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STEFANO VERNOLE, REDATTORE DI “EURASIA”, INTERVISTATO DA IRIB SULLO SHUTDOWN USA

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Le ragioni principali di shutdown americana sono da ricercare nell’incredibile indebitamento degli Stati Uniti. Oggi ormai e’ previsto che entro il 17 ottobre gli Usa hanno raggiunto il 16 000.700 miliardi di dollari di indebitamento, il che vorrebbe dire che il governo americano non potrebbe indebitarsi oltre e quindi rispettando i pagamenti gia’ previntivati rimarrebbero in cassa circa 30 miliardi di dollari per far fronte a spese certe…. Queste sono le parole di Stefano vernole, redattore della rivista Euroasia, che e’ intervenuto in un’intervista telefonica con la redazione della Radio Italia IRIB.

Intervista integrale: http://italian.irib.ir/analisi/interviste/item/132964-stefano-vernole-all-irib-shutdown-usa-dovuta-a-un-indebitamento-senza-precedenti-audio

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DIFESA, DRONI SPIA: UN PROGETTO DI INTELLIGENCE EUROPEA?

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La Commissione europea, stando alle prime indiscrezioni, risalenti allo scorso 29 luglio, ha manifestato l’ intenzione di dar vita ad una nuova agenzia di sicurezza e di intelligence, retta sotto il controllo del capo della politica estera dell’Unione Europea, la Signora Catherine Ashton, “l’Europa necessita di sue proprie capacità autonome di difesa e questa proposta è un passaggio cruciale verso l’integrazione”, ha dichiarato un ufficiale di Bruxelles, per poter garantire una maggiore cooperazione nella difesa, attraverso l’istituzione di propri droni spia, satelliti di sorveglianza ed una propria flotta aerea. L’uso di nuovi droni spia e satelliti per politiche di “sicurezza interna ed esterna”, consisterà in informazioni di polizia, sorveglianza ed internet, protezione delle frontiere esterne e la sorveglianza marittima, lasciando trapelare l’obiettivo di voler dar vita ad una versione “europea” della NSA (National Security Agency) statunitense; un modus operandi verso la creazione di una effettiva struttura militare e di analisi dell’Unione Europea con attrezzature proprie per gestire le operazioni europee. I droni spia e sistemi di comando sarebbero connessi al progetto di satelliti spia Copernico, utilizzate in questo contesto per fornire «capacità di creare immagini volte a sostenere la sicurezza comune e la politica di difesa nelle sue missioni e operazioni»; un progetto che risulta essere parte integrante del sistema Sentinel, operato dall’Agenzia spaziale.  Tale piano d’azione, di una presumibile “agenzia di sicurezza europea” simboleggia la risposta al recente scandalo angloamericano Snowden, stando a quanto affermato da alti funzionari europei; per tale motivi si è resa necessaria lo sviluppo delle capacità militari, un’attività complessa, facente parte dell’ampia gamma di discipline e settori di interesse della Difesa.

Sebbene la caratterizzazione dei rischi per la stabilità e delle minacce per la sicurezza tende ad ampliarsi e ad affacciarsi con ritmo incalzante sulla scena internazionale, rendendo indispensabile e quindi necessario lo spostamento verso una struttura indirizzata ad un contenimento dei conflitti con un carattere fortemente politico di componimento preventivo dell’azione; tale processo risulta essere articolato proprio sulla base  di determinati obiettivi politici (Level of ambition). Ciò richiederà l’ individuazione delle esigenze necessarie per conseguire tali obiettivi, la verifica del livello di soddisfacimento delle capacità esistenti e determinazione delle carenze; la ricerca di soluzioni per le carenze evidenziate; il meccanismo di attualizzazione e stabilizzazione del processo, in linea con le tendenze evolutive globali (fattori geopolitici, economici, socio-culturali, tecnologici). L’obiettivo finale del processo sarà di armonizzare gli sforzi compiuti in vari settori, per conseguire al meglio gli obiettivi prefissati, tenendo in considerazione le risorse rese disponibili dai bilanci della Difesa.

Ripercorrendo i passaggi più salienti, su tali presupposti, nonostante nel passato ci siano stati tentativi di sviluppo di una capacità militare europea integrata, nel dicembre del 1999, ad Helsinki, il Consiglio europeo diede vita allo Headline goal, dalla quale risultava che l’Unione Europea, entro il 2003, doveva dotarsi di uno strumento militare capace di assolvere tutte le cosiddette missioni di Petersberg (1992) recepite nel successivo Trattato di Amsterdam (1997).

Successivamente, nel maggio 2003, l’Unione Europea dichiarò che, nonostante permanessero alcune carenze di capacità, gli obiettivi prefissati (ossia il conseguimento di una operational capability) erano stati raggiunti;  nel dicembre 2003, con la European Security Strategy venne delineata la strategia che l’Unione Europea avrebbe adottato nel futuro per garantirsi un ruolo primario nell’ambito dei nuovi scenari geopolitici mondiali. In realtà, nelle attività relative all’iniziativa European Capabilities Action Plan (ECAP), nonostante l’ingente impegno espresso in termini di risorse umane e finanziarie), sono rimaste irrisolte le problematiche legate alle carenze capacitive. Attraverso la formulazione dell’Headline Goal 2010 (HLG 2010), l’Unione Europea decise di darsi nuovi obiettivi con l’intento di soddisfare le mutate esigenze della European Security and Defence Policy (ESDP), “disporre cioè di forze più flessibili, caratterizzate da elevata prontezza, altamente proiettabili ed interoperabili”[1].

Ed infine, nel corso del semestre di Presidenza italiana dell’Unione, il Consiglio europeo approvò il documento per la costituzione dell’European Defence Agency: la Joint Action del 12 luglio 2004, responsabile della promozione di una ricerca di individuazione della leadership nelle tecnologie strategiche per le future capacità di difesa e di sicurezza. Per tali motivi poi, si rese necessario mettere a punto proposte per accrescere l’efficacia della politica europea di sicurezza e difesa comune (PSDC) e rafforzare le capacità di difesa e l’industria della difesa.

Tale iniziativa non è stata esente da critiche né tanto meno da polemiche, considerando  quelle già in atto per la creazione di un quartier generale militare dell’Ue a Bruxelles. La Ashton, la Commissione e la Francia, sostenuta da Germania, Italia, Spagna e Polonia, risultano favorevoli a questo progetto “ideal tipo”, che darà luogo ad un vivo dibattito nel corso del vertice Ue del prossimo dicembre.

 

Conclusioni

La sicurezza europea del nostro collettivo immaginario ci rimanda ad un ideale di Stati democratici,  retti da una “good governance globale”, perdendo di vista il processo di globalizzazione, che irrompe e destabilizza i rapporti ed i giochi di forza, mettendo a repentaglio ed in crisi le differenze, i valori e l’intero scacchiere internazionale. L’emergere di un mondo multipolare e disomogeneo, in cui emergono nuovi elementi, identificati da nuove minacce: sicurezza informatica, proliferazione nucleare, terrorismo, criminalità, sicurezza energetica, cambiamenti climatici, nonché con l’affermarsi di nuovi attori, che chiedono di dare nuova sostanza al multilateralismo europeo ed il proliferarsi di un multipolarismo asimmetrico; tutto ciò ha influenzato le strategie dell’ Unione Europea e gli strumenti per attuarle, “il potere normativo dell’Ue e la volontà di proiettare i propri valori democratici non sono scomparsi, ma vengono ricondotti ai concetti di sicurezza umana e della responsability to protect ad essa collegata”[2]. La revisione di questo modo di considerare la sicurezza europea rappresenta il punto di inizio e di svolta per un lungo processo di trasformazione dell’Europa “da consumatore a produttore di sicurezza[3], ed è nel quadro di questo processo che dovrebbe essere interpretata e che molto probabilmente è già stato interpretato il “progetto di una intelligence europea”.

 

Caterina Gallo

 

Fonti:

http://www.agccommunication.eu/geopolitica/regoledingaggio/4517-ue-nsa-copernico-sentinel?highlight=WyJkcm9uaSIsInNwaWEiLCJkcm9uaSBzcGlhIl0=;

 

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=11&pg=5236



[1] Agenzia Europea di Difesa, Vincenzo Camporini (Capo di Stato Maggiore della Difesa), Affari esteri, p. 124 – n. 161, 2009

[2] Riguardo alla responsability to protect si veda E. Greppi, Crisi in Zimbawe e “responsability to protect” della comunità internazionale, ISPI Policy Brief, 91 luglio 2008

[3] V. E. PARSI, La vera sfida dell’Europa. Da consumatore a produttore di sicurezza, in M. TELO’, L’Europa nel sistema internazionale. sfide, ostacoli e dilemmi nello sviluppo di una potenza civile?, Bologna 2008.

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LA CRISI SIRIANA EVIDENZIA CHE IL MAR MEDITERRANEO È ANCORA CRUCIALE NELLE AMBIZIONI GEOPOLITICHE

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Il seguente articolo è stato originariamente pubblicato nell’edizione del 17/10/2013 del quotidiano cinese in lingua inglese “Global Times”

La crisi siriana e le sue ripercussioni dimostrano che i politici e gli analisti non possono ignorare il Mediterraneo se vogliono affrontare seriamente le sfide globali. Dopo il colpo di Stato militare in Egitto contro l’ex presidente Mohammed Morsi, il parere dei media sulla Siria è cambiato e molte persone hanno cominciato ad avere più consapevolezza del pericoloso ruolo dell’estremismo islamista annidato tra gli elementi dei gruppi ribelli siriani.

Così anche l’opinione pubblica si è pronunciata fortemente contro il coinvolgimento occidentale in un’ennesima guerra. Sebbene con alcune ambiguità, i governi dell’Italia e della Germania restano contrari a qualunque intervento militare in Siria al di fuori dell’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Anche se Roma e Berlino non hanno mai messo seriamente in discussione le loro politiche atlantiste, non possono permettersi di intervenire militarmente in Siria. Dopo l’avvio delle sanzioni contro il governo siriano da parte dell’Unione Europea, la bilancia commerciale italiana ha perso circa 2 miliardi di euro. Se gli Stati Uniti e la Francia dovessero muovere guerra contro la Siria, le perdite commerciali per l’Italia aumenterebbero e la sicurezza collettiva sarebbe notevolmente compromessa. Anche la cancelliera tedesca Angela Merkel ha espresso le sue forti preoccupazioni per un’escalation militare in Medio Oriente.

Dieci anni dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, nella regione sembra prendere piede una nuova coscienza politica secondo cui gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna non dovrebbero decidere unilateralmente di aggredire un Paese sovrano. I Paesi dell’Europa meridionale, come l’Italia, la Spagna e la Grecia stanno vivendo una dura crisi economica e attualmente non hanno sufficienti mezzi e credibilità per proporre una politica comune mediterranea tesa alla stabilizzazione della regione.

Tuttavia Washington, Parigi e Londra non possono capire e rappresentare appieno gli interessi dei popoli mediterranei. Secondo le voci critiche dell’Europa meridionale, queste tre potenze mondiali stanno soltanto riadattando alle circostanze il vecchio schema coloniale dell’accordo Sykes-Picot e costruendo nuove sfere d’influenza, senza alcuna considerazione per le popolazioni locali, per i loro diritti e per la loro sovranità. Il territorio siriano sembra costituire il pivot di questo nuovo Grande Gioco mediorientale.

Sin dall’inizio della crisi siriana, il Mediterraneo meridionale è diventato un inferno geopolitico. Le violente rivolte hanno lasciato sul terreno migliaia di vittime. Le economie di molti Paesi mediorientali sono state sconvolte. Mentre il terrorismo islamista ha generato paura e violenza non solo nei Paesi musulmani ma anche in Europa, non solo contro i musulmani pacifici ma anche contro i cristiani.
Un anno fa, l’allora segretario di Stato americano Hillary Clinton disse che il Pacifico sarebbe stato il più importante teatro marittimo del XXI secolo. Questo è senz’altro vero, ma solo in parte perché l’ultima escalation in Siria evidenzia anche l’enorme importanza del Mediterraneo. “Cos’è il Mediterraneo?”, si chiedeva molti anni fa lo storico francese Ferdinand Braudel nella sua celebre ricostruzione storica della regione, rispondendo che “È mille cose insieme. Non soltanto un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare ma una successione di mari. Non una civiltà ma una serie di civiltà accatastate l’una sull’altra. Per migliaia di anni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando e arricchendo la sua storia”.

Il futuro di questa regione dovrà essere costruito attraverso lo sviluppo, il dialogo interreligioso e la comprensione reciproca, non certo attraverso l’imperialismo e il fanatismo religioso.

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LA STRATEGIA D’IMPIEGO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA

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L’operazione Mare Nostrum rappresenta l’ultimo intervento, in ordine di tempo, della Marina Militare Italiana. Sono cinque le unità di altura coinvolte nella missione, oltre all’appoggio aereo con elicotteri, velivoli Piaggio, i Breguet Atlantic ed i droni. In ordine economico, l’impegno è abbastanza gravoso, e la cifre sono oggetto di contendere fra la stampa specializzata, come il Sole 24 ore, ed i dati resi dal Ministero della Difesa, dove la differenza oscilla dai quattro ai dieci milioni al mese. Il punto di partenza per calcolare l’importo, lo si potrebbe desumere dal costo giornaliero della fregata Maestrale, impiegata in Mare Nostrum, che sembra si avvicini ai 60.000 euro.

L’operazione dovrebbe svolgersi congiuntamente con il sistema di pattugliamento europeo Frontex e con quello di rilevamento dell’Unione Europea Eurosur, ma il primo non ha unità nel canale di Sicilia ed il secondo sarà pienamente operativo solo a dicembre. Il Ministro della Difesa Mario Mauro ha definito questa iniziativa come un rafforzamento del dispositivo di sorveglianza e soccorso in alto mare, ma l’invio di due fregate, con capacità antiaree ed antisommergibile, lascia trasparire un impiego diverso della flotta italiana, la quale con tutta probabilità sarà chiamata ad operazioni militari, forse congiuntamente con la marina libica.

Di fatto, la collaborazione fra i paesi che si affacciano sul Mediterraneo torna ad essere oggetto di approfondimento. La tecnologia industriale europea della difesa è imperniata sulle capacità operative poste all’implementazione ed alla produzione di beni a servizio delle Forze Armate appartenenti alla UE, una peculiarità per lo sviluppo economico e per la proiezione militare e diplomatica dell’intero sistema continentale. Gli attori partecipanti sono tra loro difformi sul piano finanziario, ma tutti rappresentano un valore aggiunto in questo contesto; alcuni sono strutturati per la produzione e l’integrazione di piattaforme e sistemi d’arma, altri sono specializzati nei sistemi e sottosistemi sia nell’ambito motoristico quanto nell’ingegneria meccanica. Le alleanze politiche, strategiche ed economiche dell’Industria Europea della Difesa, l’European Defence Technological and Industrial Base, ha iniziato dal 2000 un percorso di aggregazione verso nuove aziende con accordi di cooperazione imperniate sull’export. La crisi finanziaria internazionale ha ingenerato un profondo impatto negativo in ordine di domande, sicché i Governi dell’EDTIB sono stati costretti a rivedere al ribasso i programmi di investimento sulla difesa, andando a ledere significativamente la capacità militare congiunta nell’ambito delle cooperazioni NATO, in particolare nel distaccamento delle unità di altura per la Forza di intervento rapido e per la missione Active Endeavour a prevenzione di terrorismo e traffico d’armi. Sotto il profilo economico, l’EDTIB ha tentato di contenere l’effetto della crisi sul comparto industriale continentale, promuovendo l’iniziativa di esportare beni verso i paesi emergenti extraeuropei, senza però riuscire ad arginare completamente le ricadute dei tagli alle spese sulla competitività finanziaria, ed in particolare sui livelli occupazionali.

Un tentativo di impulso al mercato è giunto dalla fusione di aziende protagoniste nel settore, ad esempio il trattato franco-italiano siglato nel novembre 2005, ma i risultati sono stati variabili in termini finanziari, dunque non risolutivi. La sfida che gli Stati Membri dell’UE si sono posti, è quella di arginare la crisi identificando nuove aree di sviluppo come i segmenti di mercato dell’elettronica e della sicurezza, finalizzando le risorse ed ottimizzando le iniziative verso accordi bilaterali fra gruppi anche di diversa nazionalità, ma sempre in ambito dell’EDTIB. In questo insieme si colloca in controtendenza l’implementazione della flotta italiana, con il varo delle modernissime fregate FREMM, i sommergibili a propulsione AIP ed otto pattugliatori. Per le prime è previsto un ulteriore stanziamento di 749 milioni di euro per la realizzazione di ulteriori due unità, oltre le quattro già finanziate dalle legge di stabilità 2013. La decisione finale dovrà concretizzarsi tra il 2014 ed il 2015.

“Milano Finanza” ha riportato un costo unitario di 300 milioni per ogni singolo pattugliatore, che dovrebbero essere inseriti nel bilancio a seguito di una indagine del Centro Studi e Ricerche del Mezzogiorno, della Banca d’Italia ed Assoporti. Alcuni economisti hanno ipotizzato che su una base di 100 euro investiti, il sistema finanziario nazionale dovrebbe trarne 249, dunque un impatto positivo sul prodotto interno lordo che potrebbe agevolare un impulso nella dinamica economica italiana. Una ulteriore ricaduta al sistema Italia, arriverebbe dai proventi dell’export, secondo la valutazione del Capo di Stato Maggiore della Marina: su tre unità prodotte una sarebbe esportata. I ricavati delle vendite saranno diretti a sostenere l’industria della Difesa ed entro i prossimi 5 anni dovrebbero essere dismesse 26 unità. Le fregate FREMM, rappresentano il più importante programma militare congiunto in ambito europeo, con un investimento complessivo di 11 miliardi di euro ripartiti fra Francia, 6,5 miliardi, ed Italia, 4,5. I fondi verranno stanziati dal Ministero per lo Sviluppo Economico e da quello della Difesa nel prossimo biennio per un importo pari a 261 milioni nel 2014 e 268 nel 2015, che si sommano ai 321 erogati nel 2013. Le aziende partecipanti al progetto sono la Orizzonte Sistemi Navali, costituita da Fincantieri e Finmeccanica, e la francese Armaris. In particolare, nel programma di sviluppo sono interessate: la Selex Sistemi Integrati, la Oto Melara e la Wass, un comparto produttivo di grande valenza per l’economia e per l’alta tecnologia nazionale, con importanti capitali sociali ed un alto livello occupazionale; la sola Finmeccanica ne conta oltre 39.000. Quello della cantieristica navale, si attesta come settore in crescita: i ricavi della Finmeccanica nel 2012 hanno superato i 17 milioni di euro, che si associano ai 15 di Fincantieri. Quelli relativi al primo semestre del 2013, analizzati nel settore Difesa e Sicurezza, mostrano segnali positivi, seppur in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ma sono migliori nei confronti degli introiti previsti in sede di bilancio dalla Finmeccanica. La curva dei guadagni è favorevole a quelli stimati nel comparto Aerospazio e Difesa e dunque nel complesso il risultato è migliore se confrontato con le aspettative. La consegna delle unità di superficie è già in essere, con l’ultima che dovrebbe prendere il mare nel 2021. Un investimento notevole, in ragione del momento di crisi, ma recuperabile nel corso della vita minima di attesa operativa delle unità navali, stimata a circa 30 anni. Tale limite è imposto dalla fatica delle strutture e dal deterioramento degli apparati, che ingenerano una significativa lievitazione dei costi relativi alla manutenzione. Attualmente, le fregate Grecale, Libeccio e Maestrale hanno superato la soglia critica, rendendole pertanto obsolete, ma mantenerle operative è un preciso intento del Governo allo scopo di recuperare il ritardato rinnovamento dell’intero sistema aeronavale. L’industria della difesa italiana in materia di vendite ed a livello occupazionale, è uno dei comparti produttivi più attivi dell’intero sistema del paese, infatti annovera quasi 64 mila addetti. L’Italia è al settimo posto nel mondo tra i produttori di sistemi d’arma, sia di seconda fascia che complessi, e la Finmeccanica è fra le prime dieci aziende nel settore. In termini di volume di affari nel campo tecnologico, riferito all’integrazione dei sistemi, ai singoli apparati o sottosistemi, partecipano attivamente gruppi come l’Avio e l’Iveco. La scelta del Governo italiano di approvare la costruzione delle nuove fregate, ha un fondamento preciso: lo scenario futuro avrà la Marina Militare come attore protagonista a garanzia della libera navigazione per favorire le opportunità economiche e commerciali, non solo in aree come quello del Pacifico o dell’Oceano Indiano, quanto nel Mediterraneo stesso, perché dal Golfo Persico transita il 40 per cento dei beni sia come merce importata che esportata dell’intera Europa. L’economia è condizionata dalla possibilità di importare a costi competitivi l’energia e le materie prime; attraverso il mare l’Italia scambia il 54% delle merci, importa il 75% del petrolio ed il 45% del gas per il fabbisogno energetico interno.

Altro ruolo sarà l’apporto marittimo alle politiche dell’UE e della NATO, perché in Europa sono quattro le marine di rilievo: Francia, Spagna, Inghilterra ed Italia. L’esigenza di una maggiore cooperazione, si palesò durante la crisi Libica, dove si rese necessaria una rapidità di reazione al di fuori del Paese africano, senza coinvolgere le truppe terrestri. Il compito venne svolto con successo sulla base della velocità di intervento, della sorveglianza e deterrenza, le quali sono possibili solo con elevate capacità operative. Quest’ultime sono fondamentali anche per opporsi alla pirateria, al terrorismo ed alla guerra asimmetrica, ossia dal confronto fra Nazioni dalla forte capacità militare ed economica. Dunque, è necessario garantire la difesa e la sorveglianza integrata marittima, non solo nelle acque nazionali, ma la si deve estendere dal Golfo di Aden all’Oceano Indiano con il preciso scopo di limitare le ripercussioni sulla terra ferma delle attività criminose provenienti dal mare, sostenendo la legalità ed il libero scambio economico. Le unità della MMI, incrociano continuamente nello Stretto di Sicilia con la consegna di monitorare i flussi migratori e per tutelare i pescherecci. Sono nel Corno d’Africa nell’operazione antipirateria Atlanta, nell’Oceano Indiano a protezione delle navi mercantili e nel Golfo di Aden nell’ambito del progetto Ocean Shield. La flotta italiana dovrà proiettarsi verso una flessibilità di impiego a supporto di attività diverse, spaziando dalla cooperazione militare a quella umanitaria, dove le forze armate italiane si sono già distinte. Il contributo nel ruolo interforze tattico della MMI in ambito UE e NATO, è di appoggio alle forze di terra in quelle aeree oppresse dalle guerre civili, dalle calamità naturali e più in generale da situazioni di emergenza, come in Libano, in Libia e Haiti, dove sono stati tratti in salvo sia cittadini italiani sia stranieri con la flessibilità dei mezzi, come l’utilizzo della portaerei Cavour trasmutata a ruolo di nave ospedale e non più di proiezione di forza. Nell’attuale contesto di crisi economica e nel quadro di risanamento delle finanze, probabilmente si renderà necessario uno snellimento ed una ristrutturazione delle unità sia di superficie quanto di quelle sottomarine. In questo ambito si colloca la nuova classe FREMM, di cui è stato impostato il sesto esemplare con la consegna stimata per il 2017.

