle spalle operando invece scelte più giuste. Affidandosi sia a tutti i più moderni ritrovati che la tecnologia ci offre per un utilizzo corretto delle risorse, sia ad idee di banale saggezza e semplice applicazione: in ENI ad esempio, d’estate non si portano le cravatte e si tiene l’aria condizionata un po’ meno forte, un piccolo gesto ma di grande impatto e che dovrebbe far riflettere su alcune manie a cui siamo abituati e che simboleggiano lo spreco di un bene prezioso (e costoso) in nome, talvolta, di scelte di marketing o di immagine.

Non si vorrà con questa affermazione calcare troppo la mano sul cosiddetto “antiamericanismo”, ma è tuttavia lampante come determinati comportamenti e abitudini purtroppo comuni abbiano origine proprio oltreoceano, dove l’abbondanza ed il conseguente scialo di energia in spregio a tutte le più elementari regole di rispetto dell’ambiente (e anche al suddetto buon senso) ha sempre costituito ben più di una pratica occasionale e che purtroppo ha scavalcato molti confini. Basti pensare che soltanto sostituendo le macchine oggi in circolazione negli Stati Uniti con i modelli usati in Europa, si risparmierebbe l’intera produzione di petrolio effettuata (a pieno regime) da un paese come l’Iran, pari a circa quattro milioni di barili al giorno.

Abbandonare le cattive abitudini sarà già un ottimo, primo passo verso consumi più intelligenti, razionali ed economici, ma chiudere nuovi accordi più vantaggiosi con i nostri fornitori di gas, russi innanzitutto, è la chiave per riallinearci all’America e riguadagnare la competitività perduta.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

LO SPAZIO INTERIORE DEL MONDO

$
0
0

Sottotitolo: Geofilosofia dell’Eurasia
 
Autore: Fabio Falchi

Descrizione: La modernità ha mutato la relazione tra terra e mare nell’altra, mare contro terra, creando così quelle condizioni che hanno permesso all’Economico di scorporarsi dall’ampio ventaglio di istituzioni culturali, sociali e politiche in cui esso prima era “incastrato”. Tuttavia, il primato della funzione politico-strategica ricompare inevitabilmente nell’analisi che intercetta anche il mercato come espressione di una particolare volontà politica. Questo libro intende non solo (di)mostrare la necessità della funzione egemone ed equilibratrice della politica (ossia del Politico-katechon), ma anche, se conflitto e “squilibrio” sono inevitabili, la necessità di passare dal problema geopolitico e sociale a quello metapolitico e geofilosofico di uno spazio differenziato e orientante. La riconquista di un legame tra terra, abitazione e lavoro, che permetta un universale riconoscimento delle differenze (prodotte da quel legame), trova dunque nell’Eurasia l’antagonista di quella “Grande Isola” d’oltreoceano che è il centro propulsore del capitalismo e dello sradicamento.

http://www.anteoedizioni.eu/anteoedizioni/store/products/lo-spazio-interiore-del-mondo/

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

USA – IRAN, PROVE DI DISTENSIONE: ACCORDO SUL NUCLEARE RAGGIUNTO

$
0
0

In un tweet il presidente iraniano Hassan Rohani mostra tutta la sua soddisfazione affermando che “il voto del popolo iraniano per la moderazione e l’impegno costruttivo e gli instancabili sforzi da parte dei team negoziali apriranno nuovi orizzonti”.  A notte fonda, nel frattempo, arriva il tanto atteso annuncio. “Abbiamo raggiunto un accordo”, queste sono le parole del Ministro degli Esteri iraniano Mohammad-Javad Zarif.

L’Iran e il gruppo dei 5+1 sono riusciti a trovare un’importante intesa sulla questione nucleare. Una faticosa mediazione che è stata portata avanti per tanti mesi, come poi ha confermato lo stesso capo della diplomazia persiana aggiungendo tra l’altro: “Abbiamo detto chiaramente che l’Iran non aveva problemi a parlare con tutte le controparti per trovare la soluzione alla questione nucleare”.

Entriamo allora un po’ più nel dettaglio di questo accordo di un’iniziale durata di sei mesi, che possiamo definire di “prova”, prima di poter approdare ad una conclusione definitiva. Tra le misure adottate per rallentare il programma nucleare, c’è quella di neutralizzare l’uranio già arricchito al 20%, soglia utile per fini bellici, riconvertendolo o diluendolo fino al 5 percento. Nell’accordo la comunità internazionale concede, infatti, a Teheran di continuare ad arricchirlo, ma fino al 5 percento, in modo da mantenerlo al di sotto dell’indice necessario per la costruzione di ordigni nucleari.

Altri punti dell’intesa riguardano lo stop all’aggiunta di altre centrifughe e la sospensione dei lavori al reattore di Arak, che in caso di costruzione è in grado di produrre plutonio utilizzabile per la produzione di armi atomiche. Inoltre dovrà essere garantita una maggiore collaborazione con gli ispettori dell’AIEA, ai quali sarà permesso di controllare i siti di Natanz e Fordow, oltre a poter ispezionare gli impianti di produzione delle centrifughe e le miniere di uranio.

In cambio però, sempre secondo l’accordo di Ginevra, saranno sbloccati per  l’Iran circa  4,2 miliardi di dollari in valuta straniera, provenienti dalla vendita di greggio e depositati in buona parte presso banche asiatiche da cui il governo Rohani non ha potuto attingere a causa delle sanzioni imposte. In più, è stata concessa una gestione semplificata dei suoi fondi per gli aiuti umanitari. Sanzioni sospese invece per il commercio di prodotti petrolchimici, metalli preziosi e oro. Altra importante sospensione riguarderà l’industria dell’auto e una diminuzione delle componenti di aerei e il permesso di vendere petrolio per evitare un’ ulteriore flessione dell’export. Sarà in ultimo consentito l’acquisto di apparecchiature mediche senza limite, a patto che siano effettuati da società riconosciute a livello internazionale.

Una buona soluzione nel complesso, se si pensa che vi è stato anche il divieto di vendere al Paese, nel corso di questi ultimi tempi, armi pesanti e tecnologie legate al nucleare e al gas naturale ed erano state congelate, inoltre, le attività di import di petrolio iraniano e quelle all’estero della Banca centrale iraniana.

Soddisfatto per un tale esito anche il presidente Obama il quale ha dichiarato: “Si tratta di un primo importante passo verso un accordo generale, evitando la corsa all’uso della forza. Oggi la diplomazia ha aperto una nuova strada per rendere più sicuro il mondo”. Un po’ di disappunto, invece, è trapelato dalle parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu: “Si tratta di un accordo cattivo con cui l’Iran ha ottenuto esattamente quanto voleva: un alleviamento sostanziale delle sanzioni e il mantenimento di componenti importanti del proprio programma nucleare”.

Un confronto militare sembrerebbe scongiurato in questo momento. Si profila un clima più disteso, non solo a livello internazionale, ma anche nella stessa nazione iraniana. Tutte le parti politiche e la pubblica opinione sono soddisfatte per questa intesa. Anche la Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei, dopo aver palesato più volte, per tutto il corso dei negoziati, una certa diffidenza, ora si compiace dell’accordo raggiunto a Ginevra attribuendolo “alla grazia di Dio e alle preghiere della nazione iraniana”.

Negli USA, invece, Obama deve fronteggiare il malumore di una parte del Congresso, oltre quello di Paesi come l’Arabia Saudita e Israele, i quali denunciano come “pericolosa” ed eccessiva una tale apertura della diplomazia a stelle e strisce.

Il risultato raggiunto è di grande importanza. Per i persiani è fondamentale uscire da quella sorta di isolamento diplomatico e non solo nel quale erano finiti . Un Iran normalizzato è certamente un fattore cruciale di stabilizzazione di tutto il sud-ovest asiatico. Per i nordamericani è probabilmente uno dei più importanti obiettivi centrati, a livello di politica estera, dell’ultimo governo.

Una nota negativa sicuramente è legata alla “assenza” in questa questione della diplomazia italiana. Il Belpaese ha deciso di non essere coinvolto nei negoziati, nonostante i buoni rapporti e i solidi rapporti commerciali esistenti da circa cinquant’anni con Teheran. L’accordo di Ginevra comunque durerà sei mesi. Un passo importante è stato fatto, con l’auspicio di percorrere sempre di più una strada che porti verso una definitiva distensione. Sperare si può.

 

 

*Giuseppe Perrotta è laureato in Giurisprudenza presso l’Università del Sannio

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“LA GUERRA CHE VALE LA PENA COMBATTERE”: LE VASTE RISERVE DI MINERALI E GAS NATURALE DELL’AFGHANISTAN

$
0
0

Le forze USA e NATO hanno invaso l’Afghanistan più di 13 anni fa, nell’ottobre 2001.

L’Afghanistan è considerato come uno stato sponsor del terrorismo.

La guerra in Afghanistan continua ad essere proclamata come una guerra di risposta agli attacchi dell’11 / 9.

Questo articolo, pubblicato nel giugno 2010, indica le “reali ragioni economiche” del perché le forze USA-NATO hanno invaso l’Afghanistan dopo l’11 / 9.

L’argomento giuridico utilizzato da Washington e dalla NATO per invadere e occupare l’Afghanistan sotto la “dottrina della sicurezza collettiva”, è che gli attentati dell’ 11 settembre 2001 costituivano un non dichiarato “attacco armato” da una non dichiarata potenza straniera, vale a dire l’Afghanistan.

USA-NATO si stanno ora preparando per assicurare una presenza militare permanente in Afghanistan. 

 

Michel Chossudovsky, dicembre 2013

 

 

***

I bombardamenti del 2001 e l’invasione dell’Afghanistan sono stati presentati all’opinione pubblica mondiale come una “guerra giusta“, una guerra diretta contro i talebani e Al Qaeda, una guerra per eliminare il “terrorismo islamico” e istituire la democrazia in stile occidentale.

Le dimensioni economiche della “guerra globale al terrorismo” (GWOT) sono raramente menzionate. La “campagna anti-terrorismo” post 11/9 è servita a nascondere i veri obiettivi della guerra USA-NATO.

La guerra in Afghanistan è parte di un programma guidato da nient’altro che il profitto: una guerra di conquista e di saccheggio economico, una “guerra delle risorse“.

Mentre l’Afghanistan viene riconosciuto essere un hub strategico in Asia centrale, confinante con l’ex Unione Sovietica, la Cina e l’Iran, al crocevia delle rotte degli oleodotti e delle grandi riserve di petrolio e di gas, la sua enorme ricchezza mineraria, così come le sue non sfruttate riserve di gas naturale, sono rimaste, fino al giugno del 2010, del tutte sconosciute al pubblico americano.

Secondo un rapporto congiunto del Pentagono, della Geological Survey americana (USGS) e dell’USAID, l’Afghanistan  possederebbe “sconosciute” e non sfruttate riserve di minerali, stimate autorevolmente essere nell’ordine di un trilione di dollari (New York Times –  U.S. Identifies Vast Mineral Riches in Afghanistan – NYTimes.com – 14 Giugno 2010- vedi anche BBC, 14 Giugno 2010).

“I depositi precedentemente sconosciuti – tra cui quelli di ferro, rame, cobalto, oro e metalli industriali critici come il litio – sono così grandi e comprendono così tanti minerali essenziali per l’industria moderna, che l’Afghanistan potrebbe alla fine essere trasformato in uno dei più importanti centri minerari del mondo, secondo quanto creduto dai funzionari degli Stati Uniti.

Un memorandum interno del Pentagono, per esempio, afferma che l’Afghanistan potrebbe diventare “l’Arabia Saudita del litio”, una materia prima fondamentale per la produzione di batterie per computer portatili e BlackBerry.

L’enorme quantità di ricchezze minerarie dell’Afghanistan sono state scoperte da una piccola squadra di funzionari del Pentagono e di geologi americani. Il governo afghano e il presidente Hamid Karzai sono stati recentemente informati, come riferito da funzionari americani.

Mentre potrebbero volerci molti anni per sviluppare una industria mineraria, il potenziale è così grande che i funzionari e i dirigenti del settore ritengono che questo potrebbe attrarre forti investimenti ancor prima che le miniere siano remunerative, fornendo cosi la possibilità di avere posti di lavoro che potrebbero distrarre dalle generazioni di guerra.

Il valore dei depositi di minerali di recente scoperta sminuisce le dimensioni dell’ attuale economia sporca dell’ Afghanistan, che si basa in gran parte sulla produzione di oppio e sul traffico di stupefacenti, nonché sull’aiuto degli Stati Uniti e di altri paesi industrializzati. Il Prodotto interno lordo dell’Afghanistan è solamente di circa 12 miliardi di dollari.

“Questa diventerà la spina dorsale dell’economia afghana”, ha riferito Jalil Jumriany, consigliere del ministro afghano delle miniere. (New York Times, op. Cit.)

L’Afghanistan potrebbe diventare, secondo il New York Times, ”l’Arabia Saudita del litio“. ”Il litio è una risorsa sempre più importante, utilizzata nelle batterie di telefoni cellulari e computer portatili ed elemento chiave per il futuro dell’auto elettrica.” Allo stato attuale il Cile, l’Australia, la Cina e l’Argentina sono i principali fornitori di litio sul mercato mondiale. Bolivia e Cile sono i paesi con le maggiori riserve conosciute di litio. ”Il Pentagono sta conducendo indagini sul campo nell’ Afghanistan occidentale. ”I funzionari del Pentagono hanno riferito che la loro prima analisi in una sola area nella provincia di Ghazni ha mostrato potenziali giacimenti di litio grandi come quelli della Bolivia” ( U.S. Identifies Vast Mineral Riches in Afghanistan – NYTimes.com –14 giugno 2010 – vedi anche Lithium – Wikipedia, the free encyclopedia )

 

 

I “depositi precedentemente sconosciuti” di minerali in Afghanistan

La stima di circa un trilione di dollari del Pentagono riguardo i precedentemente “depositi sconosciuti” è un utile cortina di fumo. Un trilione di dollari è più un numero inventato che una stima: “Abbiamo dato uno sguardo a ciò che sapevamo essere lì, e abbiamo chiesto quale sarebbe il valore attuale in dollari. Un trilione di dollari ci sembrava essere qualcosa che faceva notizia“(The Sunday Times, Londra, 15 giugno 2010, enfasi aggiunta)

Inoltre, i risultati di uno studio della Geological Survey (citato nella nota del Pentagono) riguardo le ricchezze minerarie dell’Afghanistan erano stati rivelati tre anni indietro, in una Conferenza del 2007 organizzata dalla Camera di Commercio afgana-americana. La questione delle ricchezze minerarie dell’Afghanistan, tuttavia, non è stata considerata degna di nota in quel momento.

Il riconoscimento da parte del governo americano di aver preso atto della vasta ricchezza mineraria dell’Afghanistan solamente a seguito della pubblicazione del rapporto USGS del 2007 è un evidente specchietto per le allodole. La ricchezza di minerali e delle risorse energetiche dell’Afghanistan (tra cui il gas naturale) erano note sia alle élite economiche americane che al governo degli Stati Uniti prima della guerra sovietico-afgana (1979-1988).

Le indagini geologiche condotte dall’Unione Sovietica negli anni ’70 e all’inizio del 1980 confermarono l’esistenza di vaste riserve di rame (tra le più grandi in Eurasia), di ferro, minerali di cromo di alta qualità, di uranio, berillo, barite, piombo, zinco, fluorite, bauxite, litio, tantalio, smeraldi, oro e argento. (Afghanistan, Mining Annual Review, The Mining Journal,, giugno 1984). Queste indagini suggeriscono che il valore reale di queste riserve potrebbe effettivamente essere sostanzialmente più grande della “stima” di un trilione di dollari dichiarata dallo studio del Pentagono-USCG-USAID.

Più recentemente, in un rapporto del 2002, il Cremlino ha confermato ciò che era già noto: “Non è un segreto che l’Afghanistan possiede ricche riserve , in particolare di rame nel deposito di Aynak, di ferro in quello di Khojagek, uranio, minerale polimetallico , petrolio e gas” (RIA Novosti, 6 Gennaio, 2002):

“L’Afghanistan non è mai stato colonia di nessuno – nessuno straniero aveva mai “scavato” qui prima del 1950. Le montagne dell’Hindu Kush si estendono, insieme con le loro colline, su una vasta area in Afghanistan, dove si trovano i minerali. Negli ultimi 40 anni, diverse decine di depositi sono stati scoperti in Afganistan, e la maggior parte di queste scoperte erano sensazionali. Sono state tenute segrete ma, anche così, alcuni fatti sono di recente diventati noti.

Si scopre allora che l’Afghanistan possiede riserve di metalli ferrosi e non ferrosi e pietre preziose, e, se sfruttate, avrebbero potuto, forse, essere in grado di coprire i guadagni del settore della droga. Il deposito di rame a Aynak, nella provincia di Helmand, nel sud dell’Afghanistan, si dice che sia il più grande del continente eurasiatico, e la sua posizione (a 40 km da Kabul) lo rende conveniente per lo sviluppo. Il deposito di minerale di ferro a Hajigak, nella centralissima provincia di Bamian, produce minerali di qualità straordinariamente elevata, le cui riserve sono stimate nell’ordine delle 500 milioni di tonnellate. Nelle vicinanze è stato scoperto anche un deposito di carbone.

Dell’Afghanistan si è parlato come di un paese di transito per il petrolio e il gas. Tuttavia, solo poche persone sanno che gli specialisti sovietici scoprirono enormi riserve di gas nel 1960 e costruirono il primo gasdotto nel paese per la fornitura di gas in Uzbekistan. All’epoca , l’Unione Sovietica riceveva 2,5 miliardi di metri cubi di gas afghano all’anno. Nello stesso periodo, sono stati scoperti grandi depositi di oro, fluorite, barite e onici di marmo che hanno un modello molto raro.

Tuttavia, i campi di pegmatite scoperti ad est di Kabul sono qualcosa di straordinario. Rubini, berillio, smeraldi, kunzite e hiddenite che non possono essere trovati altrove – i depositi di queste pietre preziose si estendono per centinaia di chilometri. Inoltre, le rocce contenenti metalli rari di ​​berillio, torio, tantalio e litio sono di importanza strategica (ad esempio per la costruzione di veicoli spaziali).

In Afghanistan vale la pena combattere una guerra … (Olga Borisova, ““Afghanistan – the Emerald Country”,Karavan, Almaty, originale russo, tradotto da BBC News Services, 26 Apr 2002 p. 10, enfasi aggiunta).

Mentre all’opinione pubblica l’ Afghanstan è stato presentato come  un paese in via di sviluppo senza risorse, lacerato dalla guerra, la realtà è ben diversa: l’Afghanstan è un paese ricco, come confermato dalle indagini geologiche  condotte dai sovietici.

La questione dei “depositi precedentemente sconosciuti” sostiene una falsità. Esclude la vasta ricchezza mineraria dell’ Afghanstan come un legittimo casus belli. Si dice che il Pentagono solo recentemente si sia reso conto che l’Afghanistan era fra le economie minerali più ricche del mondo, paragonabile alla Repubblica Democratica del Congo o all’ex Zaire dell’era Mobutu. Le relazioni geopolitiche sovietiche erano però note. Durante la Guerra Fredda, tutte queste informazioni erano conosciute nei minimi dettagli:

… l’ampia esplorazione Sovietica ha prodotto eccellenti carte geologiche e relazioni che elencano oltre 1.400 affioramenti di minerali, insieme a circa 70 depositi commercialmente validi … L’Unione Sovietica ha successivamente impegnato più di 650 milioni di dollari per l’esplorazione delle risorse e lo sviluppo in Afghanistan, con la presentazione di progetti, tra cui una raffineria di petrolio in grado di produrre mezzo milione di tonnellate all’anno, così come un complesso di fusione per il deposito di Ainak che doveva produrre 1,5 milioni di tonnellate di rame all’anno. Sulla scia del ritiro sovietico, una successiva analisi della Banca Mondiale, prevedeva che la sola produzione di rame a Ainak avrebbe potuto eventualmente acquisire  più del 2 per cento del mercato mondiale annuo. Il paese possiede anche enormi giacimenti di carbone, uno dei quali, il deposito di ferro di Hajigak, nella catena montuosa di Hindu Kush, a ovest di Kabul, è valutato come uno dei più grandi giacimenti di alta qualità in tutto il mondo. (John C. K. Daly,  Analysis: Afghanistan’s untapped energy, UPI Energy, , 24 ottobre 2008, enfasi aggiunta)

 

 

Il gas naturale dell’Afghanistan

L’Afghanistan è una sorte di ponte di terra. L’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan del 2001, guidata dagli Stati Uniti,è stata analizzata dai critici della politica estera americana come un mezzo per assicurarsi il controllo sul corridoio strategico dei trasporti trans-afghani, che collega il bacino del Mar Caspio verso il mare Arabico.

Sono stati contemplati diversi progetti trans-afghani di oleodotti e gasdotti, tra cui il progetto da 8 miliardi di dollari della pipeline  TAPI  (Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan, India), lunga 1900 km, che trasporterà gas naturale turkmeno attraverso l’Afghanistan, in quello che viene descritto come un “cruciale corridoio di transito “. (Vedi Gary Olson, Afghanistan has never been the ‘good and necessary’ war; it’s about control of oil, The Morning Call, 1 ottobre 2009). L’escalation militare sotto la prolungata guerra Af-Pak ha una relazione con TAPI. Il Turkmenistan possiede la terza più grande riserva di gas naturale dopo la Russia e l’Iran. Il controllo strategico sulle vie di trasporto fuori dal Turkmenistan era sull’agenda di Washington sin dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991.

Ciò che è stato raramente contemplato nella geopolitica dei gasdotti, tuttavia, è che l’Afghanistan è adiacente non solo a paesi ricchi di petrolio e gas naturale (ad esempio Turkmenistan), ma possiede anche all’interno del suo territorio consistenti riserve non sfruttate di gas naturale, carbone e petrolio. Stime sovietiche degli anni ’70 consideravano le riserve di gas  ”esplorate“ dell’ Afghanistan  pari a circa 5.000 trilioni di piedi cubi. Le riserve iniziali di Hodja-Gugerdag erano stimate a poco più di 2 trilioni di piedi cubi. “(Vedi The Soviet Union to retain influence in Afghanistan, Oil & Gas Journal, 2 maggio 1988).

La Energy Information Administration (EIA) ha riconosciuto nel 2008 che le riserve di gas naturale in Afghanistan erano “consistenti“:

“ L’ Afghanistan ha dimostrato di possedere riserve di gas naturale, probabili e possibili, stimate in circa 5 miliardi di metri cubi.’ (UPI, John C.K. Daly, Analysis: Afghanistan’s untapped energy,24 ottobre 2008)

Fin dall’inizio della guerra sovietico-afgana nel 1979, l’obiettivo di Washington è stato quello di mantenere un punto d’appoggio geopolitico in Asia centrale.

 

 

Il commercio di droga del Golden Crescent

La guerra segreta degli Stati Uniti, vale a dire il suo sostegno ai “combattenti per la libertà“, i Mujahideen, (cioè Al Qaeda), è stata anche orientata verso lo sviluppo del commercio di oppiacei del Golden Crescent , che è stato utilizzato dai servizi segreti degli Stati Uniti per finanziare la rivolta diretta contro i Sovietici.[1]

Insediato fin dall’inizio della guerra sovietico-afgana e protetto dalla CIA, il traffico di droga ha sviluppato negli anni affari altamente lucrativi di molti miliardi di dollari. E ‘stata la pietra angolare della guerra segreta degli Stati Uniti nel 1980. Oggi, sotto l’occupazione militare USA-NATO, il traffico di droga genera guadagni in denaro nei mercati occidentali superiori ai 200 miliardi di dollari all’anno. (Vedi Michel Chossudovsky, America’s War on Terrorism, Global Research, Montreal, 2005 – vedi anche Michel Chossudovsky, Heroin is “Good for Your Health”: Occupation Forces support Afghan Narcotics Trade, Global Research,  29 aprile 2007)

 

 

Verso una economia di saccheggio

I media americani, in coro, hanno confermato la “recente scoperta” delle ricchezze minerarie dell’Afghanistan come la “soluzione” per lo sviluppo dell’economia del paese lacerata dalla guerra, nonché come un mezzo per eliminare la povertà. L’ invasione e l’occupazione del 2001 da parte di USA-NATO,  hanno posto le basi per la loro appropriazione tramite conglomerati minerari ed energetici occidentali.