Tali fregate hanno un dislocamento di 6000 tonnellate e sono propulse da due motori elettrici alimentati da quattro generatori diesel da 2100 KW. Possono raggiungere i 29 nodi ed a 15 nodi sono in grado di una autonomia di 11.000 Km o 55 giorni di crociera. I sistemi di bordo, principalmente sono composti dal radar di navigazione a bassa probabilità di intercettazione LPI SPN-730 / Selex SPN 753, dal radar di scoperta IR SASS Galileo, da due sistemi di puntamento multi sensore, sia infrarosso che radar MSTIS NA 25X, radar per appontaggio elicotteri e l’IFF SIR-M5 PA. Le unità dispongono inoltre della tecnologia per la comunicazione Datalink Link 11,16 e 22 M-DLP e della satellitare SATCOM. Il sonar attivo è montato sul bulbo Thales 4110CL, dotato anche di telefono subacqueo, con trasduttore WASS composto da 500 idrofoni. Le FREMM ASW montano un sonar rimorchiato a profondità variabile attivo a bassa frequenza Thales 4249 ed un sonar antimine WASS SNA-2000-I. La difesa antinave ed antisommergibile è affidata ai missili a lungo raggio del tipo MBDA Teseo Mk2 Block IV, al sistema combinato missile/siluro a medio raggio tipo MBDA Milas ed a due sistemi lanciasiluri con caricamento semi-automatico da 324 mm per gli MU 90 Impact. Quest’ultimo è un siluro ad alta velocità, che sembra essere in grado di eludere le contromisure, oltre alla peculiarità di una versatilità d’impiego, sia a quote elevate che su bassi fondali, in ambienti acustici perturbati e molto severi. Tra il 2007 ad oggi, le fregate FREMM classe Bergamini, hanno ricevuto alcune modifiche, innanzi tutto con un allungamento della poppa, sembra per bilanciare un appruamento evidenziatosi durante le prove in mare, ma ufficialmente a permettere un più agevole appontaggio per gli elicotteri EH-101. Altra implementazione ha riguardato le scorte di carburante e la dotazione dei lanciatori verticali Sylver, con una cadenza di tiro pari ad 8 missili al secondo, accoppiato al sistema missilistico antiaereo SAAM-ESD per migliorare la difesa aerea con i vettori Aster 15 e 30, ed antinave Scalp. A questo è associato il radar multifunzione 3D EMPAR SPY-790, il quale è in grado di svolgere contemporaneamente compiti di sorveglianza aerea a medio raggio e guida missili. Dispone del rilevamento tridimensionale, tracciamento fino a 12 bersagli multipli e 300 tracce simultanee. E’ del tipo passivo a singola faccia rotante ed opera in banda C e G, con una portata di oltre 100 Km ad una velocità di rotazione dell’antenna pari a 60 giri al minuto. L’antenna inclinabile, è in grado di generare un fascio elettronico con una scansione compresa nell’arco di +/- 45° in profondità e di +/- 60° in elevazione. La scoperta di superficie è affidata al sistema RASS che opera in banda E ed F. La versione FREMM multiruolo disporrà di depositi automatici per le munizioni dei due cannoni a tiro super rapido da 120 colpi al minuto Oto Melara 76/62, usato come protezione anti-aerea, anti-missile e per la difesa di punto. Agevolato dal calibro, può essere impiegato anche in altri ruoli, come il bombardamento navale e costiero. Il cannone è controllabile da remoto ed è armato con munizioni convenzionali, dalle incendiarie alle perforanti, fino ai proiettili a frammentazione con spoletta di prossimità.

Nel progetto di acquisizione della classe Bergamini, sei fregate avranno compiti multiruolo e quattro saranno configurate per l’ASW. Se la crisi inciderà in modo negativo sullo stato di avanzamento del programma, è plausibile supporre che sarà bloccato proprio a quest’ultima appena impostata. In tal caso, probabilmente, tutte le unità della classe Bergamini dovranno essere configurate come multiruolo per la difesa antinave, antiaerea, per l’attacco al suolo in profondità, il bombardamento contro costa ed antisommergibile. Per raggiungere un compromesso, il Ministero della Difesa potrebbe valutare di ridurre le FREMM ad otto e destinarne due alla guerra antisommergibile. Tale analisi è nel computo di una condizione più ampia che coinvolge l’intera flotta, destinata ad essere ridotta a sole 22 unità, almeno secondo una stima del Ministero della Marina Militare. La Francia, ha disposto la costruzione di nove FREMM in versione ASW, e due per la difesa aerea. L’ultimo varo è previsto per il 2022. L’accordo fra Italia e Francia non è limitato alla sola produzione congiunta delle fregate, ma le due Nazioni hanno istituito un comitato bilaterale che ha la finalità di favorire una visione di insieme sui futuri progetti, sia in materia di difesa quanto di sicurezza europea, oltre che di cooperazione per lo sviluppo di sistemi d’arma, con lo scopo di coordinare ed ottimizzare le capacità tecniche. L’Italia è il primo paese compartecipante per gli armamenti con la Francia, in particolare sui sistemi missilistici contraerei, aria-terra e lanciarazzi.

La cooperazione continua nell’ambito elicotteristico, UCAV ed aerospaziale. Quest’ultimo è imperniato sui satelliti radar ed ottici, i quali agevoleranno un punto di vista attualizzato della situazione tattica relativa alle missioni di prevenzione e risoluzioni delle crisi, ed in campo civile soddisferà i bisogni crescenti nelle telecomunicazioni dei principali attori istituzionali. Dismesso l’ultimo incrociatore e con la Garibaldi che sarà probabilmente rinnovata e convertita in portaelicotteri, la nave di maggior valore resterà la Cavour, ma la forza navale ha nelle fregate il suo punto di forza. Alla precedente classe Maestrale ora sono affiancate proprio le FREMM. Per versatilità d’impiego, però, i cacciatorpedinieri recitano la parte dei protagonisti: fra questi i recenti Andrea Doria e Caio Duilio, che sono delle ottime piattaforme di lancio, con dotazioni all’avanguardia in tutti i compartimenti delle unità. La componente subacquea è formata da sei battelli, in particolare con i due formidabili 212A propulsi dai silenziosissimi motori AIP a celle di combustibile, che hanno consentito alla MMI una innovazione sia in termini tecnologici che di impiego. In definitiva, la scelta di abbandonare o proseguire nell’assemblaggio delle FREMM, decreterà la continuità della Marina Militare Italiana nell’assolvere o meno i compiti istituzionali e le collaborazioni internazionali, per confermare la presenza dell’Italia nell’ambito delle alleanze geopolitiche e strategiche, nelle operazioni umanitarie ed a garanzia della sicurezza dei mari.

 

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INCURSIONI UNGARE IN EMILIA

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Nella foto a destra: il “Ponte d’Attila” a Parma

 

Da Parma a Reggio

 

Nel 1988, quando Parma venne gemellata con Szeged, nessuno ricordò che il re Attila, sepolto nel letto del Tibisco nei pressi della città ungherese, era l’eponimo di un ponte sul torrente Parma.

Infatti il più meridionale dei ponti che a Parma attraversano il torrente omonimo, al di fuori delle antiche mura, almeno dal XIII secolo è chiamato Ponte Dattaro: “pons, qui est super flumen Parmae, qui dicitur Datari“, si legge negli statuti comunali del 1266. La tesi che collega il nome ad una ipotetica famiglia Dataro non è documentata, mentre la denominazione può essere spiegata solo se si considera che il ponte venne anche indicato come Pons Atilae, “Ponte di Attila”.

Il re unno però non fu mai a Parma; anzi, non risulta che sia mai sceso a sud del Po. Dopo avere espugnato Aquileia il 18 luglio 452 e dopo averla distrutta, egli si diresse verso il grande fiume e, seguendone la riva sinistra, avanzò fino a Pavia e fino a Milano, saccheggiando anche queste città, una dopo l’altra. Alla fine dell’estate le forze unne si erano spostate di 130 chilometri a sud-est di Milano, in direzione di Mantova. Fu lì, nei pressi del Mincio, che Attila ricevette la famosa ambasceria inviatagli dall’imperatore Valentiniano III e guidata da papa Leone Magno in persona, dopo di che fece ritorno nel bacino dei Carpazi.

La denominazione di Pons Atilae, sfuggita all’attenzione dei linguisti che hanno indagato sulla presenza del nome di Attila nella toponomastica (1), costituisce verosimilmente una delle tante tracce lasciate nella nomenclatura toponimica dalle incursioni degli Ungari, i quali, essendo correntemente identificati con gli Unni, rinverdirono mezzo millennio più tardi la fama leggendaria del “flagello di Dio”.

Finora si è ritenuto, sulla scorta di quanto scrive Ireneo Affò (2), che l’unico indizio del passaggio degli Ungari nel territorio di Parma fosse rappresentato dalla “traslazione delle reliquie di San Nicomede da Fontanabroccola a Parma, ben protetta dalle sue mura” (3) e che un altro probabile segno del loro passaggio fosse “la desolazione di una chiesa a Guastalla” (4), che apparteneva alla diocesi di Reggio.

Ciò dovette avvenire all’epoca dell’incursione iniziata nell’898, quando gli Ungari, che erano entrati in Emilia nei pressi di Piacenza e ne avevano devastati i sobborghi, nell’anno 900 infuriarono nel Reggiano danneggiando gravemente San Tommaso e probabilmente la cattedrale stessa.

Nel Catalogo dei vescovi di Reggio (5) si legge che in quella circostanza gli Ungari trucidarono, insieme con molti chierici, anche il vescovo Azzone (Azzo, qui interfectus est a paganis).

Benché la notizia dell’uccisione del vescovo di Reggio non sia del tutto certa e sia stata contestata già nel sec. XVIII (6), tuttavia i danni riportati dalla Chiesa reggiana furono così ingenti, che Berengario dovette intervenire elargendo beni di proprietà regia, “providens – come si legge testualmente in un diploma dell’anno 904 – eiusdem ecclesiae necessitates vel depredationes atque incendia quae a ferocissima gente Hungarorum passa est” (7).

Il monastero di San Tommaso poté così essere ricostruito: “coenobium Sancti Thomae (…) reaedificatum, olim ab infidelibus funditus destructum“, secondo quanto si legge in un documento (8).

Il vescovo di Reggio succeduto ad Azzone, subito dopo l’incursione che probabilmente era costata la vita al suo predecessore, nell’ottobre dell’anno 900 ottenne da Ludovico III il diritto di fortificare la sua chiesa con un giro di mura: “licentiam circundandi iam dictam ecclesiam per girum suae potestatis (…) excelsa munitione undique ad perpetuam ecclesiae suae defensionem” (9).

Undici anni dopo, imitando altri vescovi e signori feudali che si affrettavano a costruire fortificazioni atte a difendere le popolazioni dalle incursioni ungare, il vescovo di Reggio costruì un castello in una località chiamata Vicolongo (10). La ricostruzione delle chiese e dei conventi devastati dagli Ungari si protrasse fino al sec. XI; nell’anno 1000 venne fondato a Reggio un nuovo monastero, dedicato a San Pietro e a San Prospero.

 

 

Da Modena a Bologna

 

Proseguendo dunque la loro cavalcata lungo la via Emilia, gli Ungari arrivarono a Modena, probabilmente verso la fine di gennaio.

La leggenda di S. Geminiano, la sola fonte di questo episodio, racconta che all’arrivo dei barbari il vescovo, il suo clero e i fedeli si diedero alla fuga, abbandonando al proprio destino sia la chiesa in cui era sepolto San Geminiano sia gran parte del tesoro della chiesa. Entrati furibondi nella città deserta, gli Ungari sarebbero rimasti per qualche ora nella chiesa di San Geminiano e poi avrebbero lasciato la città senza torcere un capello a nessuno (sine alicuius laesione), grazie all’intercessione del Santo (obtentu gloriosissimi et saepe nominandi patris) (11).

Gina Fasoli, nel vecchio ma ancor fondamentale studio su Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, ha sollevato una serie di irriverenti obiezioni alla versione agiografica dell’evento.

“Ci si domanda infatti – scrive la Fasoli – a che cosa servivano le mura innalzate dal vescovo Liduino, se i barbari entrarono così facilmente senza combattere (…) e ci si domanda anche a che cosa servivano quelle scolte modenesi che vigilavano dall’alto delle mura invocando contro gli Ungari la protezione di S. Geminiano (…) come mai i Modenesi fuggirono dalla loro città così ben fortificata e dove fuggirono, se scapparono così in fretta che non presero con sé nemmeno le sacre reliquie di S. Geminiano e tutto il tesoro della sua chiesa? (…) Sembra insomma storicamente molto più prudente – conclude la Fasoli – respingere la narrazione dell’Anonimo, anche se è stata finora tradizionalmente accettata, e ritenere che Modena, protetta come Parma e tante altre città dalla cerchia delle sue solide mura, vigilata dai cittadini, non ebbe a patire alcun danno dagli invasori” (12). 

Sicuramente gli Ungari devastarono il contado modenese ed assalirono l’abbazia di Nonantola, uno dei più importanti monasteri dell’Italia settentrionale. A quanto si legge nel Catalogo dell’Abbazia di Nonantola, alcuni monaci, tra cui l’abate Leopardo, trovarono scampo nella fuga, ma la maggior parte di loro fu trucidata e l’edificio venne dato alle fiamme, insieme con la preziosa biblioteca (Venerunt usque ad Nonantulam et occiderunt monachos et incenderunt monasterium et codices multos concremaverunt (…) abbas Leopardus cum certis aliis monachis fugierunt et aliquanto latuerunt). In seguito tuttavia la comunità monastica si ricostituì e l’abbazia fu ricostruita: “Postea vero recongregati sunt et recondiderunt monasterium et ecclesiam” (13).

Mentre si può attribuire agli Ungari “la scomparsa di altri piccoli monasteri nell’agro persicetano che dipendevano dal monastero di Montecassino e di cui si perdono le tracce” (14), risultò invece vano il tentativo dei barbari di appiccare il fuoco alla chiesa di Santo Stefano, situata ad est di Bologna, fuori dalla cinta muraria; un insuccesso, questo, che fu attribuito all’intercessione di San Petronio.

Quanto alla via d’Ungheria, nome portato ancora nel 1294 dall’attuale via Schiavonia a Bologna, Giovan Battista Pellegrini, che si è occupato dei numerosi toponimi italiani relativi agli Ungari, dichiara di non sapere “quale fondamento abbia qui tale nome in rapporto con le incursioni” (15).

Non è escluso, invece, che risalga alle scorrerie di quel periodo la denominazione di strada Ungarista o via Ungaresca data alla strada che presso Forlì correva parallela alla via Emilia.

In ogni caso, da Bologna le schiere ungare tornarono verso il Po e lo passarono “probabilmente ad Ostiglia, nodo stradale frequentatissimo in tutti i tempi” (16).

In giugno, un contingente di truppe ungare attraversò la laguna di Venezia, con cavalli e barchette fatte di pelli, e devastò Chioggia ed altri centri minori; ma il 29 giugno si trovò davanti la flotta veneziana e fu costretto a ritirarsi.

 

 

Il Ritmo Modenese

 

Quel vero e proprio gioiello di poesia latina medioevale che va sotto il nome di Ritmo Modenese fu trovato in un codice del secolo XI della Cattedrale di Modena da Lodovico Antonio Muratori, il quale lo pubblicò inizialmente nelle Antiquitates Italicae Medii Aevi (17) facendolo risalire all’anno 924.

Il carme fu successivamente pubblicato nei Monumenta Germaniae Historica tra i componimenti poetici dell’età carolina (18) da Ludwig Traube, il quale invece lo anticipò al biennio 899-900, cioè all’epoca in cui Modena poté resistere alle incursioni ungare grazie alle sue forti mura ricostruite sul finire del sec. IX dal vescovo Liduino, grazie alla vigilanza delle sue scolte e soprattutto, secondo quanto attestato dal carme, grazie all’intercessione del santo patrono della città.

Il carme esordisce raccomandando agli uomini di guardia sulle mura di vigilare contro il pericolo di un improvviso attacco nemico:

 

O tu, qui servas armis ista moenia, 

noli dormire, moneo, sed vigila !

 

Come exempla di vigilanza, vengono citati due celebri episodi: il primo è quello dell’espugnazione di Troia, addebitata al fatto che le sentinelle si erano abbandonate al sonno e non si erano accorte che dal ventre del cavallo di legno uscivano i guerrieri greci, mentre il secondo episodio è quello delle oche del Campidoglio che misero in fuga i Galli invasori.

Dopo avere invocato Cristo affinché vigili su Modena e ne difenda la cinta muraria con la sua lancia e dopo aver invocato la Santa Vergine e l’Apostolo Giovanni, il carme fa appello ai giovani della città (fortis iuventus, virtus audax bellica) perché si avvicendino nei turni di guardia sulle mura.

A questo punto ci si rivolge a San Geminiano, chiedendogli di pregare il Re dei Cieli affinché salvi Modena dal flagello presente, che pure non sarebbe immeritato:

 

Confessor Christi, pie Dei famule, 

Geminiane, exorando supplica,

ut hoc flagellum, quod meremur miseri,

celorum regis evadamus gratia.

 

D’altronde già “ai tempi di Attila” (Attile temporibus) il santo patrono aveva salvato la città da un pericolo analogo. Infatti, secondo una pia leggenda, per salvare Modena dagli Unni di Attila San Geminiano (che era morto mezzo secolo prima, nel 397) avvolse la città entro una fitta coltre nebbiosa, inducendo i barbari invasori a passare oltre. Si tratta di un miracolo analogo a quello che viene attribuito a San Prospero, vescovo di Reggio Emilia nel V secolo, il quale avrebbe salvato la città da una non meglio identificata incursione di Unni producendo il miracolo della nebbia.

Nel Ritmo Modenese, dunque, la rievocazione della figura di Attila introduce la menzione dei barbari nepoti, che costituiscono la minaccia presente.

Contro le frecce degli Ungari, temibili arcieri, i Modenesi invocano la difesa del santo patrono, anche se per i loro peccati riconoscono di non esserne degni:

 

Nunc te rogamus, licet servi pessimi,

ab Hungarorum nos defendas iaculis.

 

Ed è sempre San Geminiano ad essere ringraziato con questa strofe di ottonari trocaici rimati:

 

Tandem urit Hungarorum 

gens nefanda et cunctorum

loca perdit: sed suorum

Sanctus servat moenia.

 

“Infine la gente nefanda degli Ungari incendia e distrugge gl’insediamenti di tutti; ma il Santo salva le mura dei suoi”, cioè dei suoi Modenesi.

Un altro testo liturgico (19), stilisticamente più elaborato, dice:

 

Stella fulget in nebula,

dum fugit Ungarorum

gens furens, visa cellula,

Flos, in qua confessorum

Geminianus parvula

lux humatus, quam horum

sic mox illaesa singula

liquit gens perfidorum.

 

“Mentre la furente gente degli Ungari fugge, una stella risplende nella nebbia. La celletta in cui è sepolto il Fiore dei Martiri, Geminiano, è una piccola luce, l’unica che l’orda di questi infedeli lascia intatta”.

 

 

La vittoria ungara sul fiume Brenta

 

Cerchiamo adesso di delineare sinteticamente il contesto storico degli eventi che ispirarono l’autore (o gli autori) del Ritmo Modenese.

Il 21 febbraio 896 Arnolfo di Carinzia, re dei Franchi orientali, riceveva in San Pietro la corona imperiale. Già nell’892 il sovrano aveva stretto con gli Ungari un patto per averli alleati contro le popolazioni della Moravia; in pochi anni, gli Ungari annientarono il principato moravo, sul territorio del quale fu creata una zona di confine corrispondente grosso modo all’Austria odierna. Fu così che gli Ungari si resero conto dell’opulenza dei territori occidentali e delle opportunità di bottino che questi presentavano. D’altronde già a partire dall’862, quando erano ancora stanziati oltre il Dnepr, essi avevano effettuato sporadiche incursioni contro i territori orientali del Sacro Romano Impero.

Perciò nell’899, tre anni dopo l'”occupazione della patria” nel bacino danubiano, gli Ungari accolsero ben volentieri la nuova richiesta d’aiuto di Arnolfo, che dopo essere stato incoronato a Roma doveva sistemare i conti col suo rivale, Berengario I.

In primavera (in agosto secondo altre fonti) arrivò dunque nella Pianura Padana un esercito di cinquemila cavalieri ungari che cominciò a devastare e saccheggiare la regione.

Liutprando (915-972) così registra l’evento nell’Antapodosis (20) da lui scritta fra il 959 e il 962, anno in cui diventò vescovo di Cremona.

“Il Sole non aveva ancora lasciato il segno dei Pesci per occupare quello dell’Ariete, quando, dopo aver radunato un immenso e innumerevole esercito (immenso atque innumerabili collecto exercitu) [gli Ungari, ndr] si dirigono in Italia; oltrepassano Aquileia e Verona, città molto ben fortificate (munitissimas civitates), e giungono a Ticinum – che ora con altro termine più insigne viene chiamata Pavia (Papia) – senza che nessuno opponga resistenza (nullis resistentibus). Re Berengario non poté stupirsi abbastanza per un evento così straordinario e senza precedenti (tam praeclarum novumque facinus); prima d’allora, infatti, non aveva nemmeno udito il nome di questo popolo” (21). 

Trovandosi nella necessità di difendere i suoi sudditi dall’invasione barbarica, Berengario, che si trovava nell’Italia centrale, raccolse un esercito di circa 15.000 uomini, 25.000 secondo qualcuno, in ogni caso un numero almeno triplo di quello dei nemici (exercitus triplo Hungariorum validior, dice Liutprando), e marciò verso il Po.

Gli Ungari disponevano di un’intelligenza tattica e di una tecnica militare che consentì loro di infliggere numerose sconfitte ad avversari più numerosi. Ciascuno di loro montava un cavallo, erano addestrati nell’uso dell’arco, della lancia e della spada, cosicché potevano adoperare le armi a seconda delle necessità. La loro cavalleria era in grado di suddividersi in unità militari più piccole, veri e propri “corpi tattici” che ubbidivano disciplinatamente ciascuno al proprio comandante, puntavano tutto sulla rapidità delle operazioni e sull’effetto sorpresa. Prima dell’attacco tempestavano il nemico con una fitta grandine di frecce, provocando lo scompiglio della cavalleria avversaria e investendola subito dopo con i loro cavalli. Maestri nelle astuzie belliche, simulavano la fuga per attirare il nemico in un agguato già predisposto. Diventavano vulnerabili, invece, quando dovevano trascinare pesanti carri carichi di bottino, perché ciò li privava della loro caratteristica mobilità. Le loro incursioni erano sempre precedute dalle attività degli esploratori, i quali si procuravano informazioni sulla natura e sulla situazione politica del paese da attaccare.

Stavolta però gli Ungari si trovano davanti a un esercito che è almeno il triplo del loro. Anzi, siccome Berengario sta per passare il Po, essi, che sono già arrivati a Pavia, temono di vedersi tagliare la via del ritorno; perciò decidono di rinunciare all’impresa e si ritirano a est dell’Adda, ma in tanta fretta e furia che molti vi muoiono annegati.

Ecco come Liutprando descrive la situazione.

“Appena gli Ungari videro una moltitudine così grande, costernati nell’animo, non riuscivano a deliberare circa il da farsi. Avevano un gran timore di combattere, ma non potevano assolutamente fuggire (preliari penitus formidabant, fugere omnino nequibant). Però, ondeggiando nel dubbio, ritengono che sia meglio fuggire anziché combattere; e, sotto l’incalzare dei Cristiani, attraversano a nuoto il fiume Adda, cosicché per la fretta eccessiva moltissimi morivano annegati (persequentibusque Christianis Adduam fluvium natando, ita ut nimia festinatione plurimi necti submergerentur, pertranseunt)” (22).

Vista la mala parata, “gli Ungari prendono la saggia decisione di inviare dei messaggeri a chieder la pace ai Cristiani, al fine di poter ritornare incolumi, restituendo tutta la preda e il bottino (praeda omni cum lucro reddita). I Cristiani respinsero totalmente questa richiesta e, ahimé (pro dolor), – così si lamenta Liutprando – li insultavano, e cercavano catene con cui legare gli Ungari, piuttosto che armi con cui ucciderli. I pagani, non potendo addolcire gli animi dei Cristiani con questa proposta, ritenendo che fosse migliore la vecchia decisione, cercano di liberarsi iniziando la fuga e così fuggendo giungono nelle vastissime campagne veronesi (in Veronenses latissimos campos perveniunt)”(23).

Qui, fra l’avanguardia degl’inseguitori e la retroguardia degl’inseguiti, avviene una prima scaramuccia, che si risolve a vantaggio dei barbari (“in quo victoriam habuere pagani“) (24).Poi, siccome si avvicina l’esercito italico, gli Ungari proseguono la ritirata. Ma, siccome i cavalli ormai sono sfiancati, sono costretti a fermarsi sulla riva orientale del Brenta, sempre incalzati dagli Italici, che si fermano sull’altra sponda.

Ancora una volta gli Ungari si dichiarano disposti a consegnare il bottino, i prigionieri, le armi e i cavalli, tranne quelli necessari per proseguire nella ritirata. Anzi, promettono che, se verranno risparmiati e potranno andarsene sani e salvi, non metteranno mai più piede in Italia, lasciando in ostaggio i loro figli a garanzia dell’impegno assunto. La proposta però viene respinta. “Ma, ahimé, – si lamenta ancora il cronista – i Cristiani, accecati dalla superbia (superbiae tumore decepti), continuano a minacciare i pagani come se li avessero già vinti” (25).  

Il 24 settembre 899 gli Ungari decidono di passare all’attacco, dividendosi in tre gruppi che attraversano il Brenta e aggrediscono su tre lati gl’Italici, che sono scesi da cavallo e si stanno ristorando di cibo e di riposo. L’azione è fulminea: “gli Ungari – scrive Liutprando – li trafissero con così grande rapidità, che ad alcuni infilzarono il cibo in gola (quos tanta Hungarii celeritate confoderant, ut in gula cibum transfigerent), ad altri portarono via i cavalli, impedendo loro la fuga e tanto più facilmente li uccidevano, in quanto avevano visto che erano senza cavalli”.

“Ad accrescere infine la rovina dei Cristiani – prosegue il cronista – vi era tra loro una discordia non piccola. Alcuni, addirittura, non solo non combattevano contro gli Ungari, ma desideravano che i loro vicini cadessero; e questi perversi lo facevano in maniera perversa (perversi ipsi perverse fecerant), al fine di regnare da soli, più liberamente, purché cadessero i vicini. Mentre trascurano di soccorrere alle necessità dei vicini e ne desiderano la morte, corrono essi stessi incontro alla propria. Pertanto i Cristiani fuggono e i pagani infieriscono (fugiunt itaque Christiani, saeviuntque pagani); e quelli che prima non erano riusciti a supplicare coi doni, non sapevano poi risparmiare i supplici” (26).

 

 

Le devastazioni in Emilia

 

In seguito alla sconfitta, Berengario si rinchiuse in Pavia coi resti del suo esercito, ormai praticamente dissolto. La durissima disfatta lo indebolì di fronte all’aristocrazia, che ben presto gli oppose Ludovico di Provenza, e di fronte alle popolazioni, che rimasero esposte alle scorrerie degli Ungari.

Questi infatti ripresero a saccheggiare la Valle Padana, finché alla metà di dicembre una parte di loro da Vercelli si avviava verso il Gran San Bernardo, mentre un’altra parte passava il Po, probabilmente presso Pavia, nel luogo che da loro prese il nome di Popula Pagana, e procedendo sulla riva destra arrivò sotto le mura di Piacenza. Imboccata la Via Emilia, si diressero verso Parma e iniziarono quella serie di devastazioni di cui si è detto più sopra.

Successivamente, fra il 903 e il 904, l’Italia fu obiettivo di un’altra incursione ungara, della quale le fonti non consentono di determinare l’area in maniera precisa.

Probabilmente la nuova scorreria si limitò alle zone a nord del Po; sicuramente coinvolse Aquileia e Piacenza e indusse i bergamaschi a rafforzare le fortificazioni cittadine.

Berengario, che nel frattempo aveva prevalso sul rivale Ludovico III ed aveva ripreso Pavia, stavolta preferì venire a patti con gli Ungari e instaurare con loro relazioni di amicizia, “datis obsidibus ac donis” (27), ossia elargendo donativi e consegnando anche degli ostaggi come pegno di alleanza.

Gli studiosi ungheresi sostengono che nel 904 venne conclusa una vera e propria tregua, la quale fu osservata fino al 919, poiché per quindici anni gli Ungari rivolsero le loro attenzioni a Baviera, Turingia e Sassonia.

Ciò consentì alle popolazioni italiche di predisporre opportune fortificazioni in previsione della fine della tregua. Mentre il vescovo di Reggio succeduto ad Azzone, come già si è detto, erige un castello a Vicolongo, “il Vescovo di Modena, che ha costruito insieme con gli abitanti il castello di Cittanuova [sic] concedendo degli appezzamenti presso le mura, fa ai concessionari obbligo di costruirvi una casa e di abitarvi, di provvedere alla difesa e alla manutenzione del castello, esigendo un censo che varia dall’uno all’altro e senza impegnarsi a non pretendere altri tributi” (28). Tra il 916 e il 922 anche il borgo di Carpi viene rifondato come roccaforte (castrum Carpi).

Nel 919, dopo aver ottenuto la corona imperiale, Berengario dovette far fronte ad alcuni vassalli che gli opponevano Rodolfo di Borgogna; per liberarsi degli avversari, pensò bene di assoldare due contingenti di cavalieri ungari, comandati da due capi di cui Liutprando ci ha trasmesso i nomi: Dursac e Bugat.

Tuttavia, per quanto fossero – sempre secondo Liutprando – “grandi amici” di Berengario, i contingenti ungari si comportarono come in un territorio di conquista. Una parte di questi gruppi si unì ad altre schiere sopraggiunte dall’Ungheria e nel 922 scese per la costa adriatica fino alla Puglia sotto il comando di un Salardo (Szovárd) che probabilmente è da identificarsi con lo Zoard delle tarde cronache ungheresi.

Dopo la battaglia di Fiorenzuola, nella quale Rodolfo di Borgogna si scontrò con Berengario e coi suoi alleati ungari, questi ultimi, comandati da Salardo, il 12 marzo 924 strinsero d’assedio Pavia e la incendiarono con le loro frecce infuocate.

Un mese più tardi, il 7 aprile 924, Berengario cadde vittima di una congiura ordita dai fautori di Rodolfo. I capi ungari, non più legati dal patto col sovrano, nel 927 misero a ferro e fuoco la Toscana e il Lazio, anche qui inserendosi nelle lotte intestine dei signori italiani.

“Particolarmente notevole per la sua estensione territoriale – scrive uno storico delle invasioni barbariche – fu però soprattutto la grande spedizione del 937, che vide gli ungari entrare nella penisola da nordovest, attraverso il Moncenisio e il Monginevro, e spingersi progressivamente sempre più a sud, lungo il tradizionale percorso che conduceva dalle Alpi occidentali a Roma, fino a giungere in Campania, per poi risalire da qui lentamente, uscendo infine, con ogni probabilità, dalla frontiera nordorientale. Proprio nel viaggio di ritorno gli ungari subirono una dura sconfitta per mano degli abitanti della Marsica, i quali sorpresero dentro un’impervia gola montana i nemici, rallentati nella marcia dal cospicuo bottino raccolto nella lunga scorribanda, e inflissero loro una severa punizione” (29).

Una successiva apparizione di Ungari sotto le mura di Roma ebbe luogo nel 942, ma gl’invasori furono affrontati e respinti; e nei pressi di Rieti dovettero subire un’altra sconfitta.

Le ultime scorrerie nella penisola ebbero luogo tra il 952 e il 954, quando vennero attaccate Torino e Susa.

Le incursioni ungare, che tra l’898 e il 955 avevano superato la trentina in tutta l’Europa occidentale, si erano ridotte nel tempo “sia per la maggior capacità di resistenza degli aggrediti sia, forse, per una diminuzione della spinta propulsiva dello stesso mondo ungarico” (30).

Esse cessarono definitivamente dopo la sonora sconfitta che nel 955 Ottone I inflisse agli Ungari a Lechfeld presso Augusta. Da allora gli Ungari si stabilizzarono nel bacino carpato-danubiano, si convertirono al cristianesimo romano e costruirono un regno che costituì un’antemurale contro altri popoli di cavalieri nomadi, come i Peceneghi o i Cumani.

Sei secoli dopo la battaglia di Lechfeld, un documento custodito presso l’Archivio di Stato di Parma e datato 19 febbraio 1559 attesta un giuramento di fedeltà agli Statuti parmensi sottoscritto dai maggiorenti delle Valli dei Cavalieri, tra i quali figurano tre esponenti di una famiglia d’origine ungherese: Magiarus, Hillarius e Bartholomeus de Magiaris.

I de Magiaris, che si estinsero nel XVII secolo, erano probabilmente “discendenti di qualche disertore magiaro, già appartenente allo sconfitto corpo di spedizione ungaro mandato dall’Albornoz ad assalire Parma, durante il periodo della signoria viscontea” (31).

Cessato il periodo delle incursioni, era dunque iniziata nella storia del popolo magiaro una nuova era, nel corso della quale esso era diventato membro della famiglia europea, a pieno titolo e con pari dignità.

 

 

 

1. G. Serra, Da Altino alle Antille. Appunti sulla fortuna e sul mito del nome ‘Altilia’, ‘Attilia’, ‘Antilia’, in Lineamenti di una storia linguistica dell’Italia medioevale, I, Liguori, Napoli 1954, pp. 1-66.

2. I. Affò, Storia della città di Parma, Parma 1792, p. 203.

3. G. Fasoli, Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, Sansoni, Firenze 1945, p. 105.

4. G. Fasoli, ibidem. Cfr. I Affò, Istoria di Guastalla, Guastalla 1785, p. 57.

5. Rerum Italicarum Scriptores, VIII, 1170.

6. G.. Tiraboschi, Memorie storiche modenesi, Modena 1798, I, p. 48.

7. I Diplomi di Berengario I, a cura di L. Schiaparelli, F.S.I., Roma 1903, XLII, 904, gennaio 4.

8. G. Bisoni, Gli Ungheri in Italia, in La scuola cattolica e il pensiero scientifico, S. III, 18, 1899, pp. 314-330, 486-502, vol. 19, 1900, pp. 269-295.

9. Dipl. Ludovico III, IV, 900, Ott. 31.

10. Dipl. Bereng. I, LXXV, a. 911.

11. Vita II di S. Geminiano, in Mon. Storia Patria delle province modenesi, XIV, 1, a cura di P. Bortolotti, p. 103.

12. G. Fasoli, op. cit., pp. 107-109.

13. Catal. Abb. Nonant., p. 572; cit. da G. Fasoli, op. cit., p. 109.

14. G. Fasoli, op. cit., pp. 109-110.

15. G. B. Pellegrini, Tracce degli Ungari nella toponomastica italiana ed occidentale, in: C.I.S.A.M. Atti delle settimane di studio. XXXV Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari (23-29 aprile 1987), Spoleto 1989, p. 323).

16. G. Fasoli, op. cit., 96.

17. Antiquitates Italicae Medii Aevi, vol. III, col. 703.

18. Poëtae aevi Carolini, vol. III, pp. 703-706.

19. G. Cappelletti, Le chiese d’Italia dalle loro origini fino ai giorni nostri, Venezia 1844, XI, p. 213.

20. Liutprandi Ticinensis Ecclesiae Levitae Rerum ab Europae Imperatoribus ac Regibus gestarum, in A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, pp. 425-476.

21. Liutprando, Antapodosis, II, 9.

22. Antapodosis, II, 10.

23. Antapodosis, II, 11.

24. Antapodosis, II, 12.

25. Antapodosis, II, 13.

26. Antapodosis, II, 15.

27. Giovanni Diacono, Chronicon venetum, F.S.I., G. Monticolo, Roma 1890, p. 22.

28. G. Fasoli, op. cit., p. 217.

29. C. Azzara, Le invasioni barbariche, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 135-136.

30. C. Azzara, op. cit., p. 137.

31. G. Capacchi, Storia, leggenda e araldica “minore” nelle Valli dei Cavalieri, “Aurea Parma”, 1963, p. 76.

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EX JUGOSLAVIA: GIOCO SPORCO NEI BALCANI

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Frammentazione nazionale e risiko geopolitico del Kosovo

Autore: Stefano Vernole

 

Descrizione: A diversi anni dai bombardamenti della NATO che portarono alla disintegrazione definitiva di quel che restava della Jugoslavia, l’affaire Kosovo e la soluzione delle questioni legate al defunto Stato balcanico rimangono ancora tra i più difficili problemi che l’Europa è chiamata ad affrontare e risolvere. Grazie all’indipendenza, ottenuta soprattutto per effetto del sostegno statunitense, il Kosovo rappresenta una testa di ponte degli Stati Uniti nel “vecchio continente”, nonché un crocevia del traffico di droga proveniente dall’Afghanistan. Analogamente, quasi tutti i Paesi nati dalla disgregazione jugoslava sono garanti di instabilità continentale nonché direttrici di penetrazione turca e “islamista”, il cui ruolo durante gli anni ’90 si rivelò decisivo in funzione anti-serba.
Questo libro si propone di analizzare la questione della balcanizzazione jugoslava in termini storici, culturali, giuridici e geopolitici, a partire dalle esperienze personali maturate dall’autore grazie ai numerosi viaggi nei territori della ex Jugoslavia. Emerge un quadro spietato ed estremamente istruttivo riguardo all’intera vicenda, che colora di tinte fosche il manicheismo con cui i politici e il comparto informativo hanno distinto vittime e carnefici di fronte all’opinione pubblica. Completa il testo un “dossier Kosovo” elaborato da Andrea Turi per attualizzare le vicende dell’ex provincia serba, oggi al centro dei giochi geopolitici delle principali potenze mondiali, Stati Uniti e Russia in primis.

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IL PRIMO RAGGIO

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L’arsenale strategico di Mosca 1943-2013

Autore: Alessandro Lattanzio

Descrizione: Il testo ricostruisce la genesi e lo sviluppo dell’arsenale strategico sovietico e russo, tracciando per sommi capi la storia dell’Unione Sovietica e della Federazione Russa quale superpotenza mondiale, descrivendo gli strumenti e la strategia che permisero a Mosca di svolgere il ruolo di primo concorrente ed avversario degli Stati Uniti d’America nella seconda metà del XX° secolo e all’inizio del XXI° secolo. È poco nota, infatti, la storia del programma atomico sovietico, solo recentemente resa pubblica in Italia anche dalla pubblicazione del lavoro dello storico russo Roy Medvedev.
L’URSS, benché devastata dall’aggressione nazista del 22 giugno 1941, nell’arco di quattro anni riuscì a colmare il gap tecnologico-nucleare con gli USA. Difatti, nell’agosto 1949 venne fatto esplodere il primo ordigno atomico sovietico, mentre nel 1954 esplodeva la prima bomba termonucleare, battendo gli USA nella corsa alla superbomba ad idrogeno. In seguito, Mosca puntò sui missili balistici intercontinentali quali vettori strategici principali del proprio arsenale strategico, al contrario di Washington, che invece puntò sui bombardieri strategici. Infine, neanche il gap tecnologico tra USA e URSS nel settore dei sottomarini lanciamissili balistici, potè perdurare oltre un lustro.
L’arsenale strategico-nucleare della Federazione Russa, oggi, è la principale eredità dell’era sovietica di Mosca, ed è grazie a questa eredità che la Russia di Putin riconquista il suo ruolo di potenza mondiale.

 

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QATAR: LA SCHIAVITU’ COME BUSINESS

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Il mese scorso il quotidiano inglese “The Guardian” ha reso noti i risultati di un’inchiesta sulla pratica della schiavitù in Qatar, smascherando un vero e proprio business mortale che solleva seri dubbi sulla possibilità che il paese possa essere ancora considerato idoneo ad ospitare i campionati mondiali di calcio del 2022.

I dati presentati dinanzi alla comunità internazionale sono inquietanti: quest’estate sono morti molti giovani lavoratori nepalesi, con la media di quasi uno al giorno, fra i milioni che costituiscono dopo quelli indiani il più vasto gruppo  di manodopera straniera nella penisola, verso la quale partono ogni anno in più di 100.000. Per la precisione, in base ai documenti ottenuti dall’Ambasciata Nepalese a Doha almeno 44 lavoratori sono morti tra il 4 giugno e l’8 agosto per infarti, insufficienza cardiaca o incidenti sul lavoro.  Ad oggi – secondo dati aggiornati all’inizio del mese di ottobre – il loro numero è salito a 70.

Tali cause di decesso sono spie di quelli che si configurano come veri e propri lavori forzati, con retribuzioni fantasma: i salari vengono trattenuti per mesi ed  i passaporti confiscati, per impedire agli stranieri di ritornare in patria e, al contempo, di assumere una propria identità nel paese ospitante, dove risultano vivere illegalmente. A questo si aggiungono altre violazioni dei diritti umani, come la negazione dell’accesso all’acqua libera nel cuore del deserto dove le temperature sono superiori ai 50°C, con la conseguenza che molti nepalesi si sono rifugiati presso i consolati, chiedendo asilo e cercando scampo dalle brutali condizioni dei loro impieghi, accettati solo per sfuggire alla miseria che affligge i loro villaggi d’origine in patria. “Vogliamo andare via, ma la compagnia non ce lo permette.” ha dichiarato un immigrato che lavora allo sviluppo di Lusail City, il complesso che ospiterà l’enorme stadio per i mondiali.

Essi vengono abitualmente costretti a dormire ammassati, a 12 alla volta, in ambienti angusti e malsani, dove proliferano malattie ingenerate dalle precarie condizioni igieniche e dall’astenia, privati di quella paga minima che consentirebbe loro almeno di nutrirsi. “Lavoriamo a stomaco vuoto per 24 ore”, svela Ram Kumar Mahara, 27 anni, che non ha neanche il diritto di lamentarsi col proprio datore di lavoro senza rischiare di essere percosso e di aggravare ancora la propria condizione.

Il Qatar, una delle più ricche nazioni del pianeta, si rivela dunque, a fronte di queste evidenze, anche la maggior sfruttatrice di una delle più povere, praticando quella che Aidan McQuade, direttore dell’Anti-Slavery International, fondato nel 1839, non esita a ricondurre ad una forma di moderna schiavitù che si calcola affligga almeno 21 milioni di persone al mondo. Uno stato che è per troppi “una prigione a cielo aperto”, secondo la definizione di Maya Kumari Sharma, l’ambasciatrice nepalese che opera sul territorio, e che possiede il primato di avere la maggior percentuale di lavoratori migranti rispetto alla popolazione: più del 90% della forza lavoro è costituita infatti da immigrati e si stima che per la costruzione di stadi, strade, porti ed alberghi necessari per il campionato saranno ancora reclutati più di 1,5 milioni di uomini.

Il Comitato Supremo ha insistito perché i contratti per la coppa del mondo siano elaborati secondo standard decenti, ma vi è un complesso sistema di progetti manageriali e adenti di reclutamento a gravitare attorno all’organizzazione dell’evento, per il quale si stima che il paese spenderà 100 bilioni di dollari in infrastrutture, di cui 20 per nuove strade, 4 per collegamenti col Bahrain, 24 per una rete di alta velocità e 55,000 stanze d’hotel per ospitare i tifosi, mentre il nuovo aeroporto è già quasi completo. La coppa del mondo è infatti parte di un ben più vasto programma di costruzione che punta a ridisegnare il profilo dell’ex-reame desertico nel giro delle prossime due decadi ed il governo difficilmente ridimensionerà le proprie ambizioni dinanzi a quello che si configura sempre più come un dramma umanitario, anche perché le compagnie britanniche coinvolte non hanno voce in capitolo sulla formulazione dei contratti degli operai. Il Ministero preposto del resto afferma di svolgere già tutti i controlli e le supervisioni necessarie a garantire condizioni di lavoro adeguate, applicando sanzioni ed intentando processi laddove le evidenze lo impongano, ma per il momento la situazione non sembra migliorare e la tragedia dei lavoratori stranieri in Qatar continua a consumarsi in un’atmosfera di relativo silenzio.

Ali bin Samikh Al-Marri, Presidente del Comitato Nazionale per i Diritti Umani, ha smentito i fatti e ha definito esagerati i numeri sovra citati, mentre il Ministro Cameron dal conto suo si è limitato, dopo la conferenza di Zurigo, a pressare la dirigenza catariota per un generico miglioramento delle condizioni di lavoro degli stranieri.

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PRODOTTI CHIMICI E SALUTE

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Bruxelles. Ultimo giorno di settembre. Da un autobus è possibile osservare le vie del centro, le immagini di una città che riprende il proprio ritmo settimanale. Il percorso seguito può costeggiare il quartiere europeo, senza entrarvi. Un po’ come una grossa fetta dell’agglomerato urbano brussellese. Una gran parte della città che – come la maggioranza dei cittadini europei – rimane spesso estranea a dinamiche e decisioni che ruotano intorno alle Istituzioni dell’Unione.

Una volta su Internet, è possibile dare uno sguardo alle notizie italiane ed a quelle europee. Tra queste ultime, a richiamare l’attenzione del lettore è un articolo pubblicato da “EurActiv.fr”: Les relations de scientifiques avec l’industrie chimique éclatent au grand jour.

Cerchiamo, dunque, di capire a cosa si faccia riferimento. Iniziamo da una «proposta della Commissione» finalizzata a raccomandare – atto giuridicamente non vincolante – l’applicazione del «principio di precauzione in materia di perturbatori endocrini», lasciando ipotizzare l’interdizione di alcuni «prodotti chimici comunemente utilizzati». La bozza definisce “perturbatore endocrino” una «sostanza o miscela esogena che altera» una o più funzioni del «sistema endocrino, causando, di conseguenza, «effetti avversi alla salute in un organismo intatto», nella sua «progenie» o «(sub)popolazioni». Le «categorie» cui si fa riferimento sono 2: quella dei «perturbatori endocrini» e quella dei «sospetti perturbatori endocrini». E’ interessante notare come il testo menzioni, alla terza pagina, una «risoluzione» del Parlamento europeo «del 14 marzo 2013 sulla protezione della salute pubblica dai perturbatori endocrini», i quali dovrebbero essere identificati tramite «criteri orizzontali omnicomprensivi […] basati sulla scienza ed in particolare sul Programma Internazionale sulla Sicurezza Chimica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO/IPCS)».

Una volta noto, il documento in questione diviene oggetto di una critica pubblicata su «14 riviste scientifiche tra luglio e settembre» e firmata da «18» esperti (“EurActiv.fr”). Secondo questi ultimi, il quadro normativo, «per i cosiddetti prodotti chimici perturbatori endocrini (EDCs)», che la Commissione vorrebbe applicare sarebbe dovuto ad una «virtualmente completa ignoranza […] dei principi di farmacologia e tossicologia». Senza scendere troppo nel dettaglio, la presa di posizione parte proprio dal concetto di «perturbatore endocrino», interpretato non come un «punto terminale definito in senso tossicologico», ma come una «modalità di azione che potrebbe o meno concludersi con effetti avversi».

Pur nella difficoltà di formarsi un parere netto, svolgiamo una piccola ricerca on line, al fine di trovare altri spunti sulla questione. Risulta interessante un servizio giornalistico firmato da Stéphane Horel e Brian Bienkowski e pubblicato su “Environmental Health News”. Secondo l’indagine, tra i 18 firmatari della critica alla proposta della Commissione europea (Direzione generale Ambiente), «17» avrebbero «collaborato con industrie chimiche, farmaceutiche, cosmetiche, del tabacco, dei pesticidi o della biotecnologia». Inoltre, alcuni avrebbero «ricevuto fondi di ricerca da associazioni industriali» o lavorato come consulenti per aziende del settore. Nella lista di nomi, l’unico accanto al quale non figurano «legami noti con l’industria» è quello di Sonja von Aulock, dell’Università tedesca di Costanza.