La guerra in Afghanistan è una “guerra delle risorse” orientata al profitto.

Sotto gli USA e gli alleati dell’occupazione, questa ricchezza di minerali sarà saccheggiata, una volta che il paese sarà stato pacificato, da una manciata di conglomerati minerari multinazionali . Secondo Olga Borisova, scrivendo nei mesi successivi all’invasione dell’ottobre del 2001, la “guerra al terrorismo guidata dagli Usa [si trasformerà] in una politica coloniale per influenzare un paese favolosamente ricco.” (Borisova, op cit).

Parte dell’agenda USA-NATO è anche quella di prendere finalmente possesso delle riserve di gas naturale dell’Afghanistan, nonché di prevenire lo sviluppo degli  interessi energetici russi, iraniani e cinesi in Afghanistan.

 

 

 
Note
1. Il commercio di oppiacei del Golden Crescent costituisce, allo stato attuale, il fulcro dell’economia di esportazione dell’Afghanistan. Il traffico di eroina, insediato fin dall’inizio della guerra sovietico-afgana nel 1979 e protetto dalla CIA, genera guadagni in denaro nei mercati occidentali di oltre 200 miliardi di dollari all’anno.

Sin dall’invasione del 2001, la produzione di stupefacenti in Afghanistan è aumentata di oltre 35 volte. Nel 2009, la produzione di oppio era pari a 6.900 tonnellate, rispetto alle meno 200 tonnellate nel 2001. A questo proposito, i guadagni di miliardi di dollari derivanti dalla produzione di oppio afgano in gran parte sono al di fuori dell’Afghanistan. Secondo i dati delle Nazioni Unite, i ricavi del traffico di droga derivanti dall’economia locale sono dell’ordine del 2-3 miliardi all’anno,in contrasto con le vendite mondiali di eroina derivante dal commercio di oppiacei afgani, al di sopra dei 200 miliardi di dollari. (Vedi Michel Chossudovsky, “America’s War on Terrorism”, Global Research, Montreal, 2005)

 
FONTE:
http://informazionescorretta.altervista.org/blog/la-guerra-che-val-la-pena-combattere-le-vaste-riserve-di-minerali-e-gas-naturale-dellafghanistan/

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

I PARADOSSI DELLA CRISI UCRAINA

$
0
0

L’intervento di Lorenzo Salimbeni, redattore di “Eurasia”, a “La voce della Russia” sulla crisi ucraina. 

 

Gli eventi che stanno succedendo in questi giorni in Ucraina sono al centro dell’attenzione in Italia e anche sopratutto da parte della rivista “Eurasia Studi Geopolitici” della quale io sono redattore. Il nostro punto di vista pero’ e’ abbastanza differente da quello dominante in Italia e nel resto diciamo dell’Europa Occidentale.

Il nostro punto di vista infatti e’ molto vicino, possiamo dire, a quello della Russia in quanto valutiamo quanto sta succedendo in Piazza Indipendenza di Kiev e qualche altra localita’ ucraina come una riproposizione di quella rivoluzione arancione che gia’ nel 2004 aveva sconvolto gli esiti delle urne che erano stati favorevoli all’esponente filorusso Janukovic, per portare invece al potere elementi legati a doppio filo con le strutture legate agli Stati Uniti d’America, alle varie multinazionali, per non parlare poi di tutte le organizzazioni non governative che allora come oggi hanno sostenuto con il famigerato manuale Sharp, ad esempio, che stava alla base di tutte le rivoluzioni colorate dell’epoca che hanno sostenuto appunto questi movimenti di piazza filooccidentali, critici nei confronti della Russia e dei trascorsi dell’epoca sovietica, ma anche di tutte le storie appunto di questi paesi che hanno vissuto per secoli nell’orbita e con legami culturali, economici, religiosi della Russia.

In particolare, se guardiamo l’Ucraina, dobbiamo anche tener presente del profondo legame storico con la Russia. La Russia nasce proprio a Kiev e solamente nel secondo tempo spostera’ poi la sua capitale a San Pietroburgo o a Mosca.

Li’ nasce appunto la spiritualita’ russa, e’ quindi una questione di forte legame politico, religioso e culturale che tiene unite e vicine l’Ucraina e la Russia.

Altro fattore che non sempre viene analizzato con la dovuta attenzione da parte dell’opinione pubblica italiana ed europea, occidentale in generale, e’ proprio anche la composizione interna dell’Ucraina che possiamo vedere come un paese profondamente diviso in due parti: una parte proprio russofona e legata profondamente con la Russia che e’ la parte orientale del paese, in cui e’ maggiormente sviluppato l’industria. L’altra parte invece e’ quella occidentale del paese con Kiev che sta proprio in mezzo come un baricentro. Ecco che invece questa parte occidentale si e’ sempre sentita piu’ legata all’Europa, piu’ influenzata dalla vicina Polonia, ed anche dal punto di vista religioso ci sono state nel corso dei secoli numerose ingerenze. Pensiamo, ad esempio, all’esperienza della Chiesa uniata o comunque a tutti i vari tentativi di infiltrazione da parte della Polonia. Va notato per l’appunto che proprio in questi giorni una delle voci piu’ critiche nei confronti di quello che sta succedendo in Piazza Indipendenza a Kiev giunga proprio dal ministero degli affari esteri della Polonia che si e’ fatto quasi portvoce di quelle che sono anche le preoccupazioni degli Stati Uniti d’America il cui ambasciatore a Kiev non ha perso tempo per esprimere la sua solidarieta’ nei confronti dei manifestanti ed esprimere quindi le preoccupazioni statunitensi nei confronti di quanto sta succedendo.

Andando a guardare Kiev scesa in piazza, fra l’altro, ci accorgiamo che troviamo un po’ tutto e il contrario di tutto, perche’ li ci sono sicuramente esponenti di movimenti liberali, filooccidentali e quant’altro, ma troviamo anche ultranazionalisti i quali scendono in piazza nelle fila del movimento “Svoboda” sventolando la vecchia bandiera rossa e nera che era stata utilizzata dalle formazioni ucraine collaborazioniste dopo che la Germania nazionalsocialista aveva invaso l’Unione Sovietica nel 1941.

Quindi c’e’ anche un revival di questi personaggi abbastanza discutibili, personaggi che in questi anni in cui in Ucraina con il ritorno al potere (quindi del presidente Victor Janukovic) e del suo primo ministro Azarov, ecco appunto queste manifestazioni hanno ripreso rigore ed hanno incominciato a protestare la loro politica che ha iniziato a riaprire il dialogo e il confronto con la Russia per ristabilire un legame che sia si’, culturale, politico, ma anche sopratutto economico.

Va anche detto che a livello europeo, certo, certa stampa, certa propaganda ha lavorato a favore dei manifestanti, ma da un punto di vista istituzionale le proteste non sono state cosi’ forti e veementi come era successo ad esempio nel 2004 in occasione della cosiddetta rivoluzione arancione.

Le autorita’ europee si rendono conto che oggi l’Ucraina e’ un paese importantissimo proprio per il transito del gas russo, per il suo arrivo in Europa. E proprio adesso, alle porte dell’inverno cominciare a sostenere un movimento antirusso che sicuramente per prima cosa bloccherebbe, comunque ostacolerebbe i rapporti economici e commerciali tra Kiev e Mosca, con grandi ricadute per i flussi energetici, sarebbe un duro colpo per l’Unione Europea.

Dai dati che abbiamo da come si sta evolvendo la situazione e sopratutto dal ruolo che la Russia sotto la guida di Vladimir Putin ha assunto in questi ultimi anni non penso che assisteremo ad una replica della rivoluzione arancione del 2004 che finirebbe a sovvertire l’esito delle urne deponendo il presidente eletto Viktor Janukovic. In questo momento probabilmente ci sara’ una tenuta da parte del governo che comunque potra’ presentare all’opinione pubblica i suoi contratti economici. Sono stati appena stipulati con la Cina che e’ una delle poche locomotive dell’economica mondiale in una fase in cui tra l’Unione Europea e Stati Uniti d’America l’economia va tutt’altro che bene e bisogna prendere anche questo in considerazione.

Queste proteste goderanno ancora dei riflettori della stampa, verranno presentate e portate avanti, ma in questo momento la capacita’, da parte delle organizzazioni non governative legate a doppio filo alle strutture atlantiste come quelle sostenute dall’Unione Europea non hanno piu’ quella capacita’ di penetrazione nel tessuto sociale ucraino che avevano nove anni fa. Mentre invece la Russia ha consolidato il suo ruolo, ha portato avanti quindi una politica di relazioni economiche e commerciali con l’Ucraina che si e’ dimostrata approffitevole per entrambe le parti. Sono stati avviati gia’ dei progetti per quanto riagurda sopratutto la fornitura di gas naturale e il suo transito e l’accordo militare per Sebastopoli.

In questo momento non penso che la situazione potra’ evolversi, come altrettanto penso che anche l’adesione dell’Ucraina all’Unione Euroasiatica non sia una cosa cosi’ imminente come alcuni vorrebbero, soprattutto a Mosca, anche perche’ in questa fase cosi’ delicata l’Ucraina anche per la sua diversa composizione sociale dovra’ probabilmente ancora a lungo continuare a restare in questa posizione intermedia e cercare di contenere queste varie spinte che ci sono al suo interno, arrivare ad una stabilita’ istituzionale ed economica tale da poter poi analizzare con calma e razionalmente la situazione attorno, valutare senza pregiudizi, preconcetti ideologici e barocchi della propaganda quella che puo’ essere la soluzione migliore, che e’, dal nostro punto di vista, proprio il discorso di integrazione euroasiatica secondo quelli che erano stati appunto i progetti non solo di Putin, ma anche, ad esempio, del presidente kazako Nursultan Nazarbaev. E quindi in questa fase ci sara’ ancora destabilita’, ma tutto sommato, ritengo che l’Ucraina rimarra’ comunque a seguire ancora la rotta che e’ stata di Janukovic e Azarov in questi ultimi tempi.

 

 

http://italian.ruvr.ru/radio_broadcast/6931448/125779253.html

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

FABIO FALCHI, LO SPAZIO INTERIORE DEL MONDO. GEOFILOSOFIA DELL’EURASIA, ANTEO EDIZIONI 2013-12-13

$
0
0

PREFAZIONE

di Claudio Mutti

Secondo una definizione complessiva che intende sintetizzare quelle fornite dai vari studiosi, la geopolitica può essere considerata come “lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale e geografica, ove si considerino l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati e le rivalità di potere su territori contesi tra due o più Stati, oppure tra diversi gruppi politici o movimenti armati”1.

Per quanto grande sia il peso attribuito ai fattori geografici, permane tuttavia il rapporto della geopolitica con la dottrina dello Stato, sicché viene spontaneo porsi una questione che finora non ci risulta aver impegnato la riflessione degli studiosi. La questione è la seguente: sarebbe possibile applicare anche alla geopolitica la celebre affermazione di Carl Schmitt, secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”2? In altre parole, è ipotizzabile che la stessa geopolitica rappresenti un’eco moderna, se non una derivazione secolarizzata, dei concetti teologici connessi alla “geografia sacra”?

Se così fosse, la geopolitica si troverebbe in una situazione per certi versi analoga non soltanto alla “moderna scienza dello Stato”, ma alla generalità delle scienze moderne. Per essere più espliciti, ricorriamo ad una citazione di René Guénon: “Separando radicalmente le scienze da ogni principio superiore col pretesto di assicurar loro l’indipendenza, la concezione moderna le ha private di ogni significato profondo e perfino di ogni interesse vero dal punto di vista della conoscenza: ed esse son condannate a finire in un vicolo cieco, poiché questa concezione le chiude in un dominio irrimediabilmente limitato”3.