Chiaramente, la discussione sviluppatasi intorno al caso è accesa e le posizioni in campo sono, a dir poco, opposte. Ad esempio, per Daniel R. Dietrich – «tossicologo», ex consulente di un’organizzazione industriale, primo ad apparire tra gli autori del controverso editoriale – quello del conflitto di interessi è un argomento di scarsa rilevanza. Contrariamente, Åke Bergman – «ricercatore in chimica ambientale all’Università di Stoccolma» – ha definito il “testo dei 18” come «emotivo e non specifico, una miscela di scienza e linea politica, e con molti errori». Bergman è, inoltre, tra i firmatari – insieme a «40 altri scienziati senza dichiarati conflitti di interesse» – di un “testo confutazione” pubblicato nella «rivista Environmental Health». In questa parte del campo, l’idea è che la posizione espressa da Dietrich e colleghi sia intesa ad influenzare le decisioni della Commissione europea piuttosto che a dar spazio ai principi scientifici.

In tutto questo, «Joseph Hennon, portavoce della Commissione per l’ambiente», ha dichiarato che la «Commissione», nel definire le «linee di orientamento» delle «normative sui perturbatori endocrini», fa riferimento alle «migliori conoscenze scientifiche disponibili». Secondo “EurActiv.fr”, durante l’autunno, la «Commissione pubblicherà una nuova strategia» in merito ai «perturbatori endocrini».

Al di là di chi risulterà aver ragione in questa spinosa questione, «la posta in gioco» – come dicono Stéphane Horel e Brian Bienkowski – è «alta» e «coinvolge la strategia dell’Unione europea per regolamentare i prodotti chimici che alterano gli ormoni». Si tratterebbe del «primo tentativo al mondo di fare ciò». Inoltre, le «nuove regole» avrebbero degli effetti globali, dato che «tutte le compagnie che vendono una varietà di prodotti in Europa dovrebbero osservarle».

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AZERBAIJAN. LA RIELEZIONE DI ALIEV E LE PROSSIME SFIDE DELLA “REPUBBLICA DEL GAS”

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Il 9 ottobre scorso, il presidente uscente Ilham Aliev – figlio dell’uomo forte del PCUS e del KGB Heidar, suo predecessore – è stato rieletto per la terza volta consecutiva con l’85% delle preferenze, pari a 3.200.000 di voti circa (l’intera Repubblica azera conta più di 9 milioni di abitanti). Il movimento Nuovo Azerbaigian, di cui è a capo, rimane il primo partito del paese.

Si tratta ovviamente di un successo plebiscitario per il Capo di Stato del più importante interlocutore energetico dell’Unione Europea (dopo Mosca). Gli osservatori OCSE presenti ai seggi non hanno riscontrato violazioni di alcun genere: anzi il coordinatore della missione Michel Voisin ha fatto sapere che le elezioni sono state “trasparenti, libere e corrette”. Anche la delegazione del Consiglio d’Europa ha confermato la validità della consultazione elettorale. Inoltre, a poche ore dalla pubblicazione dei primi exit-poll, sono arrivate all’indirizzo di Aliev le congratulazioni del Congresso USA e della diplomazia italiana e britannica.

Dall’altra parte il principale sfidante del presidente, Gamil Hasanli, ha denunciato “massicce violazioni” ai seggi. Tuttavia la frammentazione dei movimenti avversi ad Aliev e l’assenza di un dibattito elettorale di portata nazionale hanno reso ininfluente e inefficace la strategia delle opposizioni.

Qualche giorno prima delle Presidenziali, il quotidiano turco e kemalista di lingua inglese The Hürriyet Daily News ha riportato la notizia dell’arresto di un attivista azero dei diritti umani, membro di un piccolo movimento di opposizione (Fronte popolare), Parviz Gashimly, arrestato qualche giorno fa dopo una perquisizione del suo domicilio effettuata dalla polizia governativa. Gli inquirenti hanno denunciato e prelevato Gashimly, trasferendolo in carcere e, in attesa di processarlo, lo hanno posto in custodia cautelare per detenzione illecita di armi da fuoco. Secondo il legale dell’oppositore azero, l’arresto del suo assistito “ha a che fare con il suo attivismo in difesa delle libertà fondamentali in Azerbaigian”.

Ma i temi sul tavolo di Aliev sono altri. Da un punto di vista prettamente economico, il trionfo dell’uomo forte della piccola repubblica del Caucaso meridionale significa molto sia per gli alleati atlantici (Europa e USA) sia per la vicina Russia, realtà amiche del governo di Baku. Ciò è dovuto al ruolo strategico giocato dall’Azerbaigian nello scacchiere energetico nel mar Caspio: lo attesta la presenza delle maggiori multinazionali del petrolio e del gas nel paese, su tutte BP, Statoil, Chevron, Total e Lukoil. Basti pensare che le riserve dei due maggiori consorzi energetici azeri, ossia Azeri-Chirag-Guneshli e Shah Deniz, contano risorse gassifere per 6 trilioni di metri cubi e 4 miliardi di tonnellate di oro nero.

L’obiettivo di Aliev rimane quello di continuare a incassare miliardi di dollari di ricavi, così da poter investire i proventi nell’ammodernamento del paese e nel mantenimento della repubblica del gas, che ha ormai consolidato il suo ruolo di pivot nell’Eldorado euroasiatico.

Eppure, per ciò che riguarda la politica estera, il presidente rieletto dovrà risolvere alcune questioni delicate, a partire dallo scontro militare e diplomatico con la vicina Armenia per l’annosa contesa del Nagorno-Karabakh, regione in territorio azero ma autoproclamatasi repubblica indipendente, grazie all’appoggio del governo di Erevan.

Esiste un accordo di cessate il fuoco stipulato nel 1994, che è stato violato ripetutamente dall’esercito armeno (almeno così riporta l’agenzia privata d’informazione azera Trend). La questione è attualmente monitorata dal presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE) Jean-Claude Mignon, il quale ha incontrato qualche settimana fa le delegazioni dei due paesi in lotta. Gli incontri patrocinati dal Cd’E, però, rimangono interlocutori, lontani dall’essere risolutivi.

Ma, forse, quello che preoccupa di più Aliev è il ruolo della Russia, la quale tesse alleanze solide con Baku per la cooperazione energetica e allo stesso tempo strizza l’occhio all’Armenia. Il rafforzamento dell’asse economico-diplomatico Russia-Azerbaigian sarà proprio l’obiettivo principale del terzo mandato di Aliev. Sebbene Baku goda di molta stima tra i paesi dell’alleanza atlantica e soprattutto nell’Ue, il governo non può permettersi di perdere l’appoggio decisivo dell’investitore russo. I fragili confini disegnati da Putin nel mar Caspio – uno dei bacini di combustibili fossili più importanti del mondo – non possono essere compromessi e la Russia è il maggior garante di questo disegno.

Comunque, nei mesi scorsi, Aliev ha fatto un mezzo torto a Putin: il 15 luglio di quest’anno, la compagnia energetica statale SOCAR ha acquisito gli asset dell’omologa greca DEPA (e l’operatore DESFA) per circa 1,5 miliardi di euro, a sfavore della russa Gazprom. Successivamente il consorzio energetico Shah Deniz ha scelto di puntare sul progetto del gasdotto TAP (Trans-Adriatic Pipeline), che foraggerà di gas l’Europa allentando così la sua dipendenza da Mosca. Il percorso toccherà Turchia, Grecia e Italia (via Puglia). Ad agosto, il presidente del Consiglio Enrico Letta si è recato a Baku per ringraziare personalmente Aliev.

Dunque, la prossima sfida del presidente azero non sarà quella di aumentare il proprio consenso interno, piuttosto egli dovrà convincere Ue e USA della legittimità politica del “modello Azerbaigian” per attrarre così i capitali di cui abbisogna: per la realizzazione di questo intento, l’oro blu di Aliev è la moneta di scambio ideale per sedurre le potenze economiche energivore dell’Occidente.

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LA CRISI SIRIANA E I NUOVI EQUILIBRI GEOPOLITICI IN AMERICA LATINA

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Il protrarsi degli scontri armati in Siria è l’ultima prova dell’incapacità statunitense nel farsi gendarme del mondo e artefice di un destino unipolare nelle relazioni internazionali. I casi Iraq e Afghanistan avevano di fatto già sancito l’impossibilità da parte degli Usa di stabilizzare quadranti di crisi come avvenuto negli anni ’90 nei Balcani e nel Kuwait. Nuovi attori globali stanno logorando la leadership statunitense in un periodo di grosse disparità di crescita economica tra Occidente (Europa, Nord America) e Oriente (Cina, India, Sud-est asiatico). Seppur impari il confronto sul piano militare, le medie potenze (Brics in testa) adesso hanno lo spazio necessario per poter guadagnare in capacità di influenza. Non fa eccezione il “cortile di casa” di Washington con la forte ascesa del Brasile come naturale unico leader dell’America del Sud.

 

 

La posizione dell’America Latina sulla guerra in Siria

La ricerca infruttuosa di alleati per un’operazione congiunta in Siria, ha di fatto impedito agli Stati Uniti di avvalorare la propria ingerenza negli affari interni del regime di Al-Asad: forzando il diritto internazionale con una richiesta di azione isolata non ha fatto altro che riportare la questione sul tavolo della diplomazia. Al governo USA non erano certo necessari gli armamenti di altri paesi per condurre un’operazione chirurgica contro l’esercito siriano ma erano essenziali per una giustificazione mediatica dell’intervento come è stato per l’Iraq. La mancata approvazione dei Comuni britannici all’operazione  e la probabile sfiducia dello stesso Congresso hanno impedito ad Obama una forzatura contro l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza.

La concreta possibilità che la Siria liberata divenga uno Stato fallito, ripetendo la storia irachena o afgana, ha portato le suscettibili opinioni pubbliche dei paesi “occidentali” a schierarsi contro la guerra. I governi alleati Usa – in un epoca delle relazioni internazionali nella quale la politica estera è fortemente determinata da quella interna –  ne stanno prendendo atto. In Europa le voci sono dunque contrastanti (i vertici di Gran Bretagna e Francia sono favorevoli, di contro si annovera l’atteggiamento attendista di Italia e Germania). Di certo Obama non avrebbe trovato nessun tipo di appoggio nemmeno in America Latina dove c’è stata invece un’univoca voce schierata contro la guerra in Siria.

Nel sottocontinente americano gli Stati, a differenza di quelli europei, non hanno assunto posizioni sfavorevoli all’intervento armato dettate da fattori contingenti, economici e mediatici (costi della difesa aumentati in un momento di crisi uniti alle sorti avverse delle primavere arabe nel Medio Oriente), ma da motivazioni politico-ideologiche più profonde. Motivazioni che sono state alla base della dimostrazione della forte unione che contraddistingue i paesi latinoamericani a livello regionale: basta citare il consesso all’interno del quale l’intero continente ha rafforzato la propria posizione contraria alla guerra siriana ( VII vertice Unasur andato in scena il 30 agosto scorso a Paramaribo in Suriname). Oltre alla contrarietà assoluta ad un intervento unidirezionale in Siria, i paesi latini sono concordi anche sulle modalità di risoluzione del problema: la diplomazia onusiana.

Quello della primazia delle Nazioni Unite è la prima causa ideologica contro una guerra in Siria da parte dei paesi latini. La risoluzione delle crisi deve passare per le vie diplomatiche coinvolgendo quanti più attori possibili affinché i processi di pace abbiano il più largo consenso e successo. Questa posizione sottende motivazioni sia geopolitiche che strategiche. Le prime rispondono a quella che può essere considerata “la via latina” al Sud America essenzialmente antiamericana. Gli Stati del sottocontinente dopo la fine della Guerra Fredda sono alla ricerca di una emancipazione politica dagli Stati Uniti affinché questi ultimi non siano più capaci di esprimere un’egemonia netta sulle sorti degli Stati sovrani come avvenuto tra gli anni ‘60 e ’80. Sia i paesi storicamente più vicini al liberismo anglosassone che quelli più ostracizzanti, puntano a non seguire fedelmente le politiche estere statunitensi e ad affermare una propria indipendenza che viene svelata e corroborata attraverso un principio fondamentale delle proprie relazioni internazionali: la non ingerenza negli affari interni dei Paesi terzi. Del resto il pacifismo è proprio uno dei risvolti del processo di democratizzazione dell’area latinoamericana. L’integrazione regionale difatti è prosperata anche attraverso l’assenza di conflitti e rivendicazioni tra gli Stati aderenti alle varie comunità puntando all’arbitrato come mezzo di risoluzione delle controversie.

Esistono poi ovviamente motivazioni strategiche che interessano principalmente i paesi Alba. L’Alleanza Bolivariana ha stretto, in funzione antistatunitense, rapporti economici e commerciali con i regimi sciiti del Medio Oriente, soprattutto con l’Iran ( difensore del regime di Al-Asad).

Non mancano però neanche nel Sud America quelle dinamiche di politica interna necessarie ad influenzare i governi nella scelta di campo, seppur in modo minore rispetto a quelle di matrice ideologica. Tra Argentina, Brasile e Cile vivono all’incirca 15 milioni di turcos (discendenti di siriani, libanesi e palestinesi), segno palese della preferenza sudamericana quale mete di approdo dell’immigrazione mediorientale. L’aggravarsi del conflitto siriano con l’intervento estero potrebbe portare ad un massiccio esodo dei profughi: già ad oggi sono aumentate considerevolmente le richieste di visto per raggiungere i parenti soprattutto nelle comunità brasiliane a argentine. Soffrirebbe invece di incoerenza di politiche riguardo le minoranze il Cile, se sponsorizzasse un intervento a favore dei ribelli. Nelle ultime settimane si  sono aggravate le tensioni con la minoranza indigena dei Mapuche riguardo l’atavico problema dell’esproprio dei terreni. Porsi dalla parte della popolazione contraria ad Al-Asad significherebbe giustificare e dare valore universale alle rivendicazioni territoriali dei Mapuche. Un esempio, quello cileno, replicabile anche rispetto altre minoranze del Paraguay: non a caso gli scontri per le rivendicazioni territoriali sono costate a Ferdinando Lugo la destituzione attraverso impeachment.

Il caso siriano è la nuova prova comunque di un comportamento chiaro da parte di tutti gli attori latinoamericani: sul piano politico – nonostante su quello economico e commerciale  sono legati a doppio filo con gli Stati Uniti – le distanze aumentano. La politica estera ne rappresenta ormai la prova più evidente per marcare le differenze.

 

 

Il ruolo del Brasile

L’unione di intenti politici dell’America Latina dovrà però trovare un portavoce stabile che ne rappresenti gli interessi e funga da sintesi. L’attore dal respiro globale presente nel Sud non può che essere il Brasile. Paese più grande e popoloso del sottocontinente è da sempre alla ricerca di un seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza e alla ricerca di una leadership  regionale insistendo sulla via diplomatica con la quale imporsi come referente non solo dell’America Latina, ma anche dell’asse Sud-Sud terzomondista alternativo all’idee di politica estera americana.

Il ruolo che il Brasile vuole però consolidare non è così scontato. Una media potenza per divenire grande non può e non deve solo migliorare i propri fondamentali macroeconomici, ma deve essere anche portatrice di una idea di sviluppo assertiva e coinvolgente. Il Brasile non ha un profilo definito sia per ragioni di politica economica che di relazioni multilaterali.

Le grandi manifestazioni di piazza che hanno invaso le più grandi città brasiliane nell’ultimo anno sono il sintomo di una sofferenza economico-sociale solo in parte coperta dalle grandi percentuali di crescita avutesi dal 2000 – quando in dieci anni il Pil è quintuplicato – e arrestatesi di colpo nel 2010. In quell’anno il tasso di crescita del PIL si attestò sul 7,53% per calare bruscamente nel 2011 e nel 2012 rispettivamente al 2,73% e allo 0,87%. Due anni negativi per una economia “emergente” e in forte crescita (risultati che per un’economia matura rappresenterebbero una recessione). La riduzione di investimenti pubblici nel welfare ha colpito le fasce più deboli della popolazione  – giovani e famiglie dal reddito medio-basso – che con difficoltà riescono a seguire l’apprezzamento del real senza i sussidi adeguati. La povertà in Brasile è una piaga sociale estesa dato che esiste una delle massime sperequazioni presenti nell’America Latina – causata anche da una mancata ridistribuzione del reddito agricolo per via dei latifondi tutt’ora esistenti e da una urbanizzazione rilevante nel sud-est del paese. La mancanza di una stabilità interna, data da una crescita diseguale delle classi economiche legate all’ampio tasso di criminalità, impedisce al Brasile di concentrare tutte le sue energie nella propria proiezione esterna, nello sviluppo di un soft power che permetterebbe a Brasilia di esportare in primis la propria ricetta politica per tutto il Sudamerica.

La crescita rallentata sta impedendo anche l’immissione di maggiori risorse economiche nello sviluppo del Mercosur – il mezzo economico-politico di cui il Paese si serve per attrarre a sé i paesi della regione. L’interdipendenza dei prodotti è il primo passo necessario a far crescere tutte le economie ma è in capo al Brasile che devono essere imputati i costi di allineamento. Le differenze nella bilancia commerciale con gli altri partner della regione impediscono a questi ultimi di crescere a ritmi “brasiliani”. Sta quindi ai lusitani gravarsi di costi di partenariato per migliorare il settore industriale dei vicini e renderli più concorrenziali, altrimenti la comunità economica che il Brasile auspica per l’intera regione non sarà attuabile: gli altri paesi vedrebbero una minaccia di inclusione politica per via di una opportunismo economico. La convergenza delle due direttrici economica e politica è necessaria affinché siano gli stessi paesi dell’America Latina ad investire il Brasile del compito di rappresentare un intero sottocontinente nel consesso internazionale.

Il binomio è dunque essenziale al Brasile per divenire vera potenza egemone della regione sudamericana. Da un ventennio questa posizione dipende sempre più dai propri mezzi e non da una imposizione alleata statunitense (come nella seconda metà del XX secolo) e questo appare il momento giusto per approfittare della temporanea decadenza di Washington in politica estera.

 

 

* Salvatore Rizzi è collaboratore CeSEM

 

 

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L’UNIVERSALISMO E LA POLIEDRICITÀ DELLE TRADIZIONI CULTURALI DEL MARE NOSTRUM

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Con la partecipazione del direttore di “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

C L E

Centrum Latinitatis Europae

Lilybaeum

 
 

C o n v e g n o

 

“L’universalismo e la poliedricità delle tradizioni culturali del Mare Nostrum depositario di cultura del dialogo e della crescita comune”

 

Sabato 23 Novembre 2013 ore dalle ore 09.30 alle ore 13.00

Aula Conferenze Biblioteca Comunale di Marsala

 

In collaborazione con

Schermata 2013-10-29 a 8.34.51 PM

 

e con il Museo Archeologico “Baglio Anselmi” di Marsala

 

Senza titolo1


PROGRAMMA:

 

Ore 09.30

 

Saluto del Dirigente Scolastico Liceo Classico “Giovanni XXIII” Prof. Mariano Savalla  (Moderatore)

 

 

Prof. Rainer Weissengruber ( Docente di Latino e Presidente del CLE):

“Dall’antico al nuovo crocevia delle civiltà mediterranee: un impegno per un futuro che riscopre il Mediterraneo

 

Prof. Giovanni Teresi ( Coordinatore Punto CLE “Lilybeo”)

La visione cosmopolita del mondo greco-romano come processo di unificazione dei Paesi del Mediterraneo

 

Prof.ssa Vita D’amico  (Docente di Lettere Classiche)

De comparatione inter historiam et poësin apud Quintilianum” – “Dies natalis Veneris

 

Dott.ssa Maria Grazia Griffo (Archeologa)

La tessera hospitalis di Lilybeo, documento e simbolo di dialogo tra culture ed etnie diverse nel Mediterraneo”

 

 Prof. Claudio Mutti (Direttore delle Edizioni all’insegna del Veltro, Parma)

Motivi orientali nell’arte romanica dell‘Emilia”

 

Ore 11

 

intermezzo musicale con Gabriele Di Pietra (studente del Liceo Classico “Giovanni XXIII”

 

Prof.ssa Angela Pisciotta ( Docente di Lettere Classiche)

La politica monetaria nella Sicilia del III Sec. d. C.

 

Marco Marino (Studente del Liceo Classico Giovanni XXIII)

L’universalismo e la poliedricità culturale sottomessi all’imperialismo di Roma: Il discorso di Calgàco nell’Agricola di Tacito

 

Prof.ssa Angela Guercio (Docente di Lettere Classiche)

I messaggi di universalismo della letteratura latina e greca come forza propulsiva di rinnovamento

 

Prof. Gioacchino Grupposo ( Docente di Lingua e Letteratura Francese):

Investigatio aut perceptio nell’excursus erodoteo sulle religioni?

 

Prof.ssa Sabrina Marino (Docente di Lettere Classiche)

L’influsso della cultura francese nella letteratura siciliana

 

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LE ELEZIONI DEL 3 NOVEMBRE DECIDERANNO IL FUTURO DEL KOSOVO?

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PREAMBOLO

 
Il 19 aprile 2013, a Bruxelles, sotto gli occhi vigili dell’Alto rappresentante per la politica estera e di difesa dell’Unione europea Catherine Ashton, il Primo Ministro serbo Ivica Dačić ed il suo omologo kosovaro Hashim Thaçi hanno firmato il Primo accordo sui principi che governano la normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina.

Il documento in questione, dai più definito storico, si articola in quindici punti:

1. Ci sarà una Associazione / Comunità di municipalità a maggioranza serba in Kosovo. L’adesione sarà aperta a qualsiasi altro comune, a condizione che le Parti siano d’accordo.

2. La Comunità / Associazione sarà creata per legge. Il suo scioglimento può avvenire solo con una decisione dei comuni partecipanti. Garanzie giuridiche saranno fornite dalla legge applicabile e dal diritto costituzionale (tra cui la regola della maggioranza dei 2/3).

3. Le strutture della Associazione / Comunità saranno stabilite sulla stessa base dello statuto vigente dell’Associazione dei Comuni del Kosovo, ad esempio: Presidente, Vice Presidente, Assemblea, Consiglio.

4. In conformità con le competenze fornite dalla Carta europea dell’autonomia locale e dal diritto del Kosovo, i comuni partecipanti hanno il diritto di cooperare nell’esercizio delle loro competenze attraverso la Comunità / Associazione collettivamente. L’Associazione / Comunità avrà completa supervisione delle aree di sviluppo economico, istruzione, sanità, pianificazione urbana e rurale.

5. L’Associazione / Comunità eserciterà altre competenze aggiuntive eventualmente delegate dalle autorità centrali.

6. La Comunità / Associazione avrà un ruolo di rappresentanza presso le autorità centrali e avrà un posto nel consiglio consultivo delle comunità a tale scopo. Nel perseguimento di questo ruolo è prevista una funzione di monitoraggio.

7. Ci sarà una sola forza di polizia in Kosovo, chiamata la polizia del Kosovo. Tutti i corpi di polizia nel nord del Kosovo devono essere integrati nel quadro della polizia del Kosovo. Gli stipendi saranno erogati solo dalla polizia del Kosovo.

8. Ai membri di altre strutture di sicurezza serbe sarà offerto un posto in strutture equivalenti del Kosovo.

9. Ci sarà un comandante di polizia regionale per le quattro municipalità settentrionali a maggioranza serba (nord di Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok e Leposavic). Il comandante di questa regione è un serbo del Kosovo nominato dal Ministero degli Interni da un elenco fornito dai quattro sindaci, a nome della Comunità / Associazione. La composizione della polizia del Kosovo nel nord rifletterà la composizione etnica della popolazione dei quattro comuni. (Ci sarà un altro Comandante Regionale per i comuni di Mitrovica sud, Skenderaj e Vushtri). Il comandante regionale dei quattro comuni del nord collaborerà con gli altri comandanti regionali.

10. Le autorità giudiziarie saranno integrate e opereranno all’interno del quadro giuridico del Kosovo. La Corte d’appello di Pristina stabilirà una giuria composta da una maggioranza di giudici serbo-kosovari, responsabile per tutte le municipalità a maggioranza di serbi del Kosovo. Una divisione di questa Corte d’Appello, composto da personale amministrativo e magistrati, siederà in permanenza a Mitrovica nord (Mitrovica District Court). Ogni giuria della divisione di cui sopra sarà composto da una maggioranza di giudici serbi del Kosovo. Il giudice del caso dipenderà dalla natura del caso in questione.

11. Elezioni comunali saranno organizzate nei comuni del nord nel 2013, con la facilitazione dell’OSCE in conformità alla legge del Kosovo e agli standard internazionali.

12. Un programma di attuazione, incluso un calendario, deve essere presentato entro il 26 aprile. L’attuazione del presente accordo seguirà il principio della trasparenza dei finanziamenti.

13. Le discussioni su energia e telecomunicazioni saranno intensificate tra le due parti e completate entro il 16 giugno.

14. Si è convenuto che nessuna delle due parti bloccherà o incoraggiare altri a bloccare il progresso del lato opposto, nei rispettivi percorsi europei.

15. Un comitato di attuazione sarà stabilito dalle due parti con la facilitazione della UE.

L’accordo, come era ovvio attendersi, ha alimentato malumori e ha prodotto una forte opposizione da parte della comunità dei serbi che vivono nel Nord del Kosovo ma ha aperto la via dell’integrazione con le istituzioni comunitarie ad entrambe le parti.

 

LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL 3 NOVEMBRE 2013

1. Serbi (di Belgrado) contro Serbi (del Nord del Kosovo). Le elezioni a Nord dell’Ibar.

Il punto 11 dispone che elezioni municipali saranno organizzate nei Comuni del Nord nel 2013, con la facilitazione dell’OSCE e in conformità alla legge del Kosovo e agli standard internazionali, consultazioni elettorali che si terranno il prossimo 3 novembre su tutto il territorio della regione serba autoproclamatasi Stato indipendente nel 2008.

Le prime (e sole) elezioni amministrative si erano tenute nel 2009: in quell’occasione i serbi residenti nel Nord della regione le boicottarono e votarono, invece, i loro rappresentanti in una tornata separata, organizzata ad hoc dal Governo di Belgrado (1). Si crearono, così, quelle che vengono definite come istituzioni parallele finanziate e controllate dalla Serbia e non riconosciute legittime da Pristina e dagli Stati Uniti, che ne hanno richiesto più volte lo smantellamento.

L’accordo siglato a Bruxelles mantiene in piedi buona parte di queste strutture presenti nel Kosovo settentrionale ma opera uno shifting, uno spostamento, un trasferimento di autorità formale dalla Serbia a Pristina: la previsione di una Associazione di municipalità a maggioranza serba e l’organizzazione delle elezioni amministrative dovrebbero rappresentare i primi passi verso la costituzione di istituzioni elettive, legittime e riconosciute dall’intera comunità internazionale oltre che dal Governo di Pristina anche nella parte Nord.

Il voto, infatti, servirà a dare forma alle nuove comunità autonome dei serbi del Kosovo, dotate di poteri esecutivi, propri organi di rappresentanza e inquadrate nella cornice legale di Pristina e a sceglierne i rappresentanti. Nonostante tutto, quel che è certo è che i risultati delle elezioni non metteranno la parola fine alla cosiddetta Northern Kosovo Saga.

I serbi del Kosovo, tutti, ritengono generalmente che la Serbia stia cedendo (senza dichiararlo apertamente) la propria sovranità sulla provincia agli albanesi. I serbi del Nord del Kosovo, in particolare, contrariamente alla maggioranza di quelli che risiedono in altre zone del territorio della regione secessionista dove la minoranza serba si è integrata nella vita politica kosovara, continuano ad opporsi all’Accordo del 19 aprile: per loro, il documento rappresenta un drastico cambiamento e viene visto come un tradimento da parte di Belgrado.

Rada Trajkovic, deputata della Lista Unica Serba al Parlamento di Pristina e cittadina di Gracanica, invita i serbi del Nord a rivedere la propria posizione e a maturare una nuova linea di condotta: durante il regime Milosevic, per vent’anni abbiamo vissuto qui senza istituzioni e senza comprendere la situazione degli albanesi, la loro forza ed il loro numero. Noi nelle enclavi abbiamo già passato un processo difficile che aspetta i Serbi del Nord. Siamo passati nella posizione che dobbiamo lottare da soli, ma nel Parlamento del Kosovo adesso si sente la voce di resistenza. Richiedono diritti per il proprio popolo. Non è così. Noi abbiamo lottato per il riconoscimento, ma come spiegarlo ai serbi del Nord (2)?

Risposta difficile per una domanda che rimanda ad una storia che si protrae da tempo. Già lo scorso anno, nei giorni in cui ricorreva la data dell’ autoproclamazione dell’indipendenza, un referendum tenutosi tra la popolazione serba residente a Nord del fiume Ibar aveva espresso l’avversione contro la sovranità di Pristina sul territorio settentrionale e le sue istituzioni. D’altronde, ricorda l’analista politico Miodrag Miljkovic, nel nord del Kosovo la popolazione è a maggioranza serba, gli albanesi non ci hanno mai vissuto, e questo è un motivo per considerare la zona parte della Serbia (3).

Abbandonati a sé stessi, dimenticati al tavolo delle trattative di Bruxelles e non potendo più contare sull’appoggio incondizionato della Serbia che punta ad un deciso avvicinamento all’UE, lo scorso 4 luglio i rappresentanti della componente oltranzista delle municipalità a maggioranza serba ha deciso, in propria autonomia, di costituire un’Assemblea Provvisoria della Provincia  del Kosovo e Metohija con la seguente dichiarazione:

Noi, cittadini liberi e responsabili della Repubblica di Serbia,

Rappresentanti liberamente e legittimamente eletti dalla popolazione del Kosovo e Metohija, nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica di Serbia – in qualità di membri delle assemblee municipali nella provincia autonoma del Kosovo e Metohija, che è parte della Repubblica unica e indivisibile di Serbia,

Riconoscendo il bisogno urgente e necessario, in maniera organizzata, di proteggere le nostre vite e famiglie, le nostre case e proprietà, gli altri diritti umani e le libertà fondamentali, la dignità di cittadini, l’identità e l’integrità, la cultura e la religione, il patrimonio culturale e storico, ecc ,

Rispettando la Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia e respingendo tutti gli atti illegali secessionisti,

Facendo riferimento alla Carta delle Nazioni Unite, dell’Atto finale di Helsinki e alla risoluzione ONU 1244 (1999),

Rifiutando la separazione proclamata dal movimento secessionista albanese, della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija dalla nostra Repubblica di Serbia, contro la nostra volontà democraticamente espressa, così come contro la Costituzione, in modo illegale e priva di significato

Seguendo la volontà inequivocabile della popolazione dei comuni di Kosovska Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok e Leposavic, liberamente espressa con il referendum che si è tenuto il 15 febbraio 2012, di non-accettazione delle istituzioni della cosiddetta Repubblica del Kosovo,

Ricordando che la Costituzione della Repubblica di Serbia indica esplicitamente che la Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija è parte integrante del territorio della Repubblica di Serbia, che ha una posizione di sostanziale autonomia all’interno dello Stato sovrano della Serbia e da questa posizione il Kosovo e Metohija, segue la responsabilità costituzionale di tutti gli organi dello Stato per rappresentare e tutelare gli interessi statali della Serbia in Kosovo e Metohija, nelle sue relazioni politiche interne ed estere, come pure che la sovranità viene dalla popolazione e nessuno organo statale, di gruppo o individuale può stabilire la sovranità della popolazione, o stabilirne il governo, trasgredendo la volontà liberamente espressa della popolazione,

Riguardo questo,

rifacendosi alla Dichiarazione dell’Assemblea Nazionale del popolo serbo, tenutasi il 22 Aprile 2013, a Kosovska Mitrovica, che ha  respinto il ‘”Primo accordo principale che regola la normalizzazione delle  relazioni”, che a Bruxelles il 19 aprile 2013, firmato dal Primo Ministro della Repubblica di Serbia, Ivica Dacic e dal “presidente del governo del Kosovo”, Hashim Thaqi, in contrasto con la volontà del popolo serbo e della popolazione della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, ed al rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica di Serbia, in quanto è contro la Costituzione e contro le leggi della Repubblica di Serbia. I cittadini che sono fedeli alla Repubblica di Serbia, i Comuni con maggioranza serba e tutte le altre istituzioni della Repubblica di Serbia in Kosovo e Metohija vengono abbandonate e spinte nel “sistema costituzionale e legale” non riconosciuto e illegalmente proclamato dalla cosiddetta Repubblica del Kosovo, degli  albanesi dal Kosovo e Metohija,

Resistendo a enormi pressioni e ad ogni tipo di ingiustizia, alla violenza legale e al dispotismo politico di persone potenti, ai i serbi e alla popolazione della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, che rispettano la Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia e dell’auto-governo locale in cui vivono, vengono imposti un altro governo sovrano, un “quadro e  istituzioni giuridiche” della cosiddetta autoproclamata ed illegale Repubblica del Kosovo,

Con la nostra libera volontà e con la decisione del popolo che rappresentiamo, ci siamo riuniti in Zvecan il 04. Luglio 2013, e secondo l’articolo 2 e 12 della Costituzione della Repubblica di Serbia e degli articoli 88 e 89, delle leggi sulle autonomie locali, abbiamo istituito l’Assemblea provvisoria della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, e deciso di adottare:

La dichiarazione di costituzione della Assemblea provvisoria della provincia autonoma del Kosovo e Metohija

Stabilendo i seguenti Decreti generali

Che l’Assemblea provvisoria della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija (nel testo a seguire : Assemblea provvisoria) è l’organo rappresentativo della popolazione della Repubblica di Serbia nella Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, che rispetta Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia, e che il diritto di autonomia territoriale è affermato dentro la Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia.

(…)

Slavko Stefanovic, sindaco di Leposavic nonché eletto alla Presidenza dell’Assemblea ha dichiarato che “la nostra capitale è Belgrado, la nostra Repubblica è la Serbia, non vogliamo un altro Stato, un’altra cittadinanza o un diverso ordine legale”(4), dando, così, forma alle rivendicazioni di tutti coloro che hanno manifestato contro l’indipendenza della provincia, prima, e, adesso, manifestano contro l’accordo di Bruxelles: sever kosova и метохије остаје србији, il Nord del Kosovo e Metochia restano Serbia.

Con una decisione dal chiaro carattere sanzionatorio, Dacic ha annunciato lo scioglimento dei consigli municipali dei quattro maggiori centri a maggioranza serba, ostili all’accordo e firmatari della dichiarazione fondativa dell’Assemblea Provvisoria e ha provveduto alla nomina di consigli provvisori fedeli alla linea delle istituzioni di Belgrado. Il premier ha minacciato, inoltre, di emarginare chi agirà contro le indicazioni del Governo serbo mentre Nikolic, Presidente della Repubblica, ha ammonito i connazionali del Nord del Kosovo sul fatto che le elezioni si terranno comunque, sia con la loro partecipazione sia senza.

Pantic, vicedirettore dell’Ufficio per il Kosovo nonché sindaco di Kosovska Mitrovica, ha indicato tre vie alternative per i serbi del Nord del Kosovo: il riconoscimento dell’autorità di Pristina, il ricongiungimento con Belgrado oppure, terza opzione, incerta e rischiosa ma anche l’unica praticabile, la creazione dell’Unione delle Municipalità del Nord e la loro autonomia d’amministrazione. In quest’ottica, i serbi dovrebbero dimostrare di avere lungimiranza politica e capire che l’accordo firmato a Bruxelles può essere modellato affinché non vengano meno i legami con la madrepatria Serbia e l’integrità territoriale non venga messa in discussione. D’altro canto, l’accordo sulla cosiddetta normalizzazione (così come le elezioni) è neutrale per quanto riguarda lo status del Kosovo (5). Su questa base, i rappresentanti serbi del resto della regione invitano gli elettori a partecipare alle urne.

Nel Nord del Kosovo, invece, si sta portando avanti una forte campagna per il boicottaggio della consultazione. Di tutt’altro avviso, invece, le istituzioni di Belgrado che spingono, invece, per una massiccia partecipazione alle urne, passaggio obbligato per la costituzione di istituzioni legittime nel Nord in ossequio alle disposizioni contenute nel documento del 19 aprile. Nella visione serba, la leadership del Nord del Kosovo non può opporsi ad entrambe le parti e il boicottaggio non è la soluzione al problema: un’associazione delle municipalità non legittimata rappresenterebbe una compromissione dell’accordo con conseguenze sul cammino europeo sia di Belgrado che di Pristina.

Non essendoci una soglia minima di validità del voto, da non trascurare è il fatto che nel caso in cui i Serbi non esprimessero la loro preferenza e non andassero alle urne, potrebbero correre il rischio di vedere la vittoria degli albanesi anche dove questi sono in (forte) minoranza. A quel punto, succedesse questo, quali sarebbero il futuro dei serbi del Nord e le prospettive della loro ampia autonomia?

I serbi del Nord del Kosovo si trovano, così, intrappolati nello scegliere tra votare – non votare, dilemma di non facile soluzione poiché, qualsiasi sia la loro scelta, potrebbe essere Belgrado ad avere l’ultima e decisiva parola in merito alle sorti del territorio conteso.

In Serbia, il Governo sta seguendo le linee guida della strategia narrativa con cui lo Stato serbo intende presentare la natura dell’accordo all’UE: Serbia is giving up effective control over the North Kosovo, but will not (…) recognise Kosovo (6).

Nel caso in cui decidessero di votare, i serbi del Nord potrebbero essere scaricati da Belgrado in quanto la partecipazione al voto sarebbe riconosciuta come palese accettazione dell’autorità di Pristina sul territorio conteso; nell’altro caso, invece, potrebbero pagare le conseguenze del boicottaggio ed essere scaricati perché ribellatisi alle indicazioni della Serbia.

Stante così la situazione, cosa potrà succedere il 3 novembre? Lo studio Municipal Elections in Northern Kosovo: Towards a new balance? ha elaborato quattro scenari possibili: uno ottimistico, uno pessimistico, uno disastroso e uno realistico (7). Concentriamoci su quest’ultimo, avvalorato anche dalle parole di molti politici e analisti. Il realistic scenario prevede un’affluenza serba alle urne tra il 15% ed il 30%, un processo elettorale contestato da pochi e limitati atti di violenza, una vittoria della Lista Unica ed un conseguente dominio di questa sull’Associazione delle Municipalità serbe che sarà formata solo in un sistema legale in cui le autorità municipali saranno legittimate. Le nuove strutture municipali manterranno il distacco da Pristina e questo porterà ad un sempre più crescente nervosismo da parte degli albanesi del Kosovo per uno stato disfunzionale e ad un processo negoziale tra Belgrado e Pristina che procederà a ritmi lenti.

Per questo motivo, Dacic, prima, e Nikolic, poi, hanno indicato nella partecipazione alle elezioni l’unico mezzo per proteggere gli interessi serbi in Kosovo e hanno invitato gli elettori a convogliare le loro preferenze sulla lista Iniziativa Civica Serba (“Serba”) i cui candidati sono presentati come coloro che tuteleranno la Serbia ed i serbi in Kosovo. Nella versione di Belgrado, la natura del voto è bipolare e antitetica: o si è pro o si è contro la “Serba”, o si è patrioti o si è serbi di Thaci.

La questione della lista unica non è secondaria: se nelle municipalità non a maggioranza serba, questa scelta attiene alla volontà di ridurre la dispersione dei voti e fare sì che i serbi parlino con una sola voce, nelle quattro municipalità del nord della regione, invece, risponde alla volontà di Belgrado di assicurarsi il controllo della futura Associazione delle Municipalità e di lasciare pochissimo spazio alle opposizioni interne. Anche a Pristina si ha il timore che così l’Associazione agisca da cavallo di Troia per la creazione di un Kosovo disfunzionale e Daytonised sulla falsa riga di quanto avviene in Bosnia – Erzegovina.

Nelle parole di Oliver Ivanovic, candidato a sindaco di Mitrovica con una propria lista: l’accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina che è stato raggiunto a Bruxelles prevede che lo Stato serbo diminuirà la sua presenza in Kosovo e che svolgerà le sue attività tramite comunicazione con la Comunità dei comuni serbi. Affinché la Comunità diventi forte devono essere adempiute due condizioni. I candidati serbi devono essere persone di riguardo e alle elezioni devono essere ottenuti buoni risultati. La Comunità dei Comuni serbi deve essere guidata da rappresentanti politici capaci e coraggiosi. Sui Balcani la credibilità delle istituzioni dipende dalla credibilità delle persone che le guidano. Se i politici faranno lo stesso sbaglio che facevano nel periodo passato e se decideranno che i membri dei loro partiti guidino la Comunità, allora essa diventerà una istituzione con poca credibilità, la quale non sarà in grado di attirare i serbi kosovari.

 

2. Le elezioni e la politica kosovara

Ma, come detto in apertura dell’articolo, le elezioni si terranno per la prima volta sulla totalità del territorio della regione e vi prenderanno parte più di 100 entità e soggetti politici (8).

Il Nord del Kosovo è da sempre usato dai politici di Pristina per distrarre l’attenzione dei cittadini dai reali problemi della popolazione quali corruzione, povertà, fragilità economica e mala gestione degli affari pubblici. L’avvio della normalizzazione con Belgrado disegna nuovi scenari e permette agli elettori kosovari di riflettere sulle loro reali condizioni di vita e sulla bontà dell’amministrazione politica. Se prima la questione dell’integrità territoriale era al centro del dibattito e mascherava la portata reale dei problemi, le elezioni amministrative del prossimo 3 novembre rappresentano un banco di prova per le forze politiche del Kosovo che si “conteranno” e definiranno i rapporti di forza in vista delle elezioni parlamentari che si vogliono anticipate già alla prossima primavera.

L’analista politico Shkelzen Gashi aveva rilasciato a chi scrive queste dichiarazioni: “Per quanto riguarda, invece, l’impatto dell’accordo sullo scenario politico del Kosovo, sono sicuro che il Partito Democratico del Kosovo (Partia Demokratike e Kosoves – PDK) del Primo Ministro, Hashim Thaci, subirà una flessione alle prossime elezioni, mentre il primo partito di opposizione, per numeri, la Lega Democratica del Kosovo (Lidhja Demokratike e Kosoves) subirà un drastico ridimensionamento, e allo stesso tempo, il movimento Vetëvendosje! crescerà (9)”.

Partiamo, allora, dal Partito Democratico del Kosovo (PDK) del premier Thaci, dal quale si sono allontanate due figure di spicco come Jakup Krasniqi e Fatmir Limaj capaci di mobilitare l’elettorato; mobilitazione resa più problematica dalla ricandidatura di alcuni sindaci finiti sotto giudizio con accuse di corruzione.

Il PDK tenterà di strappare la capitale Pristina alla Lega Democratica del Kosovo (LDK) candidando una personalità forte come Aigm Ceku, Ministro della Forza di Sicurezza. Se il PDK, invece, non riuscirà a tenere le sue posizioni nelle amministrazioni, potrebbe essere l’inizio del crollo sia del partito che del Governo.

Anche l’LDK, il principale partito di opposizione che noi definiremo di centrodestra, attende i risultati elettorali per capire quale sia la sua forza nello scenario politico kosovaro e quanto la guida di Isa Mustafa, sindaco di Pristina, abbia giovato nei numeri al movimento.

Un significato particolare assume l’elezione per l’Alleanza per il futuro del Kosovo (AAK) dal momento che per la prima volta il soggetto politico potrà avvalersi della presenza del Presidente ed ex Primo Ministro Ramush Haradinaj, assolto dal Tribunale de L’Aja e tornato in Kosovo con l’obiettivo (di) prendere responsabilità di Governo. Per questo motivo alle elezioni amministrative Haradinaj ha candidato uomini a lui vicini, capaci di aggregare voti in vista anche di appuntamenti più importanti per le sorti politiche kosovare.

I risultati scaturiti dalle urne saranno determinanti anche per il futuro prossimo del movimento Vetëvendosje! di Albin Kurti dal momento che il voto viene considerato alla stregua di un referendum sulla politica alternativa proposta dal soggetto politico, sul proseguimento della propria azione oppure sul proprio ridimensionamento.

Le amministrative del 3 novembre non saranno l’ultimo capitolo della Northern Kosovo Saga ma, senza dubbio, arricchiranno la Storia di un futuro ancora tutto da scrivere.

 
 
 

1. Le elezioni parlamentari e presidenziali serbe del maggio 2012 si tennero anche nel Nord del Kosovo.

2. http://pasudest.blogspot.it/2013/05/Kosovo-i-serbi-del-nord-accetteranno.html

3. http://espr3ssioni.wordpress.com/2011/11/08/miodrag-miljkovic-spiega-Kosovo-del-nord-e-serbia-meridionale/

4. http://www.ansa.it/ansamed/it/notizie/stati/serbia/2013/07/04/Kosovo-serbi-nord-creano-Parlamento-temporaneo-_8976722.html

5. Anche le elezioni saranno neutrali: un accordo tra le parti ha sancito che sulla scheda elettorale, infatti, non saranno presenti i simboli dello Stato kosovaro ma solo quello della Commissione Elettorale Centrale del Kosovo.

6. F. Eidus, L. Malazogu, M. Nic, Municipal Elections in Northern Kosovo: towards a new balance?

Tre sono le strategie narrative di Belgrado per quel che concerne l’accordo di Bruxelles: oltre a quella citata nel testo, una si riferisce all’accordo stesso che viene presentato come una vittoria su Pristina, il massimo che si potesse raggiungere, visto che i serbi avranno le loro istituzioni e Belgrado non dovrà riconoscere il Kosovo indipendente; l’altra, invece, si riferisce ai Serbi del Nord Kosovo per cui l’accordo viene illustrato come il mezzo per disintegrare dal di dentro le istituzioni di Pristina.

7. Questi i quattro scenari:

Ottimistico: nessuna contestazione, affluenza serba sopra il 30%, coalizione tra liste anche nel sud del Kosovo, costituzione dell’Associazione delle Municipalità e regolare processo di negoziazione tra Pristina e Belgrado.

Pessimistico: affluenza 5%-15%, incidenti, Pristina rifiuta il voto per posta, gli albanesi del Kosovo guadagnano rilevanti posizioni anche nel nord, processo di normalizzazione messo a repentaglio.

Disastroso: affluenza sotto il 5%, violenti scontri costringono osservatori OSCE ad abbandonare i seggi del nord, Pristina provvede ad instaurare le proprie istituzioni, ci sono nuove barricate e la KFOR è costretta ad intervenire con la forza, situazione di stallo per le negoziazioni.

8. La Commissione Elettorale Centrale ha ammesso alla consultazione 103 entità politiche: 70 albanesi, 31 serbe, 3 turche, 9 bosgnacche, 3 montenegrine, 1 gorana, 2 ashkali, 2 rom, 1 egiziana e 1 croata. In totale concorreranno in 224 candidati per la carica di sindaco e 7740 a quella di consigliere.