Per quanto riguarda in particolare la “geografia sacra”, alla quale secondo la nostra ipotesi si ricollegherebbe in qualche modo la geopolitica, è ancora Guénon a fornirci una sintetica indicazione al riguardo. “Esiste realmente – egli scrive – una ‘geografia sacra’ o tradizionale che i moderni ignorano completamente così come tutte le altre conoscenze dello stesso genere: c’è un simbolismo geografico come c’è un simbolismo storico, ed è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo, perché esso è il mezzo che stabilisce la loro corrispondenza con realtà d’ordine superiore; ma, per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna esser capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà. È per questo che vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da ‘supporto’ all’azione delle ‘influenze spirituali’, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di certi ‘centri’ tradizionali principali o secondari, di cui gli ‘oracoli’ dell’antichità ed i luoghi di pellegrinaggio forniscono gli esempi esteriormente più appariscenti; per contro vi sono altri luoghi che sono non meno particolarmente favorevoli al manifestarsi di ‘influenze’ di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”4.

Non è detto che una traccia della “geografia sacra” non sia individuabile in alcune caratteristiche nozioni geopolitiche, che potrebbero essere perciò schmittianamente considerate “concetti teologici secolarizzati”. Si pensi, ad esempio, a termini mackinderiani come Heartland e pivot area, i quali, richiamando in maniera esplicita il simbolismo del cuore ed il simbolismo assiale, ripropongono in qualche maniera quell’idea di “Centro del Mondo” che gli antichi rappresentarono attraverso una varietà di simboli, geografici e non geografici. Più volte ci si è offerta l’occasione per osservare che, se la scienza delle religioni ha mostrato che l’homo religiosus “aspira a vivere il più possibile vicino al Centro del Mondo e sa che il suo paese si trova effettivamente nel centro della superficie terrestre”5, questa concezione non è scomparsa con la visione “arcaica” del mondo, ma è sopravvissuta in modo più o meno consapevole in contesti storico-culturali più recenti6.

D’altra parte, fra i termini geografici e geopolitici ve ne sono alcuni che le culture tradizionali hanno utilizzato per designare realtà appartenenti alla sfera spirituale. È il caso del termine polo, che nel lessico dell’esoterismo islamico indica il vertice della gerarchia iniziatica (al-qutb); è il caso di istmo, che nella forma araba (al-barzakh) indica quel mondo intermedio cui si riferisce anche l’espressione geografica d’origine coranica “confluenza dei due mari” (majma’ al-bahrayn), “confluenza, cioè, del mondo delle Idee pure col mondo degli oggetti sensibili”7.

Ma è lo stesso concetto di Eurasia che può essere assegnato alla categoria dei “concetti teologici secolarizzati”.

È infatti il più antico testo teologico dei Greci, la Teogonia esiodea, ad annoverare “Europa (…) ed Asia”8 tra le figlie di Oceano e di Teti, la “sacra stirpe di figlie (thygatéron hieròn génos) che sulla terra – allevano gli uomini fino alla giovinezza, insieme col Signore Apollo – e coi Fiumi: questa sorte esse hanno da Zeus”9.

È il caso di notare che tra le sorelle di Europa e di Asia figura anche Perseide, il nome della quale è significativamente connesso non solo a quello del greco Perseo, ma anche a quello di Perse, figlio di lui e progenitore dei Persiani. Ascoltiamo ora il teologo della storia: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome”10.

La stretta parentela dell’Asia con l’Europa è proclamata infine anche dal teologo della tragedia, il quale nella parodo dei Persiani ci presenta la Persia e la Grecia come due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe (kasignéta génous tautoû)”11, mostrandoci “gli assolutamente distinti (i Due che, in Erodoto, non possono non muoversi guerra) come alla radice inseparabili”12. Tale è il commento di Massimo Cacciari, al quale l’immagine eschilea, rappresentativa della radicale connessione di Europa e di Asia, ha fornito lo spunto per concepire il progetto di una “geofilosofia dell’Europa”.

Fabio Falchi intende andare oltre: in questo volume egli traccia le linee di una “geofilosofia dell’Eurasia”. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell’Eurasia quale luogo ontologico della teofania13, l’Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella “geosofica, la quale è compiutamente intellegibile se, e solo se, sia posta in relazione con la prospettiva metafisica”14.

 

 

 

 

 

1. Emidio Diodato, Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma 2011.

2. Carl Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, trad. it. di P. Schiera, in: C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio – P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61.

3. René Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni dell’Ascia, Roma 1953, p. 66.

4. René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 162.

5. Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 42.

6. Claudio Mutti, La funzione eurasiatica dell’Iran, “Eurasia”, 2, 2012, p. 176; Geopolitica del nazionalcomunismo romeno, in: Marco Costa, Conducǎtor. L’edificazione del socialismo romeno, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012.

7. Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, p. 154. Sul barzakh, cfr. Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, Mimesis, Milano-Udine 209, pp. 97-123.

8. Esiodo, Teogonia, 357-359.

9. Esiodo, Teogonia, 346-348.

10. Erodoto, VII, 61, 3.

11. Eschilo, Persiani, 185-186. Su questa immagine, cfr. C. Mutti, L’Iran in Europa, “Eurasia”, 1, 2008, pp. 33-34.

12. Massimo Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 19.

13. “L’Eurasia è, oggi e per noi, la modalità geografico-geosofica del Mundus imaginalis” (Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, cit., p. 40).

14. Glauco Giuliano, Tempus discretum. Henry Corbin all’Oriente dell’Occidente, Edizioni Torre d’Ercole, Travagliato (Brescia) 2012, p. 16.

 

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

TATARI DI LIPKA E CARAIMI: I TURCHI DELLA MITTELEUROPA

$
0
0

La Lituania alla fine del XIV secolo

Alla fine del Trecento il Granducato di Lituania era lo Stato più grande d’Europa. La sua notevole espansione era il risultato di una campagna iniziata attorno al 1240 quando, approfittando della debolezza della Rus’ di Kiev a seguito dell’invasione mongola, il principe Mindaugas conquistò Smolensk (attualmente in Russia) e l’alto corso della Dvina Occidentale o Daugava[1]. Nei decenni successivi il Paese si espanse verso est e sud-est, conquistando Kiev, arrivando nei pressi di Mosca e respingendo nel contempo i continui attacchi dei Cavalieri dell’Ordine Teutonico che premevano dalle attuali Estonia e Lettonia. Alla fine del Trecento, così, il Granducato giunse a lambire le coste del Mar Nero. Eppure la Lituania del Tardo Medioevo rimaneva un Paese arretrato per gli standard europei, tanto per lo sforzo bellico quanto per la continua adesione al paganesimo (i Lituani furono l’ultimo popolo europeo ad abbracciare il Cristianesimo)[2].

Jogaila (ossia il re di Polonia Ladislao II Jagellone) e suo cugino Vitoldo, che tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento governarono la Lituania in codominio (e non senza screzi), pensarono di superare quest’impasse in due modi. Il primo fu la conversione al Cattolicesimo: ciò, oltre ad allontanare la Lituania da una Mosca verso cui pure sembrava pendere, consentì la nascita di una relazione speciale con la Polonia che, nel 1569, portò all’istituzione della Confederazione Polacco-Lituana. Il secondo fu l’attrazione dei migranti. Questa politica era tutt’altro che nuova: già agli inizi del Trecento, infatti, il granduca Gediminas aveva promosso l’afflusso di mercanti e rappresentanti della Lega Anseatica e consentito ai sacerdoti cattolici di celebrare messa per i nuovi arrivati, vietando loro però di fare proselitismo[3]. Gediminas, inoltre, aveva favorito l’afflusso di commercianti ebrei attraverso la concessione di alcuni privilegi, che furono riconfermati da Vitoldo e che trasformarono la Lituania in un porto sicuro per un gran numero di ebrei in fuga dalle innumerevoli persecuzioni[4]. Gli Ebrei, che come nel resto dell’Europa si affermarono soprattutto nel commercio, nella finanza e nella cultura, costituirono fino all’Olocausto un segmento importante della popolazione dei territori un tempo parte del Granducato, soprattutto nelle città: basti pensare che nel 1897 costituivano il 40% degli abitanti di una Vilnius non a caso soprannominata “Gerusalemme d’Occidente”[5], e che nello stesso anno a Minsk questa percentuale saliva addirittura al 51,2%[6]. Tra le varie comunità richiamate da Vitoldo, però, non si possono non menzionare due gruppi che, malgrado la loro minore consistenza numerica, hanno comunque contribuito a scrivere una pagina importante della storia di questa fetta di Europa centro-orientale: i Tatari di Lipka e i Caraimi.

Tatari di Lipka e Caraimi sono entrambi popoli turchi di stirpe kipchak, affini quindi agli altri Tatari, ai Baschiri, ai Kazachi e ai Kirghisi, e giunsero in Lituania alla fine del XIV secolo per popolare il Granducato e rafforzarne la sicurezza. Ma le affinità tra questi due popoli si fermano qui. I primi, infatti, sono gli eredi dei membri dell’Orda Bianca[7] che, a seguito della sconfitta di quest’ultima da parte di Tamerlano, chiesero, e ottennero, asilo politico in Lituania[8]. I secondi, invece, discendono dalle tribù del Khanato dei Cazari, locato tra le attuali Russia e Ucraina Orientale, che intorno al IX secolo abbracciarono l’Ebraismo[9]. Non meno importanti sono le differenze religiose: se i Tatari di Lipka sono musulmani sunniti, sebbene nella prassi risentono delle influenze tanto del loro sciamanesimo tradizionale quanto del Cristianesimo dominante nella regione, i Caraimi praticano il Caraismo[10], una branca della religione ebraica nata nel VIII secolo in una Mesopotamia controllata dal Califfato[11] Abbaside che accolse alcune delle critiche mosse dall’Islam all’Ebraismo tradizionale o rabbinico: in antitesi a quest’ultimo, ad esempio, il Caraismo riconosce la sola Bibbia come base della vita religiosa e ripudia il Talmud, ossia le varie interpretazioni rabbiniche.

 

 

I Tatari di Lipka: un modello di integrazione?

Giunti nel Granducato nel 1397, i Tatari di Lipka erano originariamente stanziati nella città di Grodno (in bielorusso Hrodna) e nell’attuale Lituania orientale (da cui l’appellativo di Lipka, ossia di Lituania), per poi diffondersi in tutto il Granducato e in Polonia. La storica Battaglia di Grunwald del 1410, durante la quale Polonia e Lituania inflissero una pesante sconfitta ai Cavalieri Teutonici, fu la prima grande operazione militare a cui parteciparono i Tatari di Lipka. Il loro contributo per la vittoria polacco-lituana fu notevole e consentì alla cavalleria tatara di affermarsi come corpo scelto dell’esercito prima lituano e poi della Confederazione[12].

Ciò contribuì in maniera non indifferente all’integrazione nel contesto sociale polacco-lituano dei Lipkani, che comunque non si assimilarono mai del tutto ai loro vicini di casa e anzi mantennero un’identità peculiare. Nel Cinquecento la maggior parte di loro aveva ormai dimenticato la propria lingua madre e parlava solo o soprattutto in bielorusso (molti, infatti, si erano stabiliti nell’odierna Bielorussia o nei pressi della stessa) o in polacco (la nobiltà). I Tatari, così, iniziarono a tradurre in bielorusso il Corano e altri testi sacri dell’Islam, trascrivendoli però in una variante dell’alfabeto arabo appositamente creata[13]. Allo stesso modo, nel corso dei secoli i Tatari di Lipka hanno assimilato molte usanze dei popoli cristiani con cui convivono, come quella di portare fiori ai defunti il 2 novembre o di fare regali ai bambini a Natale (a cui, però, non davano alcun significato religioso). A differenza che nella gran parte delle comunità musulmane, inoltre, le donne godono di una sostanziale parità con gli uomini, il velo è praticamente assente fuori dalle moschee e i matrimoni con Cristiani ed Ebrei (e persino le conversioni ai loro credi) non sono stati infrequenti. La gran parte dei Tatari di Lipka, però, rimaneva (e rimane) fedele al proprio Islam profondamente influenzato da alcune consuetudini preislamiche, come la credenza negli spiriti del bene e del male[14].

Vitoldo, che vide nei Tatari di Lipka uno strumento per rafforzare tanto la sua posizione quanto la difesa del Granducato, aveva concesso a questi ultimi non solo asilo politico, ma anche terre e l’ingresso nella szlachta (nobiltà). In cambio i Tatari erano soggetti al servizio militare obbligatorio. La cavalleria tatara si dimostrò a lungo molto fedele, e nemmeno i Tatari di Crimea, vassalli dell’Impero Ottomano, riuscirono a convincere i Lipkani a disertare e a passare dalla loro parte, malgrado i legami etnici e religiosi tra i due gruppi; in diverse battaglie, anzi, questi si trovarono su fronti opposti. La situazione, però, cambiò notevolmente nella metà del Seicento. La rivolta cosacca di Bogdan Chmel’nickij in Ucraina e la guerra russo-lituana provocarono un deciso peggioramento delle condizioni di vita dei Tatari, mentre una serie di saccheggi gettò il discredito sull’intera comunità agli occhi della szlachta[15]. Il risultato fu l’approvazione di alcune leggi che limitavano fortemente i diritti religiosi dei Lipkani e abolivano molti dei privilegi che gli spettavano in quanto membri della szlachta. Questi provvedimenti suscitarono un forte malcontento tra i Lipkani e, tra il novembre del 1671 e la primavera dell’anno successivo, una dozzina di divisioni tatare stanziate nei pressi della fortezza di Kamenec-Podol’skij (Kam’janec’-Podil’s’kyj in ucraino), all’epoca ultimo baluardo della Confederazione prima delle terre turche, disertarono e passarono sotto l’Impero Ottomano.

Fu l’inizio della Rivolta Tatara: i Turchi conquistarono la fortezza di Kamenec-Podol’skij senza trovare resistenze, e molti villaggi furono saccheggiati dai Lipkani in rivolta mascherati da soldati della Confederazione, prima che questi fossero rasi al suolo da Ottomani e Tatari di Crimea. Tuttavia, sebbene l’Impero Ottomano avesse concesso ai Tatari di Lipka alcuni privilegi, questi erano molto inferiori a quelli di cui essi godevano quando erano sudditi della Confederazione. Il malcontento serpeggiava, e il nuovo re di Polonia Giovanni III Sobieski, che nutriva un profondo rispetto verso i Tatari dopo aver combattuto con loro in diverse battaglie, riuscì senza troppe difficoltà a convincere gran parte dei ribelli a tornare sotto la Confederazione in cambio della restituzione del loro status precedente e della concessione di nuove terre. Di lì a poco arrivò il 1683, con l’ultimo ma decisivo assedio ottomano a Vienna, e l’allora Papa Innocenzo XI promosse la creazione di una Lega Santa per respingere i Turchi, a capo della quale fu posto Giovanni III. Furono in molti, tra i Tatari, a partecipare alla campagna che Giovanni III organizzò per respingere l’assedio turco, e tra loro diversi erano gli ex rivoltosi. Il loro apporto, sebbene non decisivo, fu comunque notevole, e fu proprio un colonnello tataro, qualche settimana dopo la storica vittoria che segnò la fine della fase espansionista dell’Impero Ottomano e l’inizio del suo declino, a salvare la vita al sovrano polacco durante una sanguinosa fase della Battaglia di Párkány[16].

L’idea secondo cui dei musulmani possano aver avuto un certo ruolo nel salvare l’Europa cristiana dalla minaccia dell’impero musulmano che all’epoca ospitava il Califfato può sembrare quantomeno stupefacente, ma è un chiaro indice della fedeltà e del grado di integrazione dei Tatari di Lipka. Un aneddoto racconta che, quando il principe Carlo d’Inghilterra visitò il villaggio tataro di Kruszyniany, al confine tra Polonia e Bielorussia, e chiese ai Lipkani come avessero potuto combattere contro i loro fratelli in quel fatidico 1683, la risposta fu semplice: “Noi non combattevamo i nostri fratelli, ma gli invasori”[17]. I Tatari sono rimasti leali al loro Paese anche a seguito delle Spartizioni della Polonia alla fine del Settecento: molti di loro, infatti, sostennero la causa indipendentista durante l’occupazione russo-austro-germanica, e uno degli animatori del Partito Socialista Polacco di ispirazione nazionalista fu il tataro Aleksander Sulkiewicz (nato Iskander Mirza Huzman Beg Sulkiewicz). La rinascita della Polonia indipendente nel 1919 fu accompagnata dalla ricostituzione di un reggimento tataro, ma il ritorno dei Tatari nell’esercito ebbe vita breve: venti anni dopo, con la divisione del Paese tra Germania e URSS a seguito del Patto Molotov-Ribbentrop, il reggimento fu sciolto e mai più ricostituito.

Oggi i Tatari di Lipka sono circa 10.000-15.000. I più vivono sparsi tra Polonia orientale, Bielorussia e Lituania, dove ancora oggi hanno dei propri villaggi con annessa moschea, e non pochi, nelle aree un tempo sottoposte al dominio della Confederazione, possono vantare un’ascendenza parzialmente tatara. A causa dell’emigrazione, poi, anche negli Stati Uniti esiste una florida comunità tatara, e un suo figlio illustre è il celebre attore Charles Bronson (nato Buchinsky), le cui sembianze amerindie, dovute però alla sua ascendenza parzialmente asiatica, gli hanno consentito diverse interpretazioni in vari film western, tra cui il celeberrimo C’era una volta il West. I Tatari di Lipka, pur avendo smesso ormai da diversi secoli di parlare il loro idioma d’origine, mantengono ancora oggi un’identità di popolo in virtù della loro storia, della loro fede religiosa e della loro identità. Oggi, tuttavia, sono minacciati dall’assimilazione alle etnie dominanti, dovuta soprattutto alla perdita ormai da diversi decenni del loro status di casta militare.

I Lipkani sono un modello per gli immigrati europei di religione musulmana? La questione è di forte attualità, viste la forte immigrazione dai Paesi islamici verso l’Europa e la non sempre facile convivenza tra i locali e i nuovi arrivati. Il caso dei Tatari di Lipka è chiaramente sintomatico di un’integrazione possibile e dev’essere studiato con attenzione da chi si occupa di queste tematiche; va però sottolineato che, se oggi i Lipkani sono cittadini polacchi, bielorussi o lituani a pieno titolo, il merito non va solo alla tolleranza del Granducato di Lituania prima e della Confederazione dopo verso una minoranza musulmana e alla loro capacità di valorizzarne le capacità, ma anche alla reale propensione dei Tatari a identificarsi prima di tutto come sudditi di uno Stato cristiano e non come membri dell’umma, ossia della comunità dei fedeli islamici, e quindi a contribuire allo sviluppo e alla difesa della nazione in cui vivevano. L’integrazione di una nuova minoranza, in ogni caso, non può essere simultanea, e su questo concordano gli stessi Tatari di Lipka che oggi aiutano gli immigrati di religione musulmana ad integrarsi nella società polacca. Uno di loro, il leader dei musulmani polacchi Tomasz Aleksandrowicz, afferma: “Ciò che abbiamo creato in Polonia è il nostro bene comune. Abbiamo impiegato secoli per raggiungerlo. (L’integrazione) non può avvenire da un giorno all’altro”[18].

 

 

I Caraimi: Ebrei o Turchi?

Anche i Caraimi (Karailar in lingua caraima), come i Tatari di Lipka, erano stati assunti nel 1397 dal granduca Vitoldo di Lituania come minoranza militare, ma a differenza dei Tatari il loro ruolo non era partecipare a campagne militari, bensì fungere da guardie del corpo del Castello di Trakai, nei pressi di Vilnius[19]. A Trakai i Caraimi abitavano in un quartiere separato, e ancora oggi la strada principale della cittadina baltica porta il nome di Karaimų gatvė, ossia “Via dei Caraimi”. Nei decenni successivi i Caraimi si insediarono in varie città del Granducato, ma mantennero la loro “capitale” a Trakai, e nel 1441 ottennero il diritto all’autogoverno[20].

Nel corso della loro storia i Caraimi persero la loro vocazione bellica e iniziarono a svolgere professioni civili, soprattutto nel giardinaggio, nell’allevamento e in varie occupazioni urbane, assimilandosi così agli altri Ebrei salvo che nella lingua (gli Ebrei del Granducato parlavano perlopiù yiddish, mentre i Caraimi conservarono il loro idioma simile al tataro; per un certo periodo, però, anche questi ultimi scrissero con l’alfabeto ebraico) e nella religione, visto che quasi tutti i non-Caraimi di religione ebraica erano rabbinici. Anche i Caraimi, al pari degli Ebrei, furono spesso vittime di discriminazioni: nel 1495 entrambi i gruppi furono espulsi dalla Lituania, nella quale furono però riammessi otto anni dopo, e nella Russia zarista tanto i Caraimi (la maggior parte dei quali viveva però in Ucraina) quanto gli Ebrei furono costretti a rimanere all’interno della cosiddetta Zona di Residenza[21]. A partire dall’Ottocento, però, per evitare le persecuzioni e le restrizioni alle quali erano soggetti gli altri Ebrei, i Caraimi cercarono, e con successo, di dimostrare la loro estraneità all’Ebraismo rabbinico[22]. Per raggiungere il loro obiettivo non esitarono a ricorrere a falsificazioni storiche: Abrāhām Firkovič, ad esempio, falsificò date e iscrizioni per dimostrare la presenza caraita in Crimea sin dal VI secolo a.C., e quindi l’estraneità dei loro avi alla crocifissione di Gesù[23].

Successivamente i Caraimi hanno persino rinunciato ad autodefinirsi “ebrei”, rivendicando le loro origini cazare e quindi la propria identità turca (ancora oggi, nel loro sito ufficiale, i Caraimi definiscono la loro religione come “una pura fede nell’Antico Testamento nella quale né il Talmud, né il Nuovo Testamento né il Corano hanno valore religioso” e non fanno alcuna menzione all’Ebraismo, malgrado sia intuibile che il Caraismo è di fatto una variante di quest’ultimo[24]). Questo processo di turchizzazione passò attraverso una serie di atti simbolici, come l’abolizione dello studio dell’ebraico nelle scuole caraime e la sostituzione dei nomi ebraici per le festività religiose con termini in lingua caraima. Ciò consentì loro, durante il nazismo, di essere risparmiati dall’Olocausto in quanto “turchi” e non “giudei” (a differenza dei krymčaki o Ebrei di Crimea, etnicamente affini ai Caraimi ma di estrazione rabbinica). I Caraimi, tuttavia, spesso sfruttarono il loro status per salvare numerosi Ebrei dall’Olocausto facendoli passare per membri della loro comunità: uno di questi era Mordechaj Tenenbaum, l’organizzatore della rivolta del Ghetto di Białystok[25].

I Caraimi vivono oggi tra Ucraina (Crimea), Lituania, Russia, Polonia e Israele. La maggior parte dei Caraimi europei risiede oggi in Ucraina, dove sono attive ben 11 comunità laddove in Russia il loro numero è fermo a 2 e in Polonia e in Lituania a 1[26]. Il numero di quelli residenti in Israele, invece, è sconosciuto[27]. La tendenza, però, è verso una lenta ma inesorabile contrazione del numero dei Caraimi europei, causata soprattutto dall’assimilazione alle etnie cristiane o musulmane, dalle politiche antireligiose condotte in epoca sovietica che hanno portato alla chiusura o alla demolizione di numerose sinagoghe (kenese), che a loro volta hanno causato la scomparsa di molte comunità che si sono viste private di un importante punto di riferimento, e dal forte decremento demografico che caratterizza molte di queste regioni. Solo 32 dei 257 Caraimi di Lituania hanno meno di 16 anni, mentre gli ultrasessantenni sono 76, e solo a Vilnius e a Trakai le nuove leve sono in numero sufficiente per garantire la sopravvivenza delle comunità ancora per qualche decennio[28]. La lingua caraima, invece, non sembra essere a rischio, almeno nel prossimo futuro: malgrado oggi solo gli anziani la parlino come madrelingua, sono attualmente attive alcune scuole domenicali per consentire l’apprendimento del caraimo alle generazioni più giovani[29]. Anche la religione e le tradizioni restano vive tra i Caraimi. In generale, malgrado le difficoltà, i discendenti delle guardie del castello di Trakai sembrano mantenere viva la loro identità proteggendosi dall’assimilazione alle etnie dominanti.