9. Brano dell’intervista pubblicata nel volume Ex Jugoslavia. Gioco sporco nei Balcani, http://www.anteoedizioni.eu/anteoedizioni/store/products/ex-jugoslavia/

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L’OPERAZIONE MARE NOSTRUM

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In seguito al naufragio di Lampedusa, il governo italiano ha deciso di rafforzare il dispositivo nazionale per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l’operazione Mare Nostrum, una missione militare ed umanitaria la cui finalità ufficiale è di prestare soccorso ai clandestini prima che possano ripetersi altri tragici incidenti. L’obiettivo sarà quello di intervenire in loro aiuto, avvicinandosi il più vicino possibile ai porti dei Paesi nordafricani dai quali salpano i barconi fatiscenti che li traghettano in Europa. La speranza è che tale operazione funga come deterrente nei confronti di coloro che organizzano questo illecito traffico di esseri umani, intercettandoli ancor prima che possano abbandonare al loro destino i passeggeri e cogliendoli, dunque, in piena flagranza di reato, punibile, in base a quanto prescrive la giurisprudenza, con la detenzione da 5 a 15 anni. Tale deterrenza diventerebbe illusoria nel caso in cui l’operazione Mare Nostrum venisse interpretata dai trafficanti come un aiuto per raggiungere le coste italiane, sperando poi nella riduzione dell’eventuale pena comminata. Il destino dei migranti non è vincolato da chi presta loro aiuto e basandosi su quanto recita il Diritto di Navigazione Internazionale, la valutazione di dove scortarli sarà presa in base alla zona in cui è avvenuto il contatto. Dunque non sarà vincolante per la nazione soccorritrice concedere asilo ai migranti a cui è stato concesso aiuto.

Il dispiegamento di forze, comprende, tra gli elicotteri, l’HH-139 SAR del 15° Stormo, rischierato a Trapani, per la ricerca e soccorso; aerei da ricognizione Piaggio P-180 ed un aeromobile Breguet Atlantic del 41° Stormo di Sigonella, che ha già effettuato, secondo una tattica di impiego programmata, dei controlli sullo specchio di mare assegnatogli, allo scopo di contrastare la minaccia subacquea e navale a lungo raggio a protezione delle vie marittime e per l’allarme precoce sulla localizzazione dei profughi in mare, garantendo in tal modo il pronto intervento dei soccorritori a prevenzione di naufragi. L’attività dei velivoli è supervisionata dal centro di controllo di Poggio Renatico. Completano lo schieramento aereo i droni, o meglio aeromobili a pilotaggio remoto, Predator B, i quali disponendo di una autonomia di 27 ore, possono acquisire immagini dai porti da cui salpano i barconi, consentendo alle unità di superfice di intercettarli appena fuori dalle acque territoriali dai quali sono partiti. I Predator sono un sistema d’arma in grado di assolvere un insieme di missioni e compiti grazie ad elevate doti di flessibilità, versatilità ed efficacia, con due elementi fondamentali: il centro di controllo a terra, che agevolato da un collegamento satellitare può pilotare il velivolo a centinaia di chilometri di distanza e la stazione di valutazione dati dove sono analizzati in tempo reale.

La formazione navale è composta da cinque unità d’altura; una nave anfibia, la San Marco, all’uopo trasformata in nave ospedale, due pattugliatori delle classi Costellazione e Comandati e due fregate classe Maestrale. Queste ultime rappresentano la distonia della missione, in quanto sono unità da combattimento con capacità flessibili anti nave ed anti area, dotate di elicotteri per la proiezione di forza e cannoni a tiro super rapido. Di fatto inadeguate a rendere soccorso, anche a causa degli spazi interni angusti, se non a piccole imbarcazioni. E’ possibile che possano fungere da scorta alle altre navi, ma probabilmente opereranno in ambiti tattici più complessi congiuntamente con le altre marine dell’Africa Mediterranea, in particolare quella libica, in azioni militari contro trafficanti non solo di uomini, ma anche di armi.

La missione Mare Nostrum sarà inquadrata nell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea, semplicemente nota come Frontex. L’Agenzia, la cui direzione è a Varsavia, iniziò la sua attività nel 2005 e nel 2008 le furono incrementati i finanziamenti a 70 milioni di euro, ulteriormente ritoccati nel 2013. Venne formata con l’intento di coordinare il pattugliamento delle frontiere aeree, marittime e terrestri degli Stati della UE e per agevolare, in accordo con i Paesi coinvolti nel fenomeno dell’espatrio, la riammissione degli esuli respinti. Dunque l’Agenzia non ha solo compiti militari, ma in materia di gestione e controllo delle frontiere, anche politici, quest’ultimi tesi a definire modelli di valutazione per assistenza ed aiuti in operazioni di rimpatrio. Attualmente, non ci sono unità di Frontex nel Canale di Sicilia, pertanto il Governo Italiano, nel vertice dell’UE di ottobre, ha proposto il rafforzamento dell’Agenzia per coadiuvare il dispositivo umanitario di Mare Nostrum. Il primo risultato ottenuto è stato l’approvazione di EUROSUR, il sistema di sorveglianza pan-europeo delle frontiere terrestri e marittime. Sarà uno strumento attraverso il quale gli Stati Membri potranno scambiarsi in tempo reale informazioni e raccolte dati, in modo da poter meglio analizzare le strategie di intervento. In base alle dichiarazioni del Commissario Europeo per gli Affari Interni, tutte le operazioni europee, Frontex compreso, si svolgeranno in ambito EUROSUR ed ogni Stato coinvolto dovrà rendere operativo un centro nazionale di controllo per questo nuovo sistema di sorveglianza che dovrebbe diventare pienamente operativo a dicembre. Ad EUROSUR sarà affiancato un servizio di segnalazioni agevolato dai satelliti e droni. Tale apparato di sicurezza costerà 35 milioni di euro all’anno, ma parte di questi saranno assorbiti da quelli erogati per Frontex. La prima nazione che ha messo a disposizione i propri mezzi è stata la Finlandia, il cui Primo Ministro ha assicurato l’invio di unità di superficie a rinforzo di quelle italiane, le altre importanti adesioni sono del 25 ottobre, durante il vertice del Consiglio europeo di Bruxelles, dove l’Olanda e la Francia hanno disposto il rafforzamento di Frontex con alcuni aeromobili e lo stesso Presidente Van Rompuy ha definito la necessità di una azione determinata e condivisa per la prevenzione, protezione e solidarietà.

Geopoliticamente questo rappresenta un ottimo successo sulle dinamiche di cooperazione fra gli Stati Membri, ma l’utilizzo degli strumenti, quanto la strategia da adottare, sono ancora a divenire. I tempi atti alla risoluzione non potranno essere brevi, perché le priorità di intervento saranno oggetto di discussione a dicembre, ma i temi politici sui quali si impernierà Frontex probabilmente verranno definiti solo a giugno del 2014. Per l’intanto i costi di Mare Nostrum incidono esclusivamente sull’economia italiana e saranno ben più gravosi degli esborsi stanziati per i normali pattugliamenti che precedevano la nuova missione umanitaria. Le prime erogazioni ammontavano a circa 1,5 milioni al mese, secondo dichiarazioni ufficiali del Ministero della Difesa, e pertanto saranno destinati a lievitare in modo consistente. La stampa specializzata ha tentato una stima dell’importo desumendolo dai costi giornalieri dei mezzi impiegati: la fregata Maestrale sembra si avvicini ai 60.000 euro, la San Marco ne vale 45.000, mentre quello dei pattugliatori pare essere di poco inferiore ai 15.000. A questo si assommano i valori degli aeromobili: gli elicotteri AB-212 ed i droni si aggirano sui 4.000 euro ad ora di volo, mentre tra gli EH-101 ed il Breguet Atlantic si parte da 7.000 fino ai 13.000. Aggiungendo le indennità del personale e la manutenzione necessaria per l’uso straordinario dei mezzi, la spesa finale dovrebbe attestarsi tra i 10 ed i 14 milioni di euro al mese. La valutazione non ha ricevuto conferme dal Governo, il quale ha sottolineato che non sono stati stanziati ulteriori fondi a quelli già in bilancio per le operazioni precedenti a Mare Nostrum. Sembra naturale che questo non sia possibile, è la riprova potrebbe materializzarsi nel consumo di carburante aggiuntivo per rifornire tutte le unità coinvolte nella missione.

La decisione del governo italiano nell’autorizzare degli esborsi non previsti dal bilancio iniziale per regolare l’immigrazione, forse produrrà un’altra finalità tutt’altro che secondaria e per meglio valutarla è necessaria una disanima sul valore delle attività di interscambio dei beni di consumo e fonti energetiche con le Nazioni mediterranee e quanto queste pesano nelle dinamiche economiche ed occupazionali italiane: l’analisi dei flussi degli scambi commerciali, sono il metro per misurare la solidità delle economie regionali e sui fattori che condizionano la competitività e determinano il ruolo di un Paese nello scacchiere globale; questo è vero in particolare in un’area afflitta da netti squilibri politici, sociali e militari come il Mediterraneo. I Paesi che si affacciano sul suo bacino configurano una interessante area di sviluppo nei rapporti commerciali dell’Europa; l’interscambio totale di merci con l’UE, palesa fra il 2001 e il 2010, una dinamica di crescita per tutti le principali Nazioni europee, in particolare Italia, Francia, Spagna e Germania, con la sola comune flessione nel 2009 causata dalla crisi economica. L’Italia, nel corso del decennio, ha valorizzato l’interscambio con i Paesi dell’Area Mediterranea, incrementandolo da 32,6 miliardi di euro nel 2001 a 63,3 miliardi nel 2010. Le stime sono state però ritoccate al ribasso con la contrazione originabile al crollo delle importazioni di petrolio italiane dalla Libia, e dai moti insurrezionali che hanno interessato quasi tutta l’area geografica dei Paesi Mediterranei. In controtendenza solo quelli con l’Egitto, con un valore pari al 7,4%. Quest’ultimo e la Turchia si attestano come le economie più vivaci della costa mediterranea meridionale ed orientale; in particolare la Turchia denota una apertura commerciale competitiva, dove il settore tessile continua a detenere il primato nel comparto delle esportazioni. La Tunisia è ancora debole sullo scenario mediterraneo, relegata praticamente, al solo ruolo di assemblaggio ed esportazione di prodotti tradizionali. L’Algeria e la Libia dipendono quasi totalmente dagli idrocarburi, le quote di mercato oscillano tra il 95 ed il 98 per cento delle esportazioni, a fronte di un settore di scambio privato irrisorio. Siria e Libano, coartate nelle questioni interne politico sociali, sono le economie più deboli dell’area, sebbene il Libano stia tentando di recuperare la credibilità internazionale concentrando le proprie risorse nel settore della finanza.

L’Italia è il primo attore commerciale nel bacino del Mediterraneo, come evinto dal rapporto della SrM, Studi e ricerche per il Mezzogiorno, ed ha superato Germania e Francia sulla base di un volume di affari di 57,7 miliardi. Le proiezioni fino a tutto il 2013, in uno scenario intermedio, segnano una crescita dell’interscambio totale italiano fino a 72,1 miliardi. In questo ambito riveste una componente fondamentale il traffico marittimo. Infatti, oltre il 70 per cento dei flussi commerciali tra l’ Italia ed i Paesi mediterranei, quotati in circa 40 miliardi di euro, si sviluppano via mare. Altra materia di scambio sono le energie rinnovabili, dove si attesta una domanda significativa, la quale in un arco temporale fino al 2020, potrebbe produrre ad investimenti pari a 320 miliardi. La crescita ha decretato, specie nel 2013, il differenziale italiano nei confronti delle altre Nazioni europee. I primi effetti di Mare Nostrum risultano abbastanza pregevoli: nei giorni iniziali sono stati tratti in salvo oltre 2.000 migranti, ma il dato meno apprezzabile è quello dell’intervento nelle azioni di soccorso di navi mercantili, dunque esistono delle zone d’ombra nell’area di pattugliamento, probabilmente perché il numero delle unità non è sufficiente e lo rimarrà sino a quando non arriveranno gli attesi rinforzi delle Marine europee. Altro oggetto in discussione è la durata di Mare Nostrum, ovviamente il suo protrarsi farà lievitare i costi ma la sua interruzione potrebbe ingenerare tragedie simili a quella verificatasi il 3 ottobre a Lampedusa. Di fatto la data fissata dal Presidente Letta del 2 dicembre, giorno in cui Mare Nostrum dovrebbe concludersi, pare essere intesa come l’inizio della stagione climatica avversa, dove le condizioni meteo marine non consentirebbero di intraprendere la traversata del Mediterraneo agli usuali mezzi fatiscenti in uso fra gli scafisti, salvo poi riprendere l’attività criminosa in primavera. Sarebbe auspicabile una alternanza fra gli Stati membri, ma soprattutto è necessario un intervento politico mirato ad interrompere i flussi migratori ed a regolare lo statuto in materia di asilo politico, tentando di approvare un testo unico a livello della UE.

Tale soluzione è perseguita dal Servizio europeo per l’azione esterna, impegnato concretamente nel proporre accordi ai Paesi terzi: sembra infatti evidente che il fine ultimo sia quello di scortare in Libia le imbarcazioni intercettate e quindi, è valida l’ipotesi che le delegazioni italiane inviate a colloquio con il Presidente libico, tentino di raggiungere proprio questa finalità, suffragata inoltre dalla dichiarazione del Ministro della Difesa Mario Mauro, il quale ha precisato che le imbarcazioni saranno scortate verso il porto più vicino, dunque non necessariamente in direzione di quelli italiani. Le aree geografiche di crisi si sono estese e forse non basterà siglare accordi con la sola Libia, infatti l’ideale mappa dei rifugiati si è allargata alla Siria, sino a passare per la Turchia ed il Libano, dove i Palestinesi hanno iniziato a lasciare i campi profughi.

Il dispositivo militare italiano ha mostrato una pregevole capacità di operare in ambito interforze con il salvataggio di 246 profughi il 29 ottobre: un Predator B, con l’ausilio dei sensori di bordo, ha agganciato un natante al largo della Libia. I dati sono stati trasmessi alla sala operativa del centro di controllo aereo di Poggio Renatico che ha di seguito assunto la funzione di collegamento con la Marina Militare. È stata inviata la motovedetta Peluso della Guardia Costiera, che ha poi affidato i clandestini al pattugliatore d’altura Cigala Fulgosi, il quale è poi intervenuto, su segnalazione della fregata Maestrale, al recupero di altri clandestini prima di rientrare verso il porto di Pozzallo, nelle vicinanze di Ragusa. Per il momento il vertice di Bruxelles ha prodotto solo il concetto di solidarietà, alleggerendo il ruolo di Italia e Malta, ma più in generale di tutti Paesi mediterranei, coinvolgendo nella questione dell’immigrazione l’intera l’alleanza europea.

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ALL’ORIGINE DEI MALI D’ITALIA: L’ASSASSINIO DI ENRICO MATTEI

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A pochi giorni dal quarantunesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, la sua figura merita di essere ricordata e spiegata alle giovani generazioni, sovente ignare dell’importanza che quest’uomo ebbe nei primi anni della nostra Repubblica. Simbolo imperituro di quelle straordinarie capacità di intraprendenza, coraggio ed inventiva che così tante volte la nostra terra ha saputo offrire al mondo nel corso dei secoli.

Mattei nasce ad Acqualagna nel 1906, in una famiglia piccolo borghese; inizia a lavorare a quindici anni in fabbrica e a 22 è già direttore di uno stabilimento. L’uomo è forte e determinato, non si accontenta della rapida carriera e decide di trasferirsi a Milano dove respira l’aria delle grandi opportunità che la metropoli lombarda offre in quegli anni, diventando prima rappresentante di prodotti chimici per conto di una ditta tedesca e fondando poi l’Industria Chimica Lombarda, attiva nella produzione di olii e grassi per l’industria conciaria, metallurgica ed edile. Lo scoppio della guerra sconvolge i suoi piani e la sua carriera; se sino all’armistizio Mattei ha perlopiù pensato a perseguire i suoi obiettivi professionali tralasciando la politica, dopo l’8 settembre egli è costretto ad operare una scelta e decide di schierarsi con gli antifascisti iniziando una militanza nelle fila dei movimenti d’ispirazione cattolica. Le sue numerose qualità emergono negli anni della resistenza e lo portano ad essere nominato, al termine del conflitto, deputato, membro del Consiglio nazionale della DC e commissario straordinario dell’AGIP (AGenzia Italiana Petroli, fondata nel 1926 da Mussolini) per l’Italia settentrionale. Vi è tuttavia poco di lusinghiero in questa nomina: poco tempo dopo, viene invitato a liquidare l’azienda di Stato per ordine del ministro del Tesoro Soleri, liberale, secondo il quale essa rappresenta solo un costo, soprattutto riguardo l’intenzione di sfruttare i giacimenti di petrolio e gas scoperti (prima e durante la Guerra) in Val Padana e in Sicilia, di cui Mattei è a conoscenza. Nonostante la sua personale lotta contro il Fascismo, Mattei ha il grande acume ed il coraggio di andare controcorrente e di riconoscere come non tutto ciò che fosse stato fatto durante il Ventennio fosse da scartare e condannare a priori. In questo caso, capisce che liquidare l’AGIP lasciando così il Paese senza un ente statale preposto all’energia, è sbagliato: Mattei è conscio che una nazione, per essere una potenza industriale e avere una vera indipendenza politica, deve prima di tutto assicurarsi di essere indipendente il più possibile sotto il profilo energetico. Così, non solo non liquida l’AGIP, bensì nel 1953 la rende più forte fondando l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) a cui viene accorpata. Il problema che gli si pone davanti è che però l’Italia, al momento, è tutto tranne che indipendente e libera di decidere il suo destino autonomamente: ha de facto perso la guerra e nonostante il maldestro cambio di schieramento del ‘43, non ha titolo per sedersi al tavolo dei vincitori con voce in capitolo, tutt’altro. Subisce le decisioni degli Alleati che in quel momento ancora occupano il Paese e sovrintendono al governo transitorio cercando di indirizzare tutti gli aspetti legati all’aspetto produttivo e sociale a proprio favore. Fra questi, a ricoprire l’importanza principale su cui bisogna subito chiarire a chi spetti sovrintendere – in virtù del volume d’affari ad esso legato – è il settore energetico: in principio silenziosamente e bisbigliando nelle orecchie giuste e compiacenti, riappaiono sulla scena italiana dopo le nazionalizzazioni di Mussolini allo scoppiare della Guerra, le cosiddette “Sette sorelle”: la Standard Oil of New Jersey, la British Petroleum, la Standard Oil of California, la Gulf Oil, la Royal Dutch Shell, la Socony Mobil Oil e la Texas Oil. Insieme, queste compagnie che formano un inattaccabile cartello con lo scopo di spartirsi le risorse petrolifere mondiali, mantengono un monopolio e fissano prezzi su cui non ammettono intromissioni e cambiamenti di sorta (a tal proposito è emblematico il celebre motto del fondatore della Standard Oil John D. Rockefeller che ben sintetizza la linea di condotta del Cartello nei confronti di eventuali concorrenti: “Se possibile convincere. Se no, stroncare”).

Bisogna a questo punto illustrare brevemente il cuore della vicenda, per capire il funzionamento del cartello petrolifero e il perché Mattei fosse diventato così scomodo per gli interessi delle grandi compagnie e andasse quindi stroncato. Il prezzo del greggio stabilito a livello mondiale era unico a prescindere dalla provenienza e si basava sul “costo di estrazione sopportato dal produttore americano meno favorito, più il nolo dal Golfo del Messico all’Europa occidentale” (questo perché tale combinazione veniva considerata la più cara in assoluto per via degli alti costi di estrazione negli Stati Uniti e della lunghezza della tratta da compiere). Così facendo, al costo di produzione del petrolio americano veniva agganciato il prezzo mondiale del greggio, quest’ultimo tenuto artificialmente alto invece che seguire i prezzi reali praticati dai vari paesi produttori al fine di sviluppare l’industria petrolifera statunitense. In altri termini, ai petrolieri americani fu concesso di continuare a crescere liberamente senza nessun tipo di concorrenza e alcun criterio di economicità, poiché essi vedevano garantita la redditività dal fatto che il loro prezzo finale era il medesimo di quello ottenuto in Arabia Saudita o in qualunque altro paese produttore, a prescindere dal fatto che avesse potuto avere costi enormemente inferiori.

Mattei entra in questo sistema a modo suo: se prima del suo avvento il prezzo finale di vendita del greggio era costituito da un 15% di costo di estrazione, un 42,5% di royalties pagate ai governi dei Paesi produttori e un altro 42,5% di profitto netto delle compagnie petrolifere, Mattei divide per due quest’ultimo dato e garantisce perciò ai paesi produttori il 75%  dei profitti invece che il 50% (sottraendo quindi un 25% degli utili al Cartello), contribuendo ad arricchirli maggiormente e non solo. Oltre ad offrire condizioni straordinariamente più vantaggiose, strappa prezzi migliori che si tramutano in un risparmio per le imprese e le famiglie italiane, garantisce condizioni di lavoro più umane e inserisce nelle trattative, come contropartite, anche la fornitura di beni e servizi che possano aiutare le deboli economie dei paesi produttori ad emanciparsi. Mattei – per dirla parafrasando un noto proverbio – invece che dispensare pesci, insegna a pescare. Non ci vuole molto a capire la portata rivoluzionaria delle politiche del presidente dell’ENI; decenni prima che l’argomento inizi appena, appena ad essere accennato, con grande lungimiranza capisce che migliorare le condizioni di vita nei paesi d’origine delle materie prime, invece che sfruttarli trattando le popolazioni autoctone come bestie da soma, è più giusto e più conveniente per tutti. Si genera rispetto invece che risentimento, si trattano le genti che come noi s’affacciano sul Mediterraneo alla pari e non dall’alto in basso, si fanno ottimi affari dove a guadagnarci sono ambedue le parti ma soprattutto si evita a contribuire che in quei territori aumentino la povertà ed il degrado, fenomeni che un giorno (e quel giorno l’abbiamo già ampiamente superato) potrebbero tramutarsi in massicce emigrazioni di massa verso i paesi più sviluppati e, ancor peggio, in focolai di rabbia antioccidentale con conseguente comparsa di fenomeni terroristici.

Ma non c’è solo un genuino spirito volto al praticare un commercio equo. Oltre a questo, le idee di Mattei sono destinate a lasciare un profondo segno anche e soprattutto nella politica italiana: il presidente dell’ENI non vede di buon occhio l’appartenenza dell’Italia alla NATO e l’opprimente ingerenza praticata dalle potenze atlantiche – Stati Uniti in primis – in tutti i principali aspetti della nostra vita politica, interna ed estera. Gli accordi che Mattei vuole porre in essere porterebbero l’Italia ad approvvigionarsi direttamente dai paesi produttori bypassando la (costosissima) intermediazione delle sette sorelle e rompendo il monopolio americano sul greggio, dando il là ad un progressivo smantellamento della presenza americana in Italia con il fine ultimo di portare il nostro paese ad essere una potenza mediterranea indipendente, senza basi militari straniere e libera di decidere in autonomia la sua politica estera avendo una voce autorevole in quello che secolarmente è sempre stato conosciuto come Mare Nostrum.

Il contesto internazionale in cui però opera Mattei, non lo aiuta di certo, anzi. Nel pieno della Guerra fredda e della contrapposizione fra i due blocchi, il gioco di Mattei è pericoloso: come un nuovo papa Borgia, tratta con chiunque senza alcuna preclusione con il fine ultimo di realizzare il bene dell’Italia e di aumentarne il peso a livello internazionale. Conclude affari con governi dichiaratamente antioccidentali (come l’Egitto di Nasser e l’Iran di Mossadeq) quando non addirittura con l’Unione Sovietica; sostiene anche i patrioti algerini in lotta contro il regime coloniale francese per strappare a quest’ultimo gli enormi giacimenti di petrolio sahariani e, così facendo, in breve tempo si inimica l’intero mondo occidentale e buona parte dell’establishment politico, industriale e finanziario italiano, oramai longa manus degli Stati Uniti nel nostro Paese. L’uomo che ha strenuamente difeso e ampliato l’ente statale voluto da Mussolini per far grande l’Italia, è attaccato in modo veemente dalle formazioni cosiddette di destra (da gran parte della DC fino al MSI passando per il Partito Liberale) ed è invece difeso dall’ala sinistra della DC (principalmente nelle persone di Gronchi e Fanfani) così come dal PSI e dal PCI, desiderosi di vedere uno Stato forte e credibile che possa garantire la sua presenza in settori strategici invece che renderli appannaggio di privati.