 





[1] R. Tuchtenhagen, Storia dei Paesi Baltici, Il Mulino, Bologna 2005, p. 30.

[2] A. Kasekamp, A History of the Baltic States, Palgrave Macmillan, Londra 2010, p. 24.

[3] Ivi, p. 21.

[4] Ivi, p. 25.

[7] L’Orda Bianca è uno dei tanti khanati nati dalla frantumazione dell’Impero Mongolo di Gengis Khan, locato nell’odierno Kazakistan.

[10] Si noti la differenza tra Caraimi e Caraiti: se il primo indica l’etnia, il secondo la religione.

[11] Il Califfato è l’istituzione guida dell’umma, la comunità dei fedeli islamici.

[15] Molti Tatari facevano parte della szlachta, ma nel complesso questi costituivano una piccola minoranza.

[18] Ibidem.

[21] La Zona di Residenza era un territorio dell’Impero Russo compreso tra le attuali Polonia, Lituania, Bielorussia e Ucraina destinato all’insediamento degli Ebrei.

[23] Vedasi Enciclopedia Treccani, voce Caraismo.

[27] L’assenza di dati disponibili sul numero dei Caraimi in Israele è dovuta a motivi religiosi: questi, infatti, affermano che sulla base di quanto scritto su un versetto della Genesi è vietato conteggiare i fedeli. Le stime, comunque, oscillano tra 30.000 e 50.000 Ebrei caraiti, mentre sono totalmente assenti nei riguardi dei Caraimi etnici (fonte:  http://www.nytimes.com/2013/09/05/world/middleeast/new-generation-of-jewish-sect-takes-up-struggle-to-protect-place-in-modern-israel.html?pagewanted=1&_r=0 ).

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

IL “RIBILANCIAMENTO STRATEGICO” DI MOSCA

$
0
0

Le rivelazioni provenienti dalla stampa tedesca, secondo cui Mosca avrebbe ordinato lo schieramento di 24 missili Iskander presso Kaliningrad, città russa (che ha dato i natali al grande filosofo Immanuel Kant) incastonata tra Polonia e Lituania, rappresentano la conferma di un processo già in atto da più di un anno, nonché la consacrazione della Russia quale principale avversario geopolitico degli Stati Uniti. La gittata che gli Iskander sono in grado di coprire permette al Cremlino di tenere sotto tiro Berlino, che si situa a circa 530 km dalla piccola enclave russa. Gli osservatori internazionali che hanno criticato la condotta russa condannandone il carattere intimidatorio si sono guardati bene dal mettere in relazione la decisione di Mosca con l’atteggiamento tenuto dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi decenni.

Fin da quando l’agonizzante Unione Sovietica stava avviandosi verso il collasso, Mikhail Gorbaciov aveva cominciato a rinunciare a una miriade di posizioni pur di strappare a Ronald Reagan la promessa che la NATO non si sarebbe allargata verso est. Inutile ricordare che Washington disattese puntualmente ogni accordo, preoccupandosi di estendere i confini dell’Alleanza Atlantica a ridosso delle frontiere russe. Con il passare degli anni un numero crescente di Paesi appartenenti all’Europa orientale è finito, o attraverso passaggi graduali ben consolidati (associazione all’Unione Europea e successiva adesione alla NATO) o attraverso processi destabilizzanti etero-diretti (le varie “rivoluzioni colorate”), per gravitare nello schieramento occidentale.

Ma la ripresa della Russia sotto la guida di Vladimir Putin ha frenato i piani di estensione dell’Alleanza Atlantica, spingendo gli USA ad adottare una linea operativa maggiormente aggressiva. Così, sotto la presidenza repubblicana di George W. Bush, sorretta dalla fazione dei nocons, Washington elaborò il piano relativo al cosiddetto “scudo antimissile”, un temibile strumento militare spacciato per difensivo nonostante sia in grado di spezzare il delicato equilibrio strategico, dal momento che garantisce, a chi ne dispone, la possibilità di lanciare un attacco (first strike) contro l’avversario senza imbattere in alcun tipo di rappresaglia (second strike). Per questa ragione Putin, nel corso dell’inaugurazione di un terminale petrolifero nei dintorni di Vladivostok del dicembre 2009, ha dichiarato che «La Russia deve sviluppare armi offensive per far fronte allo scudo antimissile americano. E se vogliamo salvaguardare l’equilibrio, dobbiamo stabilire lo scambio di informazioni» (1).

L’avvicendamento tra Bush e Obama, con il corollario di basso profilo e altisonante retorica che generalmente contraddistinguono il modus operandi della fazione democratica, ha inaugurato l’adozione di una tattica meno spregiudicata rispetto a quella preferita dai neocons ma non per questo meno ostile nei confronti di Mosca. La sottoscrizione del trattato Start III nel 2010 da parte di Barack Obama e del presidente russo Dmitrij Medvedev ha suscitato la proliferazione di una pubblicistica inneggiante all’imminente disarmo bilaterale, malgrado tale accordo vincolasse entrambi i Paesi firmatari a limitare solo ed esclusivamente le testate nucleari dispiegate, installate su vettori strategici (ovvero a lunga gittata), senza far cenno alla riduzione di quelle operative mantenute negli arsenali e a quelle dismesse ma non ancora smantellate (e quindi ipoteticamente riutilizzabili). Il criterio fissato per la conta imponeva poi di considerare per singola unità nucleare sia ciascuna testata missilistica sia ciascun bombardiere strategico, laddove i velivoli appartenenti a questa tipologia sono capaci di trasportare oltre 20 testate cadauno. Tale escamotage ha di fatto limitato le responsabilità di entrambe le parti alla riduzione del 10% delle testate nucleari schierate, portandole a 1.550 unità. Il documento non conteneva, inoltre, alcun cenno né alla limitazione della proliferazione, né alla regolamentazione delle modalità di sviluppo qualitativo degli arsenali nucleari, né alla riduzione delle armi tattiche che gli Stati Uniti conservano nei diversi Stati della NATO (tra cui spiccano i nomi di Germania, Italia e Turchia) né, soprattutto, all’abolizione del progetto per il cosiddetto “scudo antimissili”.

A ciò è dovuto lo schieramento dei missili Iskander, fortemente caldeggiato dai vertici delle forze armate russe, le quali interpretano il dispiegamento dello “scudo” come la massima espressione della reale volontà di cui sono titolari i comparti decisionali statunitensi, che mirano a gettare una seria ipoteca sulla determinazione dei futuri rapporti di forza internazionali.
La correttezza di tale interpretazione è ampiamente suffragata dal fatto che gli Stati Uniti hanno predisposto lo schieramento di un numero imprecisato di missili – di cui si riservano il diritto di occultarne, oltre al numero, anche tipologia ed eventuale gittata – a brevissima distanza dai confini russi, in una posizione da cui risulterebbe maggiormente agevole il compito di sorvegliare, attraverso i numerosi sistemi satellitari di cui dispone il Pentagono, le attività di Mosca.

Già nel mese di maggio il governo di Bucarest ha autorizzato Washington ad usufruire del territorio rumeno per dislocarvi missili mobili di tipologia SM-3 e, susseguentemente, il medesimo permesso è stato accordato dalla Polonia, in cui verranno installate numerose batterie di missili Patriot.
Mosca ha agito con prudenza, inoltrando alle autorità statunitensi la richiesta relativa alla stesura di un trattato con la NATO che stabilisse vincoli di natura legale rispetto alle modalità di dispiegamento dello “scudo”e specificasse numero, tipologia e luogo di installazione di missili e radar.

Washington ha opposto un secco rifiuto, incaricando il segretario della NATO Anders Fogh Rasmussen di argomentare tale decisione facendo leva su concetti vacui e intangibili come la “fiducia reciproca” che dovrebbe animare il rapporto tra NATO e Russia allo scopo di archiviare definitivamente il clima “da Guerra Fredda” malauguratamente calato sullo scenario internazionale nel corso degli ultimi anni. Una “fiducia” che Rasmussen esorta Mosca ad accordare nonostante Obama abbia palesemente ignorato le rimostranze del Cremlino inviando nelle acque del Mar Nero l’incrociatore Monterey munito del sofisticato sistema di combattimento Aegis – sviluppato dalla Lockheed Martin, capace di rielaborare i dati captati dai radar incrociandoli con le informazioni contenute all’interno di un vasto database aggiornato di volta in volta – affinché prendesse parte all’esercitazione militare “Sea Breeze 2011″, congiunta con l’Ucraina.

Oltre che nel Mar Nero, l’attività militare della NATO si è concentrata presso le repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania, con le esercitazioni “Open Spirit” del maggio 2012 e “Baltops” e “Saber Strike” del giugno 2012. Al summit della NATO tenutosi a Chicago nel maggio 2012 è stato inoltre annunciato che la «Missione di polizia aerea negli Stati baltici continuerà» (2), ossia che unità aeree a duplice capacità convenzionale e nucleare targate NATO verranno permanentemente dislocate nell’aeroporto militare lituano di Zokniai. Il Mar Baltico viene selezionato per ospitare l’esercitazione “Steadfast Jazz”, volta ad incrementare la capacità dell’Alleanza di «Effettuare più ampie operazioni congiunte di gestione delle crisi» (3). E mentre il ministro degli esteri Sergeij Lavrov condannava l’episodio, chiarendo che «La parte russa ha più volte sottolineato che non lascerà senza attenzione la comparsa nelle immediate vicinanze dei suoi confini degli elementi delle infrastrutture strategiche nordamericane che saranno considerati una minaccia alla sicurezza nazionale» (4), la Casa Bianca otteneva dal governo spagnolo l’assenso per dislocare nella base NATO di Rota, in Andalusia, navi da guerra dotate del medesimo sistema Aegis, destinate a rafforzare la presenza statunitense nel Mediterraneo e nell’Atlantico nord-orientale. A sgombrare ogni dubbio residuo in relazione alle intenzioni statunitensi è poi intervenuto il governo di Anakara, che nell’ottobre 2011 ha firmato un accordo in base al quale Washington otteneva l’autorizzazione per installare di un impianto radar di tracciamento dei missili nel distretto di Kuluncak, nella provincia di Malatya.

Nonostante le reiterate rassicurazioni fornite da Obama e da svariati ministri statunitensi – secondo i quali lo “scudo” servirebbe a fronteggiare una “ipotetica”, futura minaccia nucleare iraniana –, Mosca ha ritenuto che l’aggressivo atteggiamento statunitense fosse rivolto, oltre ogni ragionevole dubbio, contro la Russia.  Qualora la struttura portante di questo poderoso sistema dovesse, in futuro, raggiungere una sufficiente soglia di affidabilità (Rasmussen ha stimato che lo “scudo” dovrebbe divenire pienamente operativo entro il 2018), Washington potrebbe lanciare il fatidico attacco verso una qualsiasi potenza nucleare alla luce dell’invulnerabilità garantita dello “scudo” dalle scontate ritorsioni che il Paese colpito sferrerebbe contro il suolo degli Stati Uniti.

Per questa ragione Mosca ha profuso sforzi considerevoli dai quali e scaturita la messa a punto della micidiale tipologia di missile balistico intercontinentale Topol-M, progettato con lo scopo specifico di perforare le difese dello “scudo”. Tale missile può essere installato su silos (nella versione originale) o su veicoli mantenuti in movimento (nella sua variante) per eludere i rilevamenti satellitari avversari. E’ lungo 21 m, pesante circa 50.000 kg, dotato di propellente solido e capace di coprire una gittata pari a 11.000 km.

Esso è inoltre difficilmente individuabile dai sistemi radar, capace di resistere a qualsiasi tipo di sollecitazione esterna e dotato di una testata che, una volta sganciatasi dagli organi di propulsione, è in grado di raggiungere l’obiettivo dopo aver effettuato brusche alterazioni di traiettoria per sfuggire ad eventuali missili intercettori.