Non a caso, la grossa borghesia industriale del Nord è restia alla prospettiva di difendere l’ENI, prospettiva che impedirebbe la possibilità di fare affari clamorosi in un ambito così proficuo tramite la controllata Edison: la società privata che secondo la favola del liberismo dovrebbe sostituire l’ente di Stato avvantaggiando l’iniziativa privata e quindi il consumatore, ma che in realtà funge da cavallo di Troia per le società del Cartello che s’accaparrerebbero così le concessioni sui giacimenti che l’ENI sta iniziando a sfruttare in Italia. Con il suo peso, la classe imprenditoriale osteggia Mattei in tutti i modi attaccandolo a gran voce dalle colonne del Corriere della Sera di sua proprietà – sul quale, a suon di menzogne, l’Ingegnere è paragonato ad un redivivo e pericoloso Mussolini che sta trascinando l’Italia nel baratro – e boicottandolo in politica – dove promuovendo la crescita della suddetta Edison e insinuando il pericolo di “deriva comunista” che l’Italia rischia, cerca di portare i vari governi che si succedono a strappare all’ente statale le sue concessioni, facendo venir meno la legittimazione dello Stato a portare avanti le sue coraggiose politiche.

Mattei però è più forte di tutti questi attacchi; smentisce – sempre e in prima persona – le calunnie di cui lui e l’ENI sono vittime a mezzo stampa; fonda Il Giorno per avere un giornale autorevole che difenda l’operato della sua creazione portando la verità dei fatti a conoscenza di tutti; finanzia partiti e correnti interne per garantirsi l’appoggio politico in materie strategiche e istituisce un servizio d’informazione interno all’ENI degno di quello di uno stato, coinvolgendo anche membri appartenenti ai servizi segreti. A quest’ultima mossa Mattei è costretto dalle pressioni che riceve da ogni parte e che si sono oramai tramutate in minacce, portando il nostro coraggioso uomo di Stato a doversi difendere. Dopo gli allarmanti rapporti della diplomazia americana e della CIA, preoccupati di come l’Italia stesse pian piano scivolando via dalla sua sfera d’influenza a causa dell’”uomo italiano più potente dopo l’imperatore Augusto”, sembra che i numerosi e potenti nemici del presidente dell’ENI vogliano passare ai fatti. Accade così che se nel 1961 sono solo l’accortezza e la scrupolosità del suo pilota – il quale decide di effettuare un breve viaggio di prova prima di far salire a bordo l’Ingegnere, scoprendo così il tentativo di sabotaggio – a salvarlo da un primo attentato, il 27 ottobre del 1962, in piena crisi missilistica a Cuba e con il contemporaneo appropinquarsi della lotta finale in Algeria fra il FNL di Ben Bella e le forze d’occupazione francesi (al cui interno si distingueva l’OAS per le atrocità commesse e per le minacce all’Ingegnere), Mattei – al ritorno da un viaggio in Sicilia – muore nei cieli di Bascapè, vicino a Pavia, dove il suo aereo Morane-Saulnier viene fatto esplodere.

Insieme al presidente dell’ENI muoiono l’esperto e fidato pilota personale dell’Ingegnere, Bertuzzi, e lo sfortunato giornalista americano Mc Hale che lo accompagnava per intervistarlo, trovatosi quanto non mai nel posto sbagliato e al momento sbagliato. Con la scomparsa del grande uomo di Stato italiano, scompaiono anche tutte le sue idee, i suoi progetti e le sue prossime iniziative (fra le quali meritano una menzione per la loro carica innovativa la costruzione di un oleodotto per portare il petrolio da Genova alla Germania, la penetrazione delle stazioni di servizio ENI nel mercato britannico e la realizzazione di una raffineria in Tunisia con oleodotti annessi verso il nostro Paese). L’Italia viene riportata mansueta sotto l’ala atlantica e smette di turbare le sette sorelle ed i governi occidentali, ritornando ad essere quell’entità manovrata dalle potenze straniere, incapace di esprimere una sua politica estera in autonomia e di tutelare i propri interessi nel migliore dei modi. Con la morte di Enrico Mattei scompare la figura più coraggiosa del dopoguerra e l’ENI – da lui creato – pur formalmente salvato nella sua integrità, diventerà una docile pedina facente gli interessi del cartello petrolifero agli ordini del grigio Eugenio Cefis; una condizione che si protrarrà fino al 1989, quando in seguito al venir meno della contrapposizione fra blocchi e della Guerra fredda, potrà riacquistare parte di quello spirito avventuriero e al servizio dell’Italia che così tanto Mattei aveva voluto creare.

La morte di Mattei apparve immediatamente, agli occhi dei più accorti, per ciò che era. Tuttavia, i depistaggi da parte di apparati dello Stato che qualche anno dopo sarebbero diventati così comuni e funzionali a quella strategia della tensione contrassegnata da attentati sanguinari, fecero una prima ed efficace comparsa a seguito dell’assassinio del presidente dell’ENI. Interviste televisive tagliate o alterate; ritrattazioni di testimoni oculari con contestuali regali e favori a questi ultimi da parte di un ENI ormai avviato verso un nuovo corso; madornali ed inspiegabili errori nel trattamento dei reperti dell’aereo dell’Ingegnere; campagne stampa denigratorie e volte a sottovalutare l’operato dell’Ingegnere; un assordante silenzio che scende sulla vicenda e che decreta come causa dell’evento la tragica fatalità, dovuta al brutto tempo ed alle precarie condizioni psico-fisiche del pilota; ma soprattutto, la brutta fine che accomunerà chiunque si avvicini alla morte di Mattei cercando di capirne la verità.

Saranno solo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, nel 1994, a dare certezza ai dubbi mai del tutto dissipatisi e a permettere di riaprire le indagini accertando così l’esplosione di una bomba all’interno del Morane-Saulnier di Mattei. Stando alle parole del celebre ex boss dei due mondi, la morte del presidente dell’ENI sarebbe stata frutto del fortunato e pluriennale sodalizio esistente fra le famiglie mafiose italo-americane e il governo di Washington. In pratica, la mafia siciliana avrebbe fornito la manodopera per sabotare l’aereo di Mattei su ordine dei padrini d’oltreoceano, a loro volta incaricati dai servizi segreti americani di eliminare l’uomo che stava minando enormi interessi di carattere economico e geopolitico.

Dopo queste dichiarazioni, non fu difficile unire i puntini della vicenda e dare una risposta a tutte quelle morti, ritenute sino ad allora solo parzialmente spiegabili: la prima e forse più celebre perché strettamente collegata è quella del giornalista Mauro de Mauro, incaricato dal regista Francesco Rosi (autore del meritevole film “Il caso Mattei”) di ricercare quante più informazioni possibili sulla morte del presidente dell’ENI e che pochi giorni prima della sua scomparsa – per mano della lupara bianca – aveva dichiarato ai colleghi di essere venuto a conoscenza di uno scoop che avrebbe “scosso l’Italia”. Poi quella di Boris Giuliano, il superpoliziotto ucciso dal boss Leoluca Bagarella e che aveva iniziato ad indagare sui motivi della sparizione dello stesso De Mauro; il generale dei Carabinieri CarloAlberto Dalla Chiesa che aveva dato il via allo stesso tipo di indagini per conto della Benemerita. Infine, i dubbi sulla morte del regista e scrittore Pierpaolo Pasolini, che con il suo romanzo Petrolio si era addentrato negli oscuri meccanismi che regolavano il mercato di approvvigionamento e produzione del greggio, scoprendo forse anch’egli cose di cui non sarebbe dovuto venire a conoscenza.

Se tutti questi personaggi siano morti perché realmente legati in qualche modo ad Enrico Mattei, non ci è dato saperlo con certezza. Ciò che rimane sicuro, dopo una perizia ordinata dalla procura di Pavia in seguito alle dichiarazioni di Buscetta, è la mano assassina dietro alla morte dell’Ingegnere e non la “tragica fatalità” come troppo spesso, purtroppo, si è provato a dire in un Paese che ancora fatica ad ammettere come alcuni dei suoi più cruenti fatti di cronaca abbiano avuto come mandanti quegli stessi personaggi che per spregiudicati interessi economici hanno dettato da oltre confine e per decenni la nostra politica estera, impedendo all’Italia di essere artefice del proprio destino e di condurre una politica estera congeniale alla sua posizione strategica. Un paese che a più di vent’anni di distanza dal crollo del Muro di Berlino ancora ospita (e ingrandisce) gratuitamente basi straniere e s’avventura in guerre camuffate da operazioni di pace mandando a morire i suoi soldati per interessi terzi, un Paese che viene obbligato a comprare armamenti di dubbia qualità e che ancora deve sopportare di subire colpi durissimi al suo prestigio e ad alla sua forza contrattuale (basti ricordare la ricaduta sulla nostra bilancia commerciale delle sanzioni imposte all’Iran da un’Unione Europea sempre troppo servile con gli Stati Uniti e la scellerata guerra in Libia che ha strappato all’ENI numerose concessioni a vantaggio di Francia e Stati Uniti). Il male contro cui lottava Mattei, per quanto ridimensionato, vive e lotta ancora in mezzo a noi.

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L’EUROPA DEI POPOLI VERSUS L’EUROPA DEI BANCHIERI: I BALCANI DIMENTICATI

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Modena, Sabato 30 novembre ore 17, presso Circoscrizione centro storico, P.zle Redecocca 1,
convegno per il ciclo: “L’Europa dei popoli versus l’Europa dei banchieri: I Balcani dimenticati”.

Durante l’incontro verranno presentati i libri:

Andrea Turi – Andrea Pannocchia: “Ellade 2013: La crisi della Grecia raccontata dai suoi cittadini”, Eclettica edizioni.

Stefano Vernole: “Ex Jugoslavia: Gioco sporco nei Balcani”, Anteo, 2013.

Balkan

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ŢARA ASCUNSĂ A LUI JEAN PARVULESCO

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Textul următor reproduce intervenţia din cadrul colocviului Jean Parvulesco ce a avut loc la Paris în data de 23 noiembrie 2012.

Prima mea întâlnire cu numele lui Jean Parvulesco datează din 1974, când eram obiectul atenţiei aceloraşi judecători italieni care, în cadrul unei anchete politice, se interesau şi de acest misterios român care chema la pregătire pentru aşa-zisa Endkampf (un cuvânt foarte suspect în ochii vânătorilor de vrăjitoare, care, în ortografierea lor, devenea endekampf) (1).

După anchetatori, românul ar fi vrut să realizeze, împreună cu doi dintre acuzaţi, un acord fondat pe două puncte: “a) adeziunea la politica de luptă internaţională contra bipolarismului ruso-american din perspectiva “Marii Europe”, de la Atlantic la Urali; b) contacte cu forţele gaullismului şi neutralismului Eurasian care îşi propuneau această linie internaţionalistă” (2).

Trei ani mai târziu, în 1977, am citit în buletinul Correspondance Européenne, condus de Yves Bataille, un lung articol intitulat URSS-ul şi linia geopolitică, care părea să confirme zvonurile difuzate de unii “dizidenţi” sovietici în ce priveşte existenţa unei mişcări pro-eurasiene acţionând mai mult sau mai puţin clandestin din interiorul Armatei Roşii.

Am publicat traducerea acestui articol în primul număr (ianuarie-aprilie 1978) al unei mici reviste italiene care se numea “Domani”. Autorul era Jean Parvulesco, care rezuma în felul următor tezele fundamentale ale anumitor cercuri ruseşti, prezentate ca “grupurile geopolitice ale Armatei Roşii”, teze exprimate într-o serie de documente semiclandestine care intraseră în posesia sa:

  1. 1. “Marele Continent” eurasiatic este unul şi indivizibil, “de la Atlantic la Pacific”.
  2. 2. Politica europeană a Rusiei sovietice nu trebuia deci să fie decât una de unitate continentală, solidară cu o Europă integrată în jurul Franţei şi Germaniei.
  3. 3. Unitatea Marelui Continent eurasiatic trebuie să fie urmărită, de asemenea, prin intermediul punerii în aplicare a unei structuri de relaţii economice şi politice cu Africa, lumea arabă, Japonia, Indonezia.
  4. 4. Inamicul fundamental al unităţii geopolitice eurasiatice rămân Statele Unite.
  5. 5. Misiunea istorică a Rusiei nu s-a terminat, ea abia începe.

Conform cu o “cărticică” citată în articolul lui Parvulesco, în ziua morţii lui Stalin trei sfinţi stareţi au plecat pe jos din Kiev, asumându-şi, fiecare dintre ei, responsabilitatea apostolică a renovării finale a Ortodoxiei în câte o arie culturală a Continentului. Din cei trei stareţi, Elie a luat Rusia, Alexandru “Marea Siberie”, iar Ioan Europa.

Acesta din urmă, fratele Ioan, chiar dacă a fost urmărit ani întregi de Securitatea română, ar fi produs, prin simpla sa prezenţă la faţa locului, “schimbarea interioară” a regimului comunist de la Bucureşti.

Pentru a-şi susţine afirmaţia, Parvulesco evocă mărturia romanului Incognito al lui Petru Dumitriu, care a apărut în 1962 la Éditions du Seuil.

Petru Dumitriu (1924-2002) a fost un romancier român, a cărui capodoperă, Cronica de familie, a fost şi ea publicată în Franţa de către Seuil, în 1959. În 1960, călătorind în Germania de Est, el a trecut clandestin în Berlinul de Vest şi a cerut azil politic autorităţilor franceze, care l-au refuzat; în schimb, a obţinut acest azil în Germania Federală. După aceea, el a trăit la Frankfurt şi la Metz, unde a murit în 2002.

Fratele Ioan care figurează în Incognito al lui Petru Dumitriu este foarte probabil alter-ego-ul literar al călugărului rus Ivan Kulîghin (1885- ?), reprezentant al unui filon isihast ce urcă până la stareţul ucrainean Paisie Velicicovshi (1722-1794), care a trăit în secolul al XVIII-lea la mănăstirea Neamţ în Moldova şi apoi la Optina Pustîn.

În noiembrie 1943 părintele Ivan Kulîghin a fugit din Uniunea Sovietică împreună cu mitropolitul de Rostov şi a găsit refugiu la mănăstirea Cernica, lângă Bucureşti. Numit în România Ioan Străinul, părintele Ivan a devenit ghidul spiritual al Rugului Aprins, un grup de intelectuali care îşi propuneau să reanime tradiţia isihastă.

Ivan Kulîghin a fost arestat de sovietici în octombrie 1946; urmărit în justiţie şi condamnat în ianuarie 1947 la zece ani de muncă silnică, a fost transferat în URSS, unde i s-a pierdut urma.

Jean Parvulesco nu este singurul care a vorbit despre o “schimbare interioară” produsă în România prin acţiunea Fratelui Ioan, adică a Părintelui Ivan.

Şi Alexandru Paleologu, care a fost ambasador al României la Paris, a scris că după eliberarea supravieţuitorilor grupului Rugul Aprins, care s-a produs graţie amnistierii dată de Gheorghiu-Dej, “noile generaţii, tinerii însetaţi de Dumnezeu (…) au devenit, într-un fel, martorii de gradul al doilea ai unei mişcări creştine care a ştiut să joace un rol mai important decât am fi putut crede şi care, într-adevăr, s-a arătat a fi “de cursă lungă” şi cu o influenţă profundă” (3).

După aceea, am găsit starea civilă a lui Jean Parvulesco într-o fişă a Securităţii române redactată în anii ’50, pe care o redau:

“Jean Pîrvulescu, fiul lui Ioan şi al Mariei, născut în 29 septembrie 1929 la Piteşti, ultimul domiciliu la Craiova, str. Dezrobirii nr. 25. În 1948 a dispărut de la domiciliul său şi a trecut fraudulos frontiera; în 1950 el a scris de la Paris, Franţa, apropiaţilor din Republica Populară Română. În 1956 s-a semnalat că, împreună cu spionul Ieronim Ispas, era pe cale să vină în România sub pretextul repatrierii, în misiune de spionaj. În caz că este identificat, el trebuie arestat” (4).

Piteşti, oraşul natal al lui Parvulesco, se află pe malul râului Argeş, un râu ce constituie scenariul unei faimoase legende româneşti: legenda Meşterului Manole, constructorul Mănăstirii Curtea de Argeş, care a fost comandată de Negru Vodă, personaj din care mama lui Parvulesco ar descinde.

Piteştiul este situat aproape de regiunea istorică a Olteniei, a cărei capitală este Craiova. În această regiune se află localitatea Maglavit, unde, din 31 mai 1935, un cioban analfabet cu numele de Petrache Lupu (1908-1994) era destinatarul unor comunicări ale unei entităţi pe care el o numea Moşul, şi care era considerată un fel de teofanie.

“La Maglavit şi în împrejurimi – spune presa epocii – predomină o stare de spirit complet nouă. Oamenii au primit cuvântările lui Petrache Lupu căutând să-şi impună un tip diferit de viaţă” (5).

Ecourile acestor evenimente din România (se vorbeşte despre “psihoza Maglavit”) l-au condus pe Emil Cioran să-şi schimbe părerea despre scepticismul poporului român şi să spere într-un viitor mare fenomen spiritual şi politic. “Nu putem spune, scrie Cioran, ce va fi; dar putem spune că dacă nu se naşte, suntem o ţară condamnată” (6).

Mihai Vâlsan (1911-1974) primeşte de la clarvăzătorul de la Maglavit un fel de binecuvântare; şi cum mesajele Moşului păreau să-i anunţe pe români că pământul lor urma să devină sediul unui centru spiritual aşa cum fusese deja Dacia în antichitate, Vâlsan gândeşte că toate acestea au legătură cu Regele Lumii. Se ştie continuarea acestei istorii.

Ceea ce poate să intereseze aici este poziţia lui Parvulesco faţă de aceşti doi români de expresie franceză – Cioran şi Vâlsan.

În ceea ce-l priveşte pe Cioran, Parvulesco spunea într-o discuţie cu Michel d’Urance apărută în Éléments: “Port încă în mine doliul atroce pe care l-am simţit în faţa înspăimântătoarei automutilări pe care Cioran a aplicat-o geniului său profund, inspiraţiei sale cele mai adânci, pentru a se face relativ admis banchetului nunţii democratico-marxiste de după război – care era atunci la apogeu. Nihilismul lui Cioran, atât de departe cât putea fi el dus, nu reprezentase niciodată o alegere doctrinară, nefiind decât semnul exacerbat al unei constatări a dezastrului în care căzuse civilizaţia europeană aflată la capătul drumului ei” (7).

Cât priveşte pe Michel Vâlsan, Jean Parvulesco a trebuit să vadă în el, într-un fel anume, intermediarul secret între învăţătura lui René Guénon şi cea a generalului de Gaulle.

În Spirala profetică el se întreabă: “care sunt raporturile încă prezente şi raporturile viitoare între opera lui René Guénon şi cea a lui Michel Vâlsan? A existat, există, de la una la cealaltă continuarea aceluiaşi minister, exclusiv, sau opera lui Michel Vâlsan apare sau ar începe să apară ca propoziţia sau fructul ardent al unei specificări deja diferenţiate?” (Spirala profetică, p. 75). În orice caz, Parvulesco era convins de “existenţa unei convergenţe ascuse dar foarte profunde între învăţătura lui René Guénon şi dimensiunile confidenţiale, chiar oculte, ale acţiunii istorice şi transistorice întreprinse de Charles de Gaulle (…)” (8).

 

Dacă ar fi să credem cele spuse de Jean Robin, Michel Vâlsan ar fi jucat un rol ocult pe lângă „acest mare guénonian care a fost generalul de Gaulle” (9), considerat de către Vâlsan însuşi – tot în opinia lui Jean Robin – printre „prefigurările lui Mahdi” (10), care s-au manifestat în sec. XX. După o informaţie pe care declară că a primit-o de la „anumiţi discipoli ai lui Michel Vâlsan” (11), Jean Robin face aluzie la o corespondenţă epistolară între Vâlsan şi General, ca şi la o „misterioasă iniţiere” pe care primul i-ar fi transmis-o celui de-al doilea în grădinile de la Élysée; el adaugă că Vâlsan era în măsură să anunţe dinainte discipolilor săi deciziile lui Charles de Gaulle, chiar şi pe cele mai puţin previzibile.

Cu toate acestea, Michel Vâlsan nu figurează în lista de scriitori care, aşa cum spune Parvulesco în conversaţia ce a apărut în Éléments, „au contat cel mai mult pentru el, care au nutrit subteran opera sa”. Este vorba despre o listă de treizeci şi şase de autori, printre care se numără Virgiliu şi Dante, Rabelais şi Pound, Gobineau şi Saint-Yves d’Alvéydre; îi găsim, de asemenea, pe Haushofer, Hamsun, Drieu La Rochelle, Céline, Guénon, Corbin, Heidegger.

Singurul compatriot pe care Parvulesco l-a citat în această listă este „Basile Lovinesco”, adică Vasile Lovinescu (1905-1984), care ne-a lăsat exegeza ermetică a legendei Meşterului Manole.

De altfel, atunci când în Spirala profetică citim fraza despre „remanenţele carpatice ale vechiului cult al zeului Zamolxis” (12), ne vine în minte, evident, Vasile Lovinescu, cu eseul său despre Dacia hiperboreeană, scris sub pseudonimul de Geticus, care a apărut iniţial în franceză, în mai multe numere ale revistei Études traditionnelles, între anii 1936-1937.

În ceea ce-l priveşte pe Mircea Eliade, în convorbirea cu Michel d’Urance, Jean Parvulesco spune că, după o informaţie pe care a primit-o în redacţia de la Études traditionnelles, Jean Daniélou i-ar fi cerut lui Eliade, în numele Papei Pius al XII-lea, să se angajeze în demersul intelectual având ca scop expunerea unei noi viziuni a istoriei religiilor, pentru a combate în mediile universitare hegemonia culturală a marxismului şi a derivatelor sale. Angajarea lui Eliade în această întreprindere, observă Parvulesco în convorbirea citată mai sus, „nu i-a mai permis să se ocupe la fel de mult de literatură, în vreme ce romanele sale româneşti de dinainte de război, ca şi nuvelele mai recente, nu au încetat să dovedească clar extraordinara sa vocaţie de romancier”.

Parvulesco ne spune că două nuvele ale lui Eliade, Nopţi la Serampore şi Secretul doctorului Honigberger (care au apărut în România în 1939 şi, respectiv, în Franţa, la editura Stock, în 1956 şi 1980) ascund o concepţie tantrică ocultă şi interzisă ce priveşte suspendarea şi schimbarea cursului şi substanţei înseşi a istoriei (13).

El ne spune, de asemenea, că toate marile romane româneşti scrise de Eliade înainte de război „dau seama, în mod patetic, de procesul acestei generaţii (adică a „noii generaţii” române dintre cele două războaie mondiale), de mari mistici sacrificaţi într-un plan providenţial foarte ocult şi care au suferit, într-un fel, încercarea une morţi sângeroase, până la a o atrage asupra lor în mod inexorabil” (14).

Printre romanele eliadeşti, Parvulesco a fost impresionat mai ales de Întoarcerea din Rai, şi aceasta din cauza unui citat poetic inserat în text. El scrie: „Citind, încă adolescent, Întoarcerea din Rai a lui Mircea Eliade, mi-am dat seama într-adevăr de puterile supraomeneşti ale unui imn orfic scris de Dan Botta, care era citat acolo (fără îndoială, conform cu un plan). Patruzeci de ani după aceea, fragmente din imnul orfic al lui Dan Botta încă mă bântuie. (…) În chiar secunda primei lecturi a imnului orfic al lui Dan Botta, Chidher cel verde a venit spre mine, adus de vârful unui imens val de lumină verde, supracosmică, primară (…) a Căii Deltaice, care priveşte umanitatea în ciclurile devenirii sale imperiale oculte de dinainte şi de după ciclul actual, Cale Deltaică condusă în abisuri de divina Una, tânăra femeie verde, fecioara supracosmică al cărei nume şi figură iradiantă se perpetuează iraţional în remanenţele carpatice ale vechiului cult al zeului Zamolxis” (15).