Il che significa che le autorità russe hanno preso atto del carattere eminentemente offensivo e destabilizzante di tale “scudo”, la cui realizzazione non risponde ad alcuna necessità di difendere e rendere più sicura l’Europa, ma a saldare il legame tra Washington e le grandi capitali europee assicurando agli Stati Uniti un incommensurabile vantaggio strategico sui propri avversari.

 

 


1) “Il Sole 24 Ore”, 29 dicembre 2009.

2) “Il Manifesto”, 30 maggio 2012.

3) Ibidem.

4) “Georgia Times”, 11 luglio 2011.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

UE-UCRAINA-RUSSIA: IMPERATIVI EURASIATICI

$
0
0

Lorenzo Salimbeni, redattore di “Eurasia”, a  “La voce della Russia” . 

 

Tutte queste proteste nascono proprio dalla rinuncia fatta dal primo ministro Azarov di sottoscrivere l’accordo di partenariato con l’Unione Europea al vertice che si e’ tenuto a fine novembre. Un vertice in cui anche altri paesi dell’ex area dell’Unione Sovietica hanno preso posizioni abbastanza divergenti rispetto alle possibilita’ di partenariato con l’Unione Europea.

Anche perche’ e’ sotto gli occhi di tutti in Europa e probabilmente anche negli osservatori piu’ attenti di questi paesi la profonda crisi istituzionale, politica ed economica che sta attraversando l’Ue.

Noi in Italia lo sappiamo benissimo, in Grecia hanno patito probabilmente gia’ molto piu’ di noi e altri paesi come Spagn, Portogallo, Irlanda, costituiscono insieme a noi italiani e greci i famigerati Pigs, questi maiali che appunto sono stati mandati al macello, possiamo cosi’ dire, dell’Unione Europea, con la sua pesante politica economica, finanziaria e monetaria.

Ecco quindi se all’interno dell’Unione Europea c’e’ un profondo distacco da parte dei cittadini nei confronti di questa istituzione che ha disatteso a gran parte delle sue promesse, dall’altro canto c’e’ questa Europa, si sa presentare attraverso tutta una serie di organizzazioni non goverantive, di portavoce e una stampa condiscendente come un paese di Bengodi nei confronti di coloro che ancora non ne fanno parte. E’ questo e’ il caso dell’Ucraina.

Ma vediamo ad esempio un altro paese, che e’ molto vicino culturalmente e politicamente ed economicamente alla Russia come la Serbia, la quale ultimamente,come i sondaggi hanno dimostrato, si sta allontanando sempre piu’ dalle visioni filo europee e la popolazione e’ contraria ad un’adesione all’Unione Europea cosi’ come l’adesione alla Nato e propone, auspica un riavvicinamento ulteriore alla Russia, perche’ va considerata una cosa.

Come sono andate finora le cose riguardo questi processi di aggregazione dei paesi dell’ex orbita sovietica, una volta entrati nell’Unione Europea questi paesi sono entrati anche a far parte della Nato. Altre volte e’ successo il contrario, prima sono entrati nella Nato, e poi nell’Ue.

Ma di fatto, da un punto di vista militare, gli Stati Uniti d’America con una serie di alleanze, partenariati e accordi strategici hanno cominciato a creare una cintura sempre piu’ stretta di basi militari, di postazioni missilistiche, radar e quantaltro attorno alla Russia, andando quindi a creare una situazione di tensione a livello diplomatico internazionale. E l’Ucraina rientra proprio in questo gioco…

 

 

Secondo Lei, queste velleita’ europeistiche dell’Ucraina e questo avanzamento dell’Europa “unita” ad est giova agli Stati Uniti?

Assolutamente. Dal nostro punto di vista, si. Anche perche’ oggi l’Unione Europea ha ben poco da proporre in termini economici. Basti vedere (questa e’ una cosa che non e’ stata fatta abbastanza presente) che le richieste ucraine di ottenere un prestito, degli aiuti economici da parte dell’Unione Europea hanno ricevuto come risposta delle pesantissime condizioni, delle ingerenze pesantissime che andavano all’interno della sovranita’ ucraina di materia, ad esempio, dell’autonomia della magistratura, pensiamo al caso di Julia Timoscenko o pensiamo appunto a questo prestito che veniva concesso, molto ridimensionato dall’Unione Europea e solo dietro pesantissime garanzie.

Inoltre la parte orientale dell’Ucraina e’ fortemente industrializzata e quindi dipende molto dai contatti energetici stabilitisi fra Kiev e Mosca. E quindi l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea porterebbe sopratutto per l’apparato industriale una crisi pesantissima.

Innanzi tutto, perche’ si verrebbe a creare un problemi di approvigionamento energetico, ma anche perche’ proprio l’industria e’ abbastanza indietro rispetto ai progressi tecnologici fattisi registrare in Europa. E quindi si troverebbe in pesanti difficolta’ a sostenere la concorrenza dell’industria europea, mentre invece per quanto si sta sviluppando adesso in area dell’URSS possiamo vedere come un esperimento interessante quello dell’Unione Doganale Euroasiatica che nato dall’intesa fra la Russia, la Bielorussia e il Kazakistan a cui i paesi dell’ex area sovietica hanno gia’ fatto capire di essere intessati ad aderire. In primis, proprio di recente, l’Armenia e anche l’Ucraina sta portando avanti una politica in tal senso.

Da cittadino europeo come di fatto sono in quanto italiano, posso solo esprimere il mio auspicio che l’Ucraina si tenga al di fuori da questo calderone che e’ l’Ue adesso per come e’ impostata, per come e’ asservita per molti aspetti, alle politiche di dominio che partono dagli Stati Uniti d’America.

L’Ucraina non solo dimostra in questo momento di potersi mantenersi vicina alla Russia per tutti i legami che abbiamo accennato, ma il presidente Victor Janukovic ha gia’ dimostrato anche una grande capacita’ internazionale di muoversi nello scacchiere euroasiatico andando proprio in questi giorni a stringere degli accordi con la Cina, un altro dei colossi economici mondiali che assieme alla Russia fa parte anche del gruppo BRICS i cui paesi dal forte sviluppo economico, si propongono come alternativa a livello globale per arrivare ad un mondo multipolare in contrapposizione all’unipolarismo che gli Stati Uniti d’America cercano di imporre.

In tal senso questo unipolarismo statunitense trova nell’Unione Europea un suo preziosissimo collaboratore per tenere sotto controllo la situazione in Europa, anche perche’ far entrare l’Ucraina all’interno dell’Unione Europea porterebbe da un punto di vista strategico e della difesa automaticamente ad una adesione incondizionata proprio alla Nato e quindi porterebbe di fatto postazioni militari legate agli Usa proprio alle porte della Russia.

Non dimentichiamo fra l’altro che il porto militare di Sebastopoli in Crimea, che si trova all’interno dell’Ucraina, e’ comunque la piu’ importante base della Flotta Russa nel Mar Nero. E’ stato proprio di alcuni anni fa il prolungamento del contratto che consente a Mosca di mantenere li’ la Flotta del Mar Nero.

Quindi l’Ucraina ha un’importanza strategica fondamentale, e’ un paese cerniera fra l’Europa propriamente detta e la Russia e quindi all’interno dello scacchiere euroasiatico e’ chiaro che ci siano tutte queste tensioni, tutte queste contrapposizioni fra chi se la vuole trascinare nel campo occidentale anche se questi in termini di propaganda e di liberta’ eccetera sicuramente ha le sue belle carte da giocare, ma in termini pratici e concreti, economici e di sopravvivenza quotidiana le cose prenderebbero molto presto una piega ben diversa.

Basti vedere ad esempio, la Croazia, paese ultimo entrato nell’Ue in cui l’euroscetticismo e’ ancora alto e i benefici economici sono ben lungi dal farsi vedere. Ed anche altri paesi di recente integrazione come ad esempio, la Slovenia, stanno pagando un pesantissimo tributo economico e finanziario all’adesione a questa Unione Europea e i suoi rigidissimi parametri che per certi versi, appunto, sono ben peggio di quanto era stato fatto da un punto di vista economico all’interno della dissolta Unione Sovietica i cui paesi membri (per cui ad esempio, anche l’Ucraina) erano integrati perfettamente in base, possiamo dire, all’applicazione della legge economico di Riccardo dei benefici reciproci con tutti gli altri, per cui ogni paese aveva le sue capacita’ industriali, produttive sviluppate al massimo che si integravano alla perfezione con quelle degli altri paesi che gravitavano intorno a Mosca.

E quindi alle autorita’ ucraine non sarebbe molto conveniente sul piano economico orientarsi esclusivamente all’Ue, l’Ucraina come membro e un memrbo associato dell’Ue, all’Europa non servirebbe.

Infatti, penso che in questo momento il Pil e la capacita’ di attrazione che l’Ue possa esercitare si basa solamente su una retorica spiccia sui diritti umani, liberta’, tante belle cose, tante belle parole, ma poi di fatto da un punto di vista economico generale la situazione e’ tutt’altro che florida.

E sopratutto questo enorme balzo che e’ stato fatto a est dell’Unione Europea nel corso degli ultimi anni accogliendo al suo interno anche altri paesi come la Bulgaria, la Romania o le gia’ ricordate Slovenia, Croazia, i tentativi di partenariato che vengono portati avanti anche nei confronti di altri paesi dell’ex blocco orientale, ecco che vediamo come questi paesi abbiano attraversato tutti profonde crisi strutturali ed economiche. Un caso particolare e’ quello dell’Ungheria tanto vetuperata dai mass media occidentali, ma in realta’ infatti in questi ultimi mesi, nei momenti in cui il governo nazionale di Budapest ha preso saldamente in mano le redini dell’economia riindirizzandola secondo principi legati ad una sovranita’ monetaria, ad un ruolo guida dello stato nell’economia, abbiamo visto come questo piccolo paese danubiano sia riuscito a risollevare la sua situazione andando contro quelle che erano i principi dell’ortodossia liberale che venivano propugnati dall’Unione Europea.

Questo dovrebbe far riflettere quei paesi che pensano di entrare nell’Ue e trovarsi ancora nel paese di Bengodi che probabilmente in realta’ non e’ neanche esistito da queste parti.

 

http://italian.ruvr.ru/radio_broadcast/6931448/126058061.html

http://italian.ruvr.ru/radio_broadcast/6931448/126012321.html

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“EURO-ATLANTISMO” ED “EURO-SCETTICISMO”

$
0
0

E’ indubbio che la “pianta dell’euro-scetticismo” abbia ormai messo forti radici anche nel nostro Paese. Si tratta di un fenomeno comprensibile e, a nostro avviso, in larga misura condivisibile giacché è innegabile che con l’introduzione dell’euro si sia venuto a creare un gigantesco squilibrio tra Paesi dell’Europa Settentrionale e Paesi dell’Europa Meridionale. Squilibrio reso ancora più grave dalla crisi finanziaria che non solo ci è costata 5,5 punti di Pil nel 2009, ma, dopo una leggera ripresa economica nel 2010-2011, ha pure reso possibile l’attacco speculativo da parte dei cosiddetti “mercati”, i quali ovviamente hanno beneficiato non poco dalla cessione della sovranità monetaria dell’Italia alla Bce. Non meraviglia allora che in queste condizioni per l’Italia sia diventato un peso pressoché insostenibile spendere quasi 90 miliardi di euro all’anno per gli interessi sul debito, mentre quest’ultimo continua a crescere insieme con la pressione fiscale, la quale rischia di uccidere la gallina delle uova d’oro, ovvero quella miriade di piccole e medie imprese che, insieme ad alcune (poche) grandi imprese di importanza strategica ed alla invidiabile posizione geografica del Belpaese, sono l’unica nostra autentica “ricchezza nazionale”. Sulla drammatica situazione economica del nostro Paese del resto, i dati dell’Istat (1) sono estremamente chiari: non solo tra il 2008 e il 2012 è stato perso oltre l’80% della crescita realizzata dal 2000 al 2007, ma rispetto al 2001 si è registrata sia una riduzione del numero di imprese dell’industria in senso stretto (-18,4%, ossia 100000 imprese in meno) sia una flessione occupazionale del 17,5% (cioè circa 900000 addetti in meno). E le previsioni per l’anno in corso stimano per l’Italia una diminuzione del Pil dell’1,8%, con una crescita modesta nel 2014 dello 0,7% per l’Istat, dello 0,6% per l’Ocse mentre secondo Standard & Poor’s sarebbe solo dello 0, 4%). (2). Tenendo conto della flessione del Pil negli anni scorsi, è palese che un tale modestissimo tasso di crescita (ammesso che vi sia) significa che in realtà non vi è una vera crescita (né un autentico sviluppo) ma semplicemente che si è in una fase di “stagnazione”. Tanto è vero che la disoccupazione è a livelli altissimi (quella giovanile è addirittura oltre il 40%) e non si prevede che possa diminuire nemmeno nel 2014, mentre si deve registrare anche una diffusione della ”severa deprivazione” superiore alla media europea (9,9%), in quanto sono aumentate le persone in grave disagio economico: nel 2012 erano il 14,5% dei residenti in Italia, 3,3 punti in più rispetto al 2011. (3) Inoltre sempre più preoccupante è il calo del tasso di risparmio delle famiglie italiane, in passato elevato nel confronto internazionale: a partire dal 2009, la propensione al risparmio delle famiglie italiane è divenuta inferiore a quella media dell’area dell’euro, (4) anche se la ricchezza netta delle famiglie italiane alla fine del 2012 era pari a 8 volte il reddito disponibile lordo. (5)

Particolarmente significativo per comprendere la gravità della crisi che attanaglia il nostro Paese è quanto è accaduto nell’istituto comprensivo di Prato Iva Pacetti: disponendo solo di 5000 euro, su 18 precari che hanno svolto supplenze brevi (insegnanti e personale Ata) sono stati sorteggiati i cinque “fortunati” che avranno lo stipendio (quattro insegnanti e un addetto ai servizi scolastici). E non è un caso isolato perché altri istituti comprensivi e superiori hanno esaurito i fondi del Mef da cui dipende il pagamento degli stipendi dei precari per le supplenze brevi. (6) In realtà, le risorse finanziarie di numerose scuole pubbliche si sono ridotte nel giro di pochi anni di oltre il 50%. E il sistema sanitario nazionale non gode di migliore “salute”. Di fatto, si tratta di situazioni tanto più serie in quanto si sa che diventerebbero la “norma” (indipendentemente dal tasso di crescita!) se si dovessero accettare i diktat della troika (che, tra l’altro, onde far valere le “misure” e le “proporzioni” dei “mercati” non ha certo interesse a mettere in evidenza che, nonostante tutto, la base produttiva del nostro Paese è ancora “sana e robusta”). Nulla di strano allora che buona parte degli italiani veda nell’euro e nell’“Europa dei banchieri” la principale, se non l’unica, causa dei propri guai. E non saremo certo noi a fare l’apologia dell’euro e della Ue. Nondimeno, è semplicistico pensare che basterebbe uscire da Eurolandia per risolvere di punto in bianco i problemi dell’Italia. Al riguardo – al di là dalle questioni tecniche che potrebbero essere risolte (così almeno pare di capire leggendo economisti come Sapir, Amoroso o Bagnai) se ci fosse la volontà politica di risolverle – è di fondamentale importanza comprendere che Eurolandia esiste per precise ragioni geopolitiche. E sono queste ragioni che si devono tener presenti se si vuole uscire dal vicolo cieco in cui ci si trova. Invero, non basta nemmeno scagliarsi contro la “finanza cattiva”, quasi che il cosiddetto “finanzcapitalismo” (termine usato dal sociologo Luciano Gallino) fosse piovuto dal cielo e non fosse frutto delle scelte geopolitiche della potenza capitalistica predominante.

Certamente, non si può negare che ormai la grande finanza occupi una “posizione dominante” in quella che si suole definire l’“élite del potere” statunitense (e, in generale, occidentale). Tuttavia, non si deve dimenticare che fu una decisione politica a sganciare il dollaro dall’oro all’inizio degli anni Settanta – una iniziativa strategica che permise agli Usa di ridefinire gli equilibri internazionali e in seguito, con Reagan, di sferrare un’offensiva decisiva contro l’Unione Sovietica e il socialismo scandinavo. Una rottura unilaterale degli equilibri raggiunti con gli accordi di Bretton Woods nel 1944 (accordi che avevano sancito la fine dell’egemonia della Gran Bretagna e l’inizio di quella degli Stati Uniti) e che, grazie pure alla innovazione tecnologica favorita dalle gigantesche spese militari degli Stati Uniti, permise di ritornare a politiche liberiste e, di conseguenza, di trasformare anche il sistema occidentale (che era basato sulle politiche economiche neokeynesiane), disintegrando le “tradizionali” classi sociali. Né è un caso che proprio all’inizio degli anni Ottanta sia avvenuto quel “divorzio” tra Tesoro e Bankitalia, che è a fondamento della crescita del debito pubblico italiano, né che nella prima metà degli anni Novanta, ossia dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si siano create le condizioni per la (s)vendita di gran parte del nostro settore strategico pubblico. Ma naturalmente non è casuale neppure che negli stessi anni Novanta Clinton abbia liberalizzato quasi completamente il movimento di capitali, ponendo le premesse per la successiva crisi finanziaria, o che sia stato messo il carro (l’euro) davanti ai buoi (l’unione politica europea), allorché era chiaro che era impossibile impedire la riunificazione della Germania. In sostanza, la politica, il conflitto sociale e l’economia dei singoli Paesi sono sempre più “sovradeterminati” dagli squilibri/equilibri geopolitici, nel senso che sono parte di una totalità storico-sociale che muta al variare dei rapporti tra i diversi attori geopolitici, e in primo luogo al variare della politica di potenza e della strategia degli Stati Uniti in quanto Stato capitalistico predominante (o qualcuno crede che la globalizzazione “americanocentrica” non abbia alcun significato politico?).

Pertanto limitarsi a dire “no” all’euro, senza avere alcun serio progetto politico da contrapporre a questa Ue, né alcun interesse per i mutamenti che stanno trasformando gli equilibri geopolitici mondiali, non solo è semplicistico e frutto di una rozza visione economicistica del conflitto politico e sociale, ma può portare a scegliere dei rimedi che, se non sono peggiori del male che si vuol curare, non ne rimuovono le cause. Del resto, non dovrebbe sfuggire a nessuno che, rebus sic stantibus, sganciarsi da Eurolandia senza cercare di sganciarsi nel contempo dai “mercati”, ovvero dalla politica di potenza degli Usa, avrebbe ben poco senso. In politica estera improvvisazione e pressappochismo si pagano con “lacrime e sangue”, come insegna anche e soprattutto la storia d’Italia. Occorrerebbe cioè non solo mettere da parte lo spirito di fazione ma agire con ordine mentale e cognizione di causa, giacché battersi contro Eurolandia è indubbiamente necessario ma non sufficiente. Indispensabile sarebbe, oltre che cercare accordi e alleanze con altre forze europee “euro-scettiche”, agire tenendo conto che la maggior parte dei tecnocrati della Ue e soprattutto della classe dirigente italiana, che difende a spada tratta l’euro, sono al servizio degli interessi dei “centri di potere” d’oltreoceano. Il vero “nemico” da battere insomma non è l’Europa ma l’”euro-atlantismo”. In quest’ottica si dovrebbero affrontare il problema dell’euro e la stessa “questione tedesca”, altrimenti rimarrebbero in essere tutti quei meccanismi e quelle condizioni che sono all’origine dei mali che affliggono l’Italia. (Dato che abbiamo già trattato in altri articoli sia la “questione tedesca” che quella dell’indipendenza dell’Europa, qui è sufficiente rilevare che non conta tanto quello che un attore geopolitico vuole fare quanto quello che un attore geopolitico può fare. Di ciò gli Usa sono perfettamente consapevoli, al punto che il rafforzamento del dispositivo militare statunitense nell’Europa Orientale non è solo in funzione anti-russa – che sia in funzione anti-iraniana è assurdo solo pensarlo – ma mira pure a rendere impossibile la formazione di un asse geostrategico “euro-russo”, che metterebbe fine al dominio statunitense sul Vecchio Continente)

D’altronde, si deve riconoscere che non è neppure irrilevante (tutt’altro!) il modo in cui politici e giornalisti “di regime” si stanno comportando nei confronti del movimento dei “Forconi” (ma pure nei confronti di altri gruppi e movimenti). Ignorare le ragioni della protesta popolare o confonderle con le espressioni di rabbia di alcuni di coloro che protestano è un segno inequivocabile del fatto che sta diventando sempre più profondo il solco che separa la classe dirigente italiana dal “Paese reale”. In effetti, è lecito ritenere che il nostro Paese sia maturo per un “cambiamento radicale”, adesso che sono evidenti a chiunque i guasti e i danni causati dal demenziale (anti)berlusconismo che ha dominato la scena politica italiana di questi ultimi due decenni, ma, come giustamente osserva anche Gianfranco La Grassa, (7) un movimento “acefalo” è destinato ad essere sconfitto (come capitava – per intendersi – ai contadini che venivano “regolarmente” massacrati dai cavalieri o dai baroni, ché la rabbia e il valore dei singoli non potevano che infrangersi contro la roccia della disciplina, della tattica e dell’organizzazione). Infatti, vi sono già scissioni e polemiche tra i vari capi della “rivolta”. Eppure la protesta dei “Forconi” (come la crescita dell’“astensionismo” o il successo nelle ultime elezioni politiche del Movimento Cinque Stelle, che pure sta pagando assai caro il fatto di non avere alcuna salda e coerente dottrina politica – una lacuna che non raramente porta i “pentastellati” a difendere posizioni qualunquiste secondo una concezione “ingenua” e superficiale della “reali ragioni” del conflitto politico e sociale), è indice che vi sarebbe spazio per una forza politica che avesse come obiettivo la riconquista della sovranità nazionale (dello Stato!), allo scopo di riguadagnare quei margini di manovra strategica senza i quali (tra l’altro) è impossibile rinnovare il “sistema Italia” e confrontarsi con le sfide dell’attuale fase storica. D’altro canto, se anche Babbo Natale, per così dire, dovesse riuscire a spegnere questo incendio, ce ne sarà certo un altro nei prossimi mesi e con ogni probabilità sarà ancora più vasto. Decisivo sarà quindi se si formerà o no un gruppo politico tale da conferire unità d’azione ai vari movimenti di protesta e che abbia chiaro che non solo non si può ricacciare nel baratro del sottosviluppo un intero continente che si è liberato definitivamente dal “giogo occidentale”, ma che sotto il profilo strategico nulla conta più della lotta contro l’“euro-atlantismo” (in questo senso, si può convenire con La Grassa  che perfino la presenza di un “principe” populista”, ma capace di flessibilità tattico-operativa e con le idee “chiare e distinte” riguardo al fine da perseguire, non sarebbe un prezzo troppo alto da pagare). Ragion per cui, a nostro giudizio (benché in questi casi l’ottimismo sia l’oppio degli sciocchi), se si vuole evitare che la “nave Italia” affondi, sarebbe necessario trasformare il sistema italiano alla luce di un nuovo orientamento (geo)politico, promuovendo, insieme con altre forze politiche europee, una rifondazione della stessa Ue, ma in primo luogo individuando ed eliminando (politicamente, s’intende) tutte quelle “quinte colonne” che, al fine di tutelare i propri privilegi, da decenni agiscono contro l’interesse nazionale e, in definitiva, contro l’interesse della stessa Europa.

 

 

 

Note

 

1)http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Per-Pil-e-produttivita-10-anni-persi-in-Italia-bruciato-80-per-cento-della-crescita_32922145056.html

2)http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-12-12/standard-poor-s-economia-italiana-crescera-solo-04percento-2014-161108.shtml?uuid=ABBXkfj

3)http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2013/12/16/Istat-1-3-rischio-poverta-esclusione-sociale-_9785880.html

4)http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef148/QEF_148.pdf

5)http://www.bancaditalia.it/statistiche/stat_mon_cred_fin/banc_fin/ricfamit/2013/suppl_65_13.pdf

6)http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/toscana/2013/12/15/Prato-sorteggiano-supplenti-pagare_9782041.html

7)http://www.conflittiestrategie.it/quando-finira-il-surplace-di-glg-12-dic-13

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail
Viewing all 106 articles
Browse latest View live