Românul Dan Botta (1907-1958), poet, dramaturg, eseist, filolog, traducător din Sofocle, Euripide, Shakespeare, Villon şi Poe, aparţinea „noii generaţii” şi era aderent la Mişcarea Legionară; el a fost membru al comitetului de conducere la Enciclopediei Române şi a fondat, în 1941, revista Dacia.

Ca poet, el a debutat în 1931 cu un volum de versuri intitulat Eulalii şi prefaţat de Ion Barbu (1895-1961), în care se găseşte cea mai celebră dintre creaţiile sale poetice, Cantilena, scrisă în formele şi ritmurile unei poezii populare. Ori, „imnul orfic al lui Dan Botta” este chiar Cantilena iar pasajul citat de Eliade, care l-a bântuit atâta vreme pe Jean Parvulesco:

Pe vântiri ascult

Orficul tumult

(…)

Oh, mă cheamă-ntruna

Palida nebuna

Fata verde Una,

Şi-n mine se strânge

Piatra ei de sânge…

 

Parvulesco ne oferă o frumoasă traducere a acestei poezii, mai liberă, după toate aparenţele aparţinându-i chiar lui:

exposé sur les hauts vents

un orphique tumulte j’entends

 

quand elle dresse soudain sa lyre,

la fille verte de mon délire

 

Una, et qu’en moi se tend

la pierre rouge de son sang.

 

În acelaşi capitol din Întoarcerea din Rai unde sunt citate versurile Cantilenei, câteva personaje ale romanului lui Eliade încearcă să înţeleagă de ce femeia iubită de protagonist, Anicet, poartă numele de Una; unul dintre ei se gândeşte la Junona etruscilor, care se numea Uni, în vreme ce altul de gândeşte la Dialogul dintre Monos şi Una de Edgar Poe. Dar nu se ajunge la o explicaţie definitivă.

În 1960, după douăzeci şi şase de ani de la publicarea Întoarcerii din Rai, Mircea Eliade a revenit asupra versurilor din Cantilena, scriind într-o revistă a emigraţiei române: “Pentru Dan Botta, lumea devine reală atunci când începe să-şi reveleze structurile profunde, adică, atunci când ochiul spiritului începe să înţeleagă, dincolo de aparenţe, imaginile eterne, figurile mitice. Pătrunzi în misterul unei nopţi de vară când ajungi să ţi-l revelezi ca în versurile din Cantilena: “’Pe vântiri ascult – Orficul tumult – Când şi ardică struna – Fata verde, Una, – Duce-i-aş cununa…’ Atunci cosmosul întreg îşi devoalează semnificaţiile profunde, căci vântul, luna erau semnul miturilor şi dramelor vechi, care făceau deja parte din istoria spirituală a omului. Mai exact: a omului balcanic, înţelegând prin acest termen etno-geografic întreaga Europă de Est (…) Dan Botta avea o slăbiciune pentru acest teritoriu (…) Într-un anume fel era o geografie sacră, pentru că pe aceste câmpii şi în aceşti munţi oamenii îi întâlniseră pe Apolo şi Dionisos, Orfeu şi Zamolxis” (16)

Relaţia dintre divinitatea supremă a dacilor şi activitatea lui Eliade a fost subliniată de Jean Parvulesco, care, apropos de “remanenţele carpatice ale vechiului cult al zeului Zamolxis”, scrie: “De altfel, chiar înainte de ultimul război, Mircea Eliade nu începuse el oare editarea unei colecţii de caiete de istoria religiilor intitulate chiar Zamolxis?” (17)

Pentru a reveni la “fata verde Una”, trebuie să cităm un alt pasaj din Spirala profetică, anume următorul: “Reamintesc că, în anumite grupări spirituale actuale dintre cele mai speciale şi mai retrase, în data de 7 iulie (să reţinem această dată) se ţin întruniri în cel mai mare secret pentru a o celebra pe “zeiţa verde” Una, cea infinit de absentă, infinit de îndepărtată, infinit de silenţioasă, dar care, în curând, nu va mai fi aşa” (18).

În “fata verde Una” evocată de Dan Botta, Eugène Ionesco a văzut o epifanie a Dianei, ataşată de mitologia legionară, probabil pentru că verdele era culoarea simbolică a Gărzii de Fier.

Dar trebuie spus, de asemenea, că în Dacia s-au găsit numeroase inscripţii dedicate Dianei (Diana regina, adevărată şi bună, melifica), cu care a fost identificată o divinitate traco-getică.

Trebuie adăugat că numele latin de Diana a dat în româneşte numele “zână”, în vreme ce Sfânta Diana a dat forma de plural Sânziene. Sânzienele sunt sărbătorite în noaptea de 24 iunie, o sărbătoare solstiţială ce coincide cu naşterea Sfântului Ioan Botezătorul. Chiar această noapte este “noaptea de vară” pe care Eliade – în pasajul pe care vi l-am citit – a pus-o în relaţie cu versurile Cantilenei care îl bântuiau pe Jean Parvulesco.

Reamintesc de asemenea că Noaptea de sânziene este titlul unui roman al lui Mircea Eliade (publicat în 1955 la Gallimard cu titlul Forêt interdite) unde protagonistul, Ştefan Viziru, se află arestat cu legionarii la Miercurea Ciuc, exact aşa cum a fost Eliade.

Or, Jean Parvulesco a scris un text mistic care se cheamă Diana în faţa porţilor de la Memphis, publicat exact pe 7 iulie 1985 şi prezentat ca o liturghie a Dianei.

Cine este deci această Diana celebrată de Jean Parvulesco? După cum spune el, am putea s-o identificăm cu misterioasa “femeie acoperită de soare, cu luna la picioare şi încoronată de douăsprezece stele” (19) care se află în centrul viitoarei civilizaţii imperial eurasiatice.

Trebuie deci să subliniem o altă convergenţă esenţială între Mircea Eliade şi Jean Parvulesco. Este vorba despre recunoaşterea lor comună a destinului unitar al Continentului eurasiatic. În convorbirile sale cu Claude-Henri Rocquet, Eliade declara că a descoperit că în Europa “rădăcinile sunt mult mai profunde decât credeam (…) Aceste rădăcini ne relevă unitatea fundamentală nu numai a Europei, dar şi a întregii ekumene care se întinde din Portugalia în China şi din Scandinavia în Ceylon” (20)

Aproape simultan, Jean Parvulesco se angaja pe căile devenirii noii Europe mari-continentale, ale Imperiului Eurasiatic al Sfârşitului”.

 

 

 * Am tradus prin „ţara ascunsă” expresia originală retroterra romena în italiană, respectiv, arrière-pays roumain în franceză. Este vorba despre „ţara din spate” (în germană, hinterland – termen cu valenţe geopolitice prea vădit economice pentru a fi potrivit aici) (n. trad.) 

 

1. Fiasconaro e Alessandrini accusano. La requisitoria su la strage di Piazza Fontana e le bombe del ’69, Marsilio, Padova 1974, p. 231.

2. Fiasconaro e Alessandrini accusano, cit., p. 142.

3. André Paléologue, Le renouveau spirituel du “Buisson Ardent”, “Connaissance des Religions”, avril 1990, p. 132.

4. Mihai Pelin, Culisele spionajului românesc. D.I.E. [Direcţia de Informaţii Externe] 1955-1980, Editura Evenimentul Românesc, Bucarest 1997, p. 42.

5. H. Sanielevici, Rasa lui Petrache Lupu din Maglavit, “Realitatea Ilustrată”, IXe année, n. 447, 14 août 1935.

6. E. Cioran, Maglavitul şi cealaltă Românie, “Vremea”, VIIIe année, n. 408, 6 octobre 1935, p. 3.

7. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, “Éléments”, 126, Automne 2007, pp. 54-57.

8. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, Guy Trédaniel, Paris 1986, p. 76.

9. Jean Robin, René Guénon. La dernière chance de l’Occident, Guy Trédaniel, Paris 1983, p. 9.

10. Jean Robin, Les Sociétés secrètes au rendez-vous de l’Apocalypse, Guy Trédaniel, Paris 1985, p. 211.

11. Jean Robin, Les Sociétés secrètes au rendez-vous de l’Apocalypse, cit., p. 335.

12. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, cit., p. 325.

13. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 255-256.

14. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 324-325.

15. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, p. 325.

16. Mircea Eliade, Fragment pentru Dan Botta, “Prodromos”, 7, juillet 1967, p. 21.

17. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 325-326.

18. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 328.

19. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, cit., p. 53.

20. Mircea Eliade, L’épreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, p. 70

 

Traducere de Cristi Pantelimon

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ITALIA-CINA UN DIALOGO NECESSARIO: A PRATO IL 20 NOVEMBRE 2013

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A Prato il 20 novembre 2013

Polo Universitario, aula Blu, ore 17.00

La crisi economica globale che ormai da 5 anni ha investito l’Italia e l’Europa tutta, impone di ripensare il nostro rapporto con il resto del mondo, da troppi anni ormai incentrato su logiche eurocentriche ed atlantiche.

Un rapporto privilegiato con la Repubblica Popolare Cinese apre nuove ed importanti opportunità per uscire dalla spirale recessiva e offre la possibilità di delineare un nuovo scenario di relazioni umane policentrico.

Ma per amarsi è necessario conoscersi.

La Cina non è soltanto un grande mercato per le nostre aziende, rappresenta un modello culturale con il quale è necessario confrontarsi per progettare il mondo a venire

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http://www.cese-m.eu/cesem/2013/11/italia-cina-un-dialogo-necessario-a-prato-il-20-novembre-2013/

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IL RITORNO DELLA DIPLOMAZIA NELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

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La diplomazia è la continuazione della guerra con altri mezzi, quando la diplomazia fallisce si slitta facilmente verso la guerra e diventa poi molto difficile ricondurre un conflitto armato a disputa diplomatica.

Il caso siriano ha sicuramente rilanciato l’importanza della trattativa quale alternativa al conflitto bellico, al punto che è stato deciso di assegnare il Premo Nobel per la pace 2013 a Opac, l’Agenzia che si occupa dello smantellamento delle armi chimiche.

Onorificenza che molti ritengono sarebbe stato opportuno assegnare al Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, vero protagonista della mediazione tra Damasco e Washington.

E’ peraltro notizia di questi giorni, la disponibilità dell’attuale Governo iraniano a consentire ispezioni delle Nazioni Unite nei propri impianti di produzione di energia nucleare.

Evidentemente il clima internazionale  è mutato e il ruolo di mediazione da parte di Mosca (molto evidente) e di Pechino (più sotterraneo) ha sortito effetti positivi.

Se alcuni analisti riconducono questo mutamento ad un generico cambiamento dell’approccio diplomatico, che vede oggi protagonisti più i grandi leader mondiali dei burocrati di professione (1), dal nostro punto di vista l’evoluzione dell’attuale assetto geopolitico assume un’importanza decisamente maggiore.

Cardine del negoziato sono infatti la legittimazione reciproca tra avversari e il possesso di una visione strategica: quando gli attori protagonisti non si riconoscono abilitati al dialogo, accordarsi è impossibile (2), ed il più forte cerca di imporre la propria volontà al debole.

Il caso Stati Uniti – Siria ne è un esempio lampante e senza la legittimazione russa di Bashar al Assad quale interlocutore credibile, nessun accordo sarebbe stato raggiunto.

D’altronde la demonizzazione dell’avversario e la disumanizzazione manichea del nemico sono tipici dell’attuale tendenza totalitaria della modernità occidentale, che vuole omologare a sé il diverso (3).

La categoria della difesa dei “diritti umani” è stata, a partire dagli anni Novanta, il grimaldello con il quale gli Stati Uniti d’America hanno stravolto il principio cardine del diritto internazionale  – cioè la non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano – conferendo legittimità alle guerre “umanitarie” volute da Washington e dai suoi alleati dal 1991 in avanti.

Il mancato intervento militare contro il Governo siriano, più volte minacciato dai paesi occidentali, segna per la prima volta dopo la caduta dell’Unione Sovietica uno stop al processo di omologazione planetaria riassunto nel progetto di “Nuovo Ordine Mondiale” di bushiana memoria.

Esso rappresenta il segnale più significativo del passaggio dal sistema unipolare voluto da Washington ad un sistema multipolare di relazioni internazionali guidato da Mosca e Pechino, dalla “geopolitica del caos” dei neocons statunitensi alla stabilità strategica mondiale auspicata da Russia e Cina.

Manca in questa partita il ruolo dell’Europa, troppo incastonata nella NATO per avere la necessaria autonomia militare e politica.

Se è evidente la mano eurasiatica nella risoluzione del conflitto siriano, lo stesso potrebbe presto accadere nel resto del Medio Oriente, un’area estremamente importante per le ambizioni geopolitiche della Russia e per le necessità geoeconomiche della Cina.

E’ ormai chiaro come nella questione palestinese gli Stati Uniti non possano più svolgere una mediazione credibile.

Nelle attuali trattative rilanciate dalla Casa Bianca con il “Piano Kerry”, già la nomina di Martin Indyk (ex Ambasciatore USA a Tel Aviv) quale capo negoziatore  stona con il contesto e incarna la continuità con le precedenti e fallimentari politiche nordamericane nell’area.

Durante l’Amministrazione Obama l’ammontare degli aiuti militari ad Israele ha raggiunto nel 2013 la cifra record di 3,1 miliardi di dollari, un sostegno sempre maggiore giustificato – secondo le parole degli stessi funzionari del Governo di Washington – dall’interesse nazionale statunitense.

Ad esso è corrisposto un aumento esponenziale della colonizzazione sionista della Palestina: tra il 2009 e il 2011 la spesa israeliana per gli insediamenti nei “territori occupati” è cresciuta del 38% (era stata del 35% tra il 2002 e il 2012), mentre il quartetto chiamato al ruolo di mediazione (USA, UE, ONU e Russia) rilasciava ben 39, inutili, dichiarazioni congiunte di condanna dell’espansione degli insediamenti.

Molto più efficace potrebbe risultare un’iniziativa guidata direttamente dal Cremlino, che possiede sia la credibilità necessaria nel campo palestinese (per il passato prestigio dell’Unione Sovietica) sia le armi di pressione per costringere Israele a fare concessioni (presenza degli immigrati russi, fornitura di armi all’Iran), uscendo anche dalla logica della soluzione a “due Stati” ormai  inattuabile.

Infine l’Egitto, unico paese in grado di garantire stabilità a tutto il Medio Oriente grazie alla posizione strategica (controllo del Canale di Suez), alla forza del proprio esercito e al ruolo decennale di mediatore tra israeliani e palestinesi.

Obama non solo ha prima sostenuto apertamente il regime islamista guidato da Morsi e dai Fratelli Musulmani, ma ha successivamente tagliato gli aiuti militari promessi all’Egitto proprio mentre i generali del Cairo erano impegnati a combattere i guerriglieri salafiti nella zona del Sinai.

Già a settembre la visita a Mosca (la prima al di fuori del mondo arabo) del Ministero degli Esteri egiziano, Nabil Fahmy , aveva assunto toni estremamente significativi: “Vogliamo un nuovo livello di qualità nelle relazioni con la Russia in tutti i settori e ringraziamo Mosca per la sua posizione su quanto sta avvenendo in Egitto”.

Gli analisti del Cremlino hanno infatti tracciato un parallelo tra quanto sta accadendo al Cairo e gli avvenimenti algerini del 1992, quando l’esercito assunse il controllo del paese in seguito alla vittoria del FIS.

Con la differenza che l’Egitto potrebbe evitare di scivolare nella guerra civile, in quanto i poteri sono stati opportunamente trasferiti al capo della Corte costituzionale suprema Adly Mansour.

Secondo i russi, l’esercito egiziano dovrebbe liberare alcuni uomini chiave attualmente sotto custodia, sollecitare un dialogo nazionale e riaprire tutti i canali televisivi, eliminando invece quei militanti radicali che stanno spostando il loro raggio d’azione in Siria, dove compiono attentati terroristici.

Comprensibile perciò l’atteggiamento dell’uomo forte del Cairo, il generale Abdel fatah al-Sisi, per cui “se gli Stati Uniti hanno deciso di boicottare il nuovo corso democratico dell’Egitto, agli egiziani non resta che prenderne atto e cercare nuove alleanze strategiche”.

Posizione che coincide con i desideri di Mosca (e di Pechino), in quanto secondo il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov: “La Russia è interessata alla stabilità in Egitto e nel Medio Oriente nel suo complesso … il popolo egiziano deve scegliere il suo percorso di sviluppo futuro e vogliamo che l’Egitto abbia un ruolo di primo piano nel mondo arabo” (4).

 

 

* Stefano Vernole è redattore di “Eurasia”

 

 


Note

1 -Lucio Caracciolo, “La via precaria della diplomazia”, Rubrica Il Punto, pubblicato su La Repubblica il 19/9/2013.

2 -Ibidem.

3 -Massimo Fini, “Il vizio oscuro dell’Occidente”, Marsilio, Venezia, 2002.

4 -Rights reporter, “Obama consegna l’Egitto alla Russia su un piatto d’argento”, 12 ottobre 2013.

 

 
http://www.cese-m.eu/cesem/2013/11/il-ritorno-della-diplomazia-nelle-relazioni-internazionali/

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LA LOTTA DI AL-SHABAAB PER LA SOPRAVVIVENZA

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La Somalia ha vissuto gli ultimi venti anni senza un governo effettivo, amministrata dai locali signori della guerra e distrutta da un tremendo conflitto civile. Si tratta insomma di un “Stato fallito” da ricostruire: ai problemi economici e istituzionali si affiancano e si aggiungono quelli della sicurezza del Paese. Infatti il gruppo ribelle somalo al-Shabaab non è ancora stato sconfitto e mira ad approfittare del vuoto di potere, giacché il controllo del governo federale dell’attuale presidente Hassan Sheikh Mohamud non va oltre la periferia di Mogadiscio.

 

Lo scorso agosto ad Addis Abeba si sono svolti i negoziati fra le autorità centrali della Somalia e quelle della regione autonoma dell’Oltregiuba (nota come Jubaland) per definire un accordo comune che possa porre finalmente fine al periodo d’instabilità della città di Chisimaio. Il suo porto costituisce uno dei principali elementi d’importanza strategica della relativa regione, poiché permette commerci leciti e illeciti nel settore della pesca e del commercio del carbone vegetale e, soprattutto, quelli riguardanti gli aiuti umanitari. Questa condizione ha attirato da sempre gli interessi di gruppi politici e clan locali, e in particolare del gruppo gihadista Harakat al-Shabaab al-Mujahideen, o semplicemente al-Shabaab.

Dopo aver conquistato Chisimaio nel settembre del 2006, stabilendovi la seconda base più importante dopo Mogadiscio, al-Shabaab ha sviluppato numerosi traffici, soprattutto rubando gli aiuti umanitari e gestendo le attività della pesca di frodo. Il successivo intervento dell’Etiopia in Somalia nel dicembre dello stesso anno ha interrotto il controllo sulla città da parte del gruppo gihadista, costretto a una disordinata fuga nelle vicine aree rurali. Tuttavia il governo etiope non ha saputo garantire un adeguato controllo della regione e la lotta di potere fra i clan locali ha favorito clamorosamente il gruppo islamista, che è ritornato a Chisimaio nell’agosto del 2009. Negli anni successivi, la città è diventata la loro nuova roccaforte somala sino al settembre del 2012, quando è stata liberata grazie all’intervento del Kenya, sostenuto militarmente dagli Stati Uniti e dalla Francia, e al sostegno di alcune milizie locali ostili alle forze gihadiste[1].

Si trattò di una pesante sconfitta per al-Shabaab, che dovette abbandonare le proprie roccaforti urbane dell’Oltregiuba, ripiegando in aride aree rurali non ancora controllate dalle forze governative e dai caschi verdi dell’AMISOM (African Union Mission in Somalia). Ciononostante, la minaccia derivante dalle loro attività è ancora presente e concreta, come dimostrato sia dalle sporadiche ma sanguinose azioni terroristiche compiute solitamente a Mogadiscio sia, soprattutto, da attentati “spettacolari” come quello di Nairobi dello scorso settembre, realizzato per vendicare l’intervento militare keniota in Somalia, e che ha causato oltre 60 morti e centinaia di feriti[2].

Dopo la caduta di Chisimaio, il gruppo ha perso di fatto il controllo delle attività illecite collegate ai porti sulla costa meridionale e, soprattutto, si è ritrovato sfaldato sul piano organizzativo, dato che aveva perso gran parte dei militanti a causa di una feroce guerra intestina. Al momento, il capo è Moktar Ali Zubeyr (noto anche come Ahmad Abdi Godane), il quale pare si sia impegnato soprattutto a reprimere ogni tipo di opposizione all’interno dello stesso gruppo, generandone involontariamente la progressiva disgregazione. Questa condotta si è riflessa anche negli aiuti che tradizionalmente la rete del gihadismo internazionale riusciva a consegnare in Somalia ad al-Shabaab, giacché sono drasticamente diminuiti. A sua volta, ciò ha spinto i dirigenti del gruppo ad approfittare dell’impostazione delle note “tasse rivoluzionarie” nelle aree controllate per sostenere le proprie unità combattenti, ma ciò ha causato la più feroce ostilità da parte delle popolazioni civili.

L’unica possibilità di sopravvivenza economica del gruppo islamista si basa sul commercio del carbone. Secondo un rapporto dell’ONU, al-Shabaab ha intascato più di 25 milioni di dollari statunitensi dal commercio del carbone nel 2011: le esportazioni illegali di carbone valgono più di 360 milioni di dollari statunitensi sul mercato internazionale, che per il gruppo gihadista sono necessari per finanziare le proprie attività. L’ONU, pertanto, ha annunciato l’intenzione di bloccare il flusso di denaro necessario ad al-Shabaab, sollecitando i Paesi del Vicino Oriente a mettere fine al commercio multimilionario di carbone che lo finanzia. Infatti, proprio i Paesi del Golfo Persico (in particolare gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita) sono i principali importatori del carbone somalo, nonostante il divieto del Consiglio di Sicurezza[3].

Nel frattempo, a Bruxelles si è svolto un incontro internazionale che ha visto la partecipazione proprio dei Paesi del Golfo Persico e dell’Unione Europea, di Stati Uniti, Cina, Russia e Giappone, oltre alle principali organizzazioni internazionali. In occasione dell’incontro è stato approvato un programma da attuare entro il 2016, che prevede la donazione di 1.800 milioni di euro che serviranno a stabilizzare la Somalia e a ripristinarne l’economia. Sebbene ci siano numerosi interessi che ruotano intorno alla Somalia (petrolio e non solo), ci si è nuovamente occupati della “questione somala” quando si è diffuso al largo del golfo di Aden il fenomeno della pirateria, una delle principali fonti di finanziamento di al-Shabaab. Pertanto è stata messa a punto una missione marittima (operazione Atalanta) per arginare il fenomeno, che mette seriamente a rischio il flusso di commerci nei mari al largo del Corno d’Africa: soprattutto quello del petrolio proveniente dal Golfo Persico.

 

 

 

 

[1] Anon., Troops lay siege to Somali rebel bastion, “Al Jazeera”, 28 settembre 2012.

[2] Anon., Somalia’s al-Shabab claims Nairobi Westgate Kenya attack, “BBC”, 22 settembre 2013.

[3] K. Manson, UN pushes Gulf to cut off al-Shabaab economic lifeline in Somalia, “Financial Times”, 13 settembre 2013.

